Quando ad uccidere sono bravi ragazzi. Psicopatologia o patologia sociale?
Autori
Roberto Catanesi
Felice Carabellese
Giuseppe Troccoli
Abstract
Omicidi efferati, apparentemente incomprensibili, commessi da bravi ragazzi. Siamo davvero in presenza di un preoccupante aumento del numero di gravi delitti commessi da giovani o si tratta solo di percezione collettiva alimentata dallo straordinario interesse mediatico verso alcuni di questi episodi? Qualcosa sta cambiamento, sul piano qualitativo, della motivazione ad uccidere ed in tal caso è legata a fattori psicopatologici individuali o all’influenza di cambiamenti della struttura sociale? Da questi due quesiti gli Autori sono partiti nella loro riflessione. L’analisi delle statistiche giudiziarie consente di dire che l’andamento degli omicidi e dei tentati omicidi commessi da minori non appare aumentata in modo significativo negli ultimi dieci anni, lasciando invece emergere un incremento rilevante da parte degli stranieri residenti in Italia. Nella maggior parte dei casi i delitti dei minori sembrano inserirsi in un contesto socio-culturale caratterizzato dal coinvolgimento in attività delinquenziali con adulti, legati più spesso alla criminalità comune, che tocca minori che sono rapidamente usciti dal circuito scolastico. Esiste peraltro un 20% di delitti commessi da ragazzi non problematici in danno dei familiari. Per la comprensione della motivazione a delinquere di questi ragazzi è necessaria una analisi che, insieme a fattori individuali, tenga conto del contesto familiare ma anche dei cambiamenti culturali, sociali che attraversano la nostra società, come questi possano influenzare l’espressività fenomenica dei comportamenti. La riflessione è partita dall’approfondimento del concetto di “crisi” adolescenziale anche per comprendere quale sia la risposta dei genitori, in che misura funzionale ed adattativa. Si è accentrata l’attenzione sull’atteggiamento iper-protettivo dei genitori, animato dall’intento di preservare il figlio da sofferenze e disagi, protezione tuttavia estesa al punto da non consentire adeguata elaborazione delle esperienze dolorose, anzi tesa ad escludere volontariamente il contatto con ogni forma di esperienze dolorose, anche la più piccola, contribuendo così a cristallizzare le tipiche istanze adolescenziali di egocentrismo ed onnipotenza che poi conducono ad aspettative velleitarie ed alla incapacità di gestire la frustrazione. Si ritiene che tutto ciò possa favorire il prolungamento della fase adolescenziale dando un apporto al sempre più frequente fenomeno dei “giovani adulti”, poco o nulla capaci di differire desiderio e impulsività, di reggere la frustrazione, di dilazionare i bisogni, di provare sentimenti empatici per l’altro, modello ad un tempo psicopatologico ma anche socialmente indotto che, in determinati momenti e contesti di vita, può sfociare nella distruzione dell’ostacolo frustrante, anche se l’ostacolo è una persona, un genitore.