Saper vivere la sofferenza
DOI:
https://doi.org/10.7346/-fei-XVIII-02-20_08Abstract
Oggi discutere di sofferenza, di dolore, di disgrazia, sembra quasi impossibile in un mondo dominato dal mito della felicità, del benessere, del profitto ad ogni costo. Può la sofferenza educare allo sviluppo e alla crescita della persona? Se riconosciamo che godere della felicità è la massima aspirazione a cui tende ognuno di noi dobbiamo ammettere che il termine felicità rimanda ad un orizzonte semantico vasto e complesso che sembra escludere qualsiasi forma di sofferenza e di dolore. Possiamo pensare l’educazione in cui la sofferenza sia occasione di crescita sia del pensiero che di un soggetto autonomo? È possibile gestire relazioni che partendo dalla sofferenza e dal concetto di finitudine fondino la possibilità di comprendere la complessità dell’umano? Pur in spazi formalizzati, è possibile promuovere una cultura del fare scuola come cura dei rapporti per dare un orizzonte di senso all’esistenza e all’esperienza umana, compresa quella educativa? Un dato ci sembra fuori discussione: senza un plausibile orizzonte di senso, la riflessione pedagogica e la prassi educativa sono minate alla radice (Mollo, 1996).
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