Il comportamento aggressivo in psichiatria: un approccio ermeneutico come chiave di prevenzione del rischio e di valutazione della responsabilità professionale
Autori
Cristiano Barbieri
Alessandra Luzzago
Abstract
In psichiatria i quadri diagnostico-clinici sono molteplici: dalle forme schizofreniche ai disturbi di personalità, dai disturbi dell’umore a quelli d’ansia, dalle disfunzioni sessuali alle parafilie, dai disturbi post-traumatici a quelli dell’adattamento fino ai disturbi mentali su base organica. In ciascuna di queste fattispecie, vi è una differente ed intrinseca potenzialità ad agire comportamenti aggressivi, preceduti ed accompagnati da sintomi e segni diversi; inoltre, tale eventualità chiama in causa anche la personalità del soggetto, la sua cultura e la situazione contingente, oltre alla compliance individuale rispetto alla terapia ed all’operatore. La comparsa di un comportamento violento rappresenta senza dubbio una situazione di emergenza in ambito clinico, ma la gestione dell’aggressività si inscrive in un protocollo di intervento che implica sia la valutazione delle risorse del paziente e dell’ambiente, sia una puntuale disamina del rischio, sia un attento bilanciamento tra rischi e benefici di ogni scelta terapeutica, nel contesto più generale di una corretta presa in carico del soggetto nelle varie fasi della diagnosi, della terapia, della prognosi e della riabilitazione. La finalità del presente contributo è quella di proporre un approccio di tipo ermeneutico alla condotta aggressiva in ambito psichiatrico, sia perché esso può diventare un indispensabile strumento terapeutico nel rapporto medico-paziente, sia perché può fornire, anche a posteriori, una chiave di lettura per valutare gli estremi di un’eventuale responsabilità professionale del sanitario. In sede psicopatologica, infatti, un agito violento, auto- e/o eterodiretto, rappresenta non solo un’eventualità più che verosimile, da prevenire quanto più possibile nell’ottica della salvaguardia del diritto del paziente alla tutela della sua salute, ma anche una più che plausibile causa di responsabilità professionale per il terapeuta. Questo, infatti, si trova ad essere investito di compiti non solo di diagnosi, ma anche di prognosi e di prevenzione nell’ambito più ampio della presa in carico e della cura del paziente, sia per garantire al medesimo il predetto diritto sancito dall’art. 32 della Costituzione, sia per tutelare gli operatori stessi, o eventuali terzi, in caso di condotte distruttive agite dal malato. Un’impostazione ermeneutica, per sua natura finalizzata all’interpretazione dei fenomeni e, di conseguenza, alla ricerca del loro significato, cioè all’esplicitazione dei loro impliciti significanti, può essere molto importante in una prospettiva preventiva, poiché, quando il terapeuta, nel suo rapporto con il paziente, cerca il senso dell’aggressività di quest’ultimo, può anche coglierne l’entità del rischio di passaggio all’atto; il che, da un lato, consente allo specialista di attivare per tempo adeguate misure preventive, nell’esclusivo interesse della salute del malato, mentre, dall’altro, permette al consulente tecnico di ravvisare quegli elementi di conferma, o meno, dell’ottemperanza ad un’obbligatorietà di mezzi da parte del sanitario, nella valutazione della prevedibilità e prevenibilità dell’evento illecito. In proposito, si ricorda che i contributi dell’ermeneutica hanno avuto importanti influssi su altre discipline scientifiche, come la psicanalisi, con la quale condivide la riflessione sul simbolo, sul linguaggio e sui contenuti delle storie cliniche dei pazienti e su quanto di non esprimibile vi è comunque celato; oppure come la psicoterapia, dato che, in ogni colloquio clinico, è possibile costruire significati condivisi, che possono ravvisarsi se collocati in una dimensione nella quale è sempre la totalità del discorso ad armonizzare i diversi frammenti.In tale ottica, impostare il rapporto terapeuta-paziente in senso ermeneutico può fornire valide conoscenze non solo per stilare un fondato giudizio prognostico, ma anche per avviare una valida attività preventiva, al punto da proteggere sia il paziente che agisce una condotta aggressiva, sia terze persone eventualmente coinvolte in essa, sia lo specialista stesso dagli estremi di un’eventuale responsabilità professionale.