Follia e reato nella storia della Psichiatria. Osservazioni storiche sul rapporto tra assistenza psichiatrica e carcere
Autori
Paolo Francesco Peloso
Tullio Bandini
Abstract
L’articolo esamina il rapporto tra la psichiatria e l’istituzione carceraria tra l’inizio dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, per cogliere affinità e differenze con i temi all’ordine del giorno del dibattito odierno. Le Riunioni degli Scienziati Italiani ebbero il merito di rappresentare un importante momento di confronto scientifico nazionale prima della realizzazione politica dell’unità d’Italia. All’inizio degli anni quaranta dell’Ottocento esse studiarono, tra molti altri temi, gli effetti delle diverse modalità di detenzione (in particolare i sistemi di Filadelfia e di Auburn) sulla salute, e in particolare sulla salute mentale, del detenuto. Questi argomenti erano appassionatamente dibattuti in quegli anni anche in altri paesi europei, e al dibattito presero parte intellettuali come Alexis de Tocqueville, Gustave de Beaumont, Charles Lucas e Charles Dickens. Durante questo dibattito emerse con chiarezza il rischio, per i medici, di farsi inconsapevolmente carico di istanze punitive di necessità di ordine pubblico; l’orientamento prevalente nelle Riunioni, tuttavia, fu alla fine quello di respingere questa tendenza, e chiedere ai medici di assumere come proprio mandato principale quello di pronunciarsi sulla salubrità o insalubrità dei sistemi carcerari studiati. Successivamente, lo psichiatra lombardo Serafino Biffi si dedicò con competenza e passione al tema degli effetti psicologici della carcerazione minorile, lasciandoci scritti suggestivi nei quali mostra di prediligere una gestione della devianza minorile basata su piccole realtà custodialistico-educative a dimensione familiare, anziché sulla concentrazione dei ragazzi in istituzioni di grandi dimensioni. L’attenzione prioritaria degli psichiatri italiani si sposta, però, in misura sempre maggiore dai riflessi della carcerazione sulla salute mentale alla perizia psichiatrica e alla ricerca intorno alle stigmate fisiche e psicologiche del criminale, mentre l’attenzione per le conseguenze della carcerazione sulla salute mentale appare testimoniata dai riflessi italiani del dibattito, che coinvolse in Italia un limitato numero di specialisti e fu tardivo rispetto ad altri paesi europei, come la Germania, dove si erano autorevolmente occupati dell’argomento psichiatri come Ganser e Kraepelin, sull’autonomia nosografica delle condizioni psicotiche insorte nel corso della carcerazione. Durante questo dibattito, discutendo dell’autonomia nosografica o meno delle psicosi insorte in carcere, furono prese in considerazione quattro diverse possibilità: che la detenzione rappresenti un fattore eziologico possibile per le malattie mentali; un fattore ambientale favorente l’insorgenza e peggiorante il decorso in soggetti già predisposti o malati in forma subclinica; un fattore morfologico in grado, soltanto, di dare una particolare coloritura a quadri insorti e sviluppandosi con le stesse modalità con cui sarebbero insorti altrove; un elemento pressoché irrilevante tanto nell’eziologia, che nell’offerta di condizioni ambientali favorenti, che nella morfologia delle malattie mentali. Gli autori ritengono che il rapporto tra psichiatria e carcere tra Ottocento e Novecento non rivesta soltanto un interesse di carattere storico, ma sia particolarmente attuale oggi, che nuovi orientamenti legislativi oltre che esigenze di equità nell’accesso alle cure stanno determinando un maggiore coinvolgimento dei Dipartimenti di Salute Mentale nel problema dell’assistenza sanitaria alle persone detenute.