“Il servo arbitrio”: dal giustificazionismo dei disturbi di personalità a criteri mutuati dalla ricerca neuroscientifica nella valutazione psichiatrico forense
Autori
Ermanno Arreghini
Carlo Andrea Robotti
Abstract
Gli autori criticano l’idea, così com’è stabilito dal Codice Penale italiano, che uno psichiatra forense possa attribuire “valore di malattia” ad un comportamento criminale senza fare riferimento a quel saldo terreno che è garantito dalla psicopatologia così come descritta nelle classificazioni ufficiali in uso internazionalmente (ICD e DSM). Questo approccio conservativo è da applicarsi anche alla categoria nosografica dei “disturbi di personalità”, categoria che non può di per sé divenire la nuova e diffusa cornice psicopatologica attraverso la quale attribuire, in modo più semplicistico, criteri di “incapacità” a chi commetta reati. Troppe volte si è assistito nelle aule di tribunale a giudizi che parevano fondati sul concetto di “valore di malattia” d’un atto criminale al di fuori di ogni categoria strettamente nosografica, in particolare della nosografia internazionale corrente. Fatto ancor più preoccupante, il giudizio d’incapacità spesso è risultato fondato solo sulla semplice incapacità di volere dell’imputato, senza tener conto di quanto tale nozione sia invalsa per la Legge, ma ancora completamente avvolta da incertezza per la ricerca neuroscientifica, al punto che vi sono proposte (in alcuni ordinamenti penali stranieri) di espungere tale criterio dal giudizio psichiatrico–forense in quanto ambiguo. Gli autori sottolineano quindi come vi sia innanzitutto necessità di armonizzare e standardizzare anche nella pratica psichiatrico–forense gli stessi criteri tassonomici in uso nella letteratura scientifica internazionale, perché la perizia psichiatrica non debba risultare solo un mero esercizio retorico. In secondo luogo, alla luce della ancor grande discrepanza che esiste tra la ricerca neuroscientifica, per quanto promettente, e le categorie giuridiche di capacità d’intendere e di volere, gli autori propongono di introdurre, specialmente nella valutazione dei disturbi di personalità applicata ai comportamenti criminali, due concetti descritti da Antonio Damasio. Si suggerisce come le categorie neuroscientifiche di “coscienza nucleare” e di “coscienza estesa" (biografica) possano essere d’aiuto nell’analisi della capacità mentale d’un imputato una volta stabilita una chiara diagnosi, si tratti di condizione che comporti sia malattia temporanea sia permanente, compreso l’ambito dei disturbi di personalità. Il ricorso a questi due criteri proposti,quello appunto di “coscienza nucleare”e di “coscienza estesa”, permetterebbe di affrontare il giudizio di imputabilità su ambiti maggiormente sostantitivi, standardizzati e coerenti con la ricerca neuroscientifica in senso lato. Ciò al fine di rendere più cogente e meno vago il ruolo del perito psichiatra di fronte al giudice, conferendogli un mandato preciso: quello di stabilire, più che un generico “valore di malattia” di un atto criminale, se tale “valore di malattia” possa essere fondato sulla base di stringenti criteri scientifici. In questo modo anche il concetto di disturbo di personalità, ai fini psichiatrico–forensi, dovrebbe essere rivisto nell’ottica di una sua diretta influenza nell’alterare questi criteri neuroscientifici e quindi comportamentali. Gli autori auspicano anche che una tale linea di pensiero sia foriera di possibili sviluppi sia d’ordine scientifico e psichiatrico che d’ordine giuridico. Una maggiore e più coerente determinazione degli aspetti psicopatologici e del “valore di malattia” di un atto criminale all’interno della cornice proposta, potrebbe forse anche consentire un diverso sviluppo dell’aspetto legislativo che concerne la materia, cosicché possa essere rivisto il concetto di controllo dell’imputato prosciolto senza ricorso all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario.