Disquieted Education: Between Ethics, Practice, and Transformation
La formazione inquieta: Tra etica, pratica e trasformazione
ABSTRACT
As a provocation against a pedagogical science oriented toward the vital dimension, this issue offers a reading that lends credence to Pessoa’s literary suggestions in order to reflect on the epistemological and practical dimensions of disquiet. Moving beyond the idea of a mere mourning for a lost past, the transformation at the heart of educational processes is nonetheless marked by a certain “dark side,” in which risk—as emphasised by Biesta—is always present and, far from being mere disorientation, can become a precipitating factor capable of deconstructing individual identity. The contributions to this issue 23(2) of Formazione & insegnamento “flirt” with these notions linked to the realm of possibility: innovation, risk (including ludic risk), the limits of technological solutions, devices that deconstruct subjectivity (e.g., prison settings), and experiences of abuse. Yet the imprint of hope remains constant, in the form of evidence-based recommendations that aim to lay the groundwork for future best practices.
Provocatoriamente rispetto a una scienza pedagogica orientata all’elemento-vita, si propone una lettura che dà credito alle suggestioni letterarie di Pessoa per riflettere sulla dimensione epistemologica e prassica dell’inquietudine. Superando l’idea di mero lutto nei confronti di un passato perduto, la trasformazione di cui sono protagonisti i processi formativi si caratterizza comunque per un certo “lato oscuro”, in cui il rischio – sottolineato da Biesta – è sempre presente e, lungi dall’essere solo un mero disorientamento, può trasformarsi in fattore precipitante che decostruisce l’identità individuale. I contributi di questo numero 23(2) di Formazione & insegnamento “flirtano” con queste nozioni legate al reame della possibilità: innovazione, rischio (anche ludico), limitatezza delle soluzioni tecnologiche, dispositivi di decostruzione della soggettività (es.: il carcere) e maltrattamenti. Resta però costante la cifra della speranza, sotto forma di raccomandazioni evidence-based che dovrebbero gettare le basi per le future best practices.
KEYWORDS
Disquiet in education, Epistemic emotions, Educational risk, Transformative learning, Subject formation
Inquietudine educativa, Emozioni epistemiche, Rischio educativo, Apprendimento trasformativo, Soggettivazione
ACKNOWLEDGEMENTS
Francisco J. R. Sousa and Josélia M. R. Fonseca for their invaluable support as members of the editorial team.
CONFLICTS OF INTEREST
The Author is a member of the Editorial Board.
RECEIVED
September 18, 2025
ACCEPTED
September 18, 2025
PUBLISHED ON-LINE
September 18, 2025
1. Desassossego?
1.1. Il cadavere dell’infanzia
Ne Il libro dell’inquietudine di Pessoa (2005), a un certo punto la voce narrante di Soares si cala in un ricordo d’infanzia: le pedine degli scacchi trasformate nei personaggi di un sogno lucido, cioè i giocattoli di un bambino che li aveva connotati caratterialmente e, baloccandosi con loro, viveva a modo suo le avventure del quotidiano – un tram fatto di scatole di fiammiferi, un po’ di fil di ferro e nulla più. E soffre, Soares: prova nostalgia per quel mondo di semplicità e fantasia in cui la vis immaginifica del fanciullo dominava il campo visivo, trasformando oggetti in personalità credibili.
È un passo dalle molteplici sfumature. In primo luogo, ci racconta qualcosa della mente in via di sviluppo: una più labile soglia tra realtà e fantasia, sotto forma di accesso più immersivo al mondo interiore che successivamente si esteriorizza e infine trova, negli oggetti del quotidiano, àncore sufficienti per proiettare un’indole picaresca. In secondo luogo, il carattere relativamente mondano della messa in scena; il bambino si figura versioni alternative di ciò che è già parte del suo mondo: il tram, la scuola (le pedine degli scacchi sono studenti), le marachelle (c’è chi ruba, chi fuma, chi si dà delle arie…) e il maestro che irrompe a sanzionare il vizio dei personaggi immaginarî.
Ma c’è anche dell’altro, in Soares. Sente la mancanza di personalità che potevano essere e non si sono avverate – autentica saudade, cioè nostalgia per opportunità inevase e vite mai vissute. Inoltre, sente la mancanza di quel tempo stesso della vita, in cui tutto sembrava possibile o comunque c’era contentezza in un orizzonte limitato, ma reso ricco dalle dinamiche del gioco. Il dolore è tale che Soares giunge a un’amarissima conclusione: “Oh, infanzia mia, morta! […] È morto in me qualcosa in più che il mio passato” (Pessoa, 2005, Chapter 91).
1.2. La metafora del telaio
Se dovessimo prendere la saudade di Soares alla lettera, allora muterebbero i capisaldi pedagogici di riferimento. Seguendo cliché ormai classici, le scienze pedagogiche hanno già identificato molti “cappelli” (provocazione à la De Bono, 1985) che il formatore può indossare: mentore (es. Moloney et al., 2023), tutor (Drozd & Zembrzuska, 2013), facilitatore (Fedeli & Frison, 2018)… Ma chi avrebbe mai pensato al formatore come a un “Caronte” della trasformazione, che traghetta le anime verso un Aldilà, intente a “scrollar[si] di dosso le vicissitudini mortali” (Q2 Shakespeare, 1604, Verse 1721 trad. mia)? Il fanciullo di Soares non vive autenticamente in lui – se lo porta dentro, certamente, ma solo in effigie, mentre in realtà esso è già cadavere.
Schopenhauer aveva proposto una traduzione alternativa del sopraccitato passo shakespeariano dell’Amleto, suggerendo che il copista avrebbe confuso shuffled off [scrollarsi di dosso, sbarazzarsi] con shuttled off [presumibilmente: srotolare], cioè il disfarsi della spoletta del telaio: “quando avremo srotolato, esaurito questo gomitolo della mortalità” (Schopenhauer, 1851, Chapter 236). Gli studi filologici hanno dato torto al filosofo tedesco, ma resta viva la persuasione ontologica che il divenire non sia che uno srotolarsi del rocchetto – come del resto ricordato da Soares stesso nel già menzionato passo: “Quando ero bambino, prendevo i rocchetti di filo < > li amavo con un amore doloroso” (Pessoa, 2005, Chapter 91). In questa prospettiva, il formatore incarnerebbe Làchesi, la Moira che svolge il filo della vita.
2. L’inquietudine nelle scienze pedagogiche
2.1. Pedagogia come esercizio di vita
Invero, il rapporto tra formazione e morte non è ampiamente trattato dalla scienza pedagogica – e per ottime ragioni:
- In primis, la questione fisiologica. Pedagogia [è/]e Vita (come ricorda il titolo dell’omonima pubblicazione del Gruppo Editoriale Studium, ISSN 0031-3777): senza la vita dell’individuo, non può esserci una sua formazione.
- In secondo luogo, la necessità ontologica. La pedagogia intrattiene una salda relazione con la potentia [δύναμις], intesa letteralmente come potenziale, capacità, possibilità e, per esteso, correlata in via più raffinata a concetti quali la capability di Nussbaum (1987) – che sottende alla giustizia sociale – oppure ciò che Sheehan ritiene costituire la nozione heideggeriana di Wiederholung: “ottenere la presenza autentica ri-trovando la possibilità già proiettata in quanto possibilità” (Sheehan, 1978, p. 282), cioè una natura [φύσις] in tensione “telica”, un “crescere” (p. 301), un realizzarsi riappropriandosi non solo delle possibilità ipotetiche, ma anche di quelle già in qualche modo saturate e, per così dire, trascorse (cfr. pp. 306–307).
- In terza battuta, il mutato paradigma epistemologico. Tra le innovazioni pedagogiche più recenti figura la rinnovata attenzione nei confronti delle diverse età della vita (cfr. Dozza & Frabboni, 2012): non solo come concetto di lifelong learning – del quale distinguiamo, con Di Rienzo (2024), le letture meccanicistiche da quelle umanistiche – ma anche come ageing, che Boffo (2022) mostra essere dato globale e cifra della nuova realtà sociale delle comunità (almeno) post-industriali.
2.2. L’inquietudine come emozione pedagogica
Si comprende quindi che la pedagogia, come forma dell’esercizio di vita, non può risolversi pienamente nell’elucubrazione funerea di Soares. Dinanzi alla “infanzia […] morta” nell’adulto, si aprono quindi due opportunità epistemiche.
La prima è di intendere il rapporto tra crescita e morte come una relazione simbolica: per Soares, insomma, quel bambino veramente non c’è più e dunque la fenomenologia più prossima per il narratore è quella del lutto, della perdita. Quasi a voler dire: “In alcune [cerimonie], il novizio è considerato morto e resta morto per tutta la durata del noviziato” (van Gennep, 1981, p. 85). Ma dal noviziato di Soares proprio non si esce.
La seconda, collegata alla precedente, è da rintracciarsi proprio nel titolo del libro di Pessoa (2005): desassosego, inquietudine. Di qui, la lettura fenomenologica: Soares è inquieto perché non riesce a esercitare pienamente la Wiederholung e, pertanto, stenta a riconoscere nelle sue esperienze infantili una possibilità saturata che contribuisce in maniera essenziale alla sua attuale presenza. Poiché non riesce a riconciliare queste due dimensioni, temporalmente separate, vive la propria biografia come interrotta, discontinua o, nel migliore dei casi, scarificata a seguito di amputazione esistenziale.
Heideggerianamente, sempre seguendo la lezione di Sheehan (1978), la riappropriazione di una temporalità propria è anticipata da una situazione di tensione. Più romanticamente, l’individuo non riconciliato annaspa, vive l’esistenza come soffocante. Nel formando lo sforzo di riconciliazione è presente, ma incompiuto: altrimenti, costui sarebbe formato ed esistenzialmente risolto. È quindi dato di pensare che, anche laddove la trasformazione dell’individuo non risulti in lutto autentico, la formazione possa (o forse debba) caratterizzarsi come un periodo disturbato, nel senso di afflato che turba l’individuo teso al raggiungimento di una qualche forma di chiusura con il sé.
In questo senso, l’inquietudine è un’emozione epistemica. La tassonomia proposta da Vilhunen lo conferma: le emozioni epistemiche alimentano “complesse interazioni tra fattori cognitivi e affettivi” ed emergono a partire da “incongruenze cognitive” (Vilhunen, 2023, pp. 12–13). Nell’indagare le emozioni epistemiche in ambienti di apprendimento STEM, Vilhunen (2023) scopre anche che, sebbene sia riconosciuto che “le emozioni negative” sono correlate a “risultati d’apprendimento negativi” (p. 13), nei contesti di messa alla prova (test) manca il rapporto tra queste emozioni e la performance. Conclude quindi Vilhunen:
“Queste emozioni [confusione e ansia] potrebbero avere un ruolo interessante nell’apprendimento. Intrattengono una correlazione fortemente positiva con frustrazione e noia, che hanno relazione di segno negativo con la performance, ma, allo stesso tempo, intrattengono una correlazione positiva con la curiosità, che [a sua volta] è in relazione positiva con l’apprendimento. Pertanto, ciò potrebbe indicare che queste emozioni avvengano simultaneamente in situazioni in cui la curiosità è attivata dalla nuova conoscenza, mentre [al contempo] gli elevati carichi cognitivi generano confusione e ansia” (Vilhunen, 2023, p. 33 trad. mia).
Di qui, il celebre ruolo del formatore come rimodulatore delle esperienze affettive negative (DeBellis & Goldin, 2006; Reeve & Halusic, 2009; Vilhunen, 2023).
2.3. Trasformatività inquieta
In aggiunta alla questione dell’inquietudine come condizione caratteristica dei processi di apprendimento – principalmente a seguito di notevole carico cognitivo – esiste anche un’inquietudine che non dipende da specifiche forme di stress in contesti d’esercizio, bensì risulta da un più ampio distress esistenziale, agente sull’identità dell’individuo e sulle sue opportunità.
Infatti, in un passo della sua rassegna critica, Condit (2017, p. 30) ricorda che la trasformazione può avere esiti nefasti. Questa tesi si basa su un solido studio biografico condotto da Morrice (2013) sulle peripezie di dieci rifugiati residenti nel Regno Unito. Nel caso di questi individui, l’apprendimento è decisamente connotato in chiave trasformativa: precedentemente inseriti in ruoli professionali stabili – che Morrice riconduce all’habitus di Bourdieu (1972) – hanno superato crisi umanitarie abbandonando la propria terra, il che appare come un vero dilemma disorientante à la Mezirow (1991). Tuttavia, il risultato non è positivo, perché si tratta di casi in cui l’identità ne esce decostruita e i sopravvissuti (i rifugiati) apprendono alcune vie dell’integrazione, ma attraverso cicli di demansionamento professionale, conflitti maladattivi e, in sostanza, una perdita di qualità esistenziale:
“Queste narrative indicano un lato ‘più oscuro’ [darker side] del divenire rifugiati che non trova posto nell’apprendimento trasformativo. L’apprendimento qui descritto non conduce a esiti positivi; piuttosto, comporta il bisogno di disimparare e lasciarsi alle spalle una buona porzione di chi e che cosa si fosse in precedenza” (Morrice, 2013, p. 266 trad. mia).
Questo orizzonte contro-educativo dei rifugiati mette alla prova anche la teoresi filosofico-pedagogica. Primo, perché mostra quanto drastico sia il passaggio concettuale dalla gettaticità esistenziale a esistenze che autenticamente, cioè hic et nunc, sono state gettate in una situazione al di là delle proprie possibilità e sulla quale hanno avuto poca voce in capitolo. Quasi come se l’angoscia metafisica non reggesse il confronto con l’angoscia etnograficamente rilevata. Secondo, perché apre la pedagogia alla nozione di rischio, sia come preludio alla pedagogia dell’emergenza, sia come riconoscimento del fatto che, in qualunque momento, potrebbero intervenire nella traiettoria esistenziale del soggetto una serie di eventi precipitanti che, lungi dall’essere mero disorientamento, finiscono per annullare o incanalare in maniera maladattiva gli esiti di un curricolo altrimenti roseo.
Ciò intrattiene analogie sostanziali con il recente studio condotto da Murillo (2025) sul curricolo del Dottor Frankenstein (e, indirettamente, su quello della Creatura). Esso sottolinea il legame tra “acquisizione di conoscenza” e le esperienze esistenziali di “alienazione, solitudine, isolamento, rabbia, amore, speranza e il problema del bene”, ma, allo stesso tempo, riconosce che senza un pieno senso di responsabilità non è possibile governare adeguatamente le emozioni più deleterie (Murillo, 2025, p. 7). In quello che Murillo definisce un connubio tra “conoscenza e sentimento” (p. 8), la Creatura, pur percorrendo i medesimi ambienti di Frankenstein, è sopraffatta da circostanze precipitanti, i cui turbamenti emotivi finiscono per deprimere le sue capacità metacognitive, al punto da ridurla a un qualcosa che sa moltissimo, ma rinuncia alla responsabilità etica esistenza-correlata.
2.4. Pedagogia del rischio
L’inquietudine riorienta i riflettori sul ruolo del formatore. Se, fatta salva la centralità dei destinatari della formazione, è provato che sussistano circostanze al di fuori del loro controllo – e, magari, addirittura precipitanti –, allora la responsabilità delle medesime ricade sul formatore in primis e sulla società formativa intesa nel senso più ampio.
Di questo si è accorto Biesta (2013), che al tema ha dedicato The Beautiful Risk of Education. La sua preoccupazione – espressa nel prologo del volume – è che, da un lato, si esiga che l’insegnante si faccia carico dell’incertezza educativa, mentre, dall’altro, le istituzioni esigano che la scuola non osi e non generi situazioni di rischio. Invero, gli insegnanti sono pienamente consapevoli della natura distopica di un’educazione senza rischi, al punto che essa è cristallizzata in uno stereotipo, uno spauracchio da tenere a distanza, come quello del genitore elicottero (Bannayeva & Sarandöl, 2025). Se quello fosse il caso, a essere inquieto non sarebbe più il bambino o il discente, bensì il formatore stesso, atterrito dalle inquietanti conseguenze di un rischio non tollerato, di un’avventura finita male.
Peraltro esistono già paradigmi che corroborano con evidenze e cogenza argomentativa l’idea di reintrodurre nel contesto educativo rischi di qualche genere. Magari non rischi che condurrebbero a danni irreparabili, ma sicuramente rischi che le istituzioni (locali, nazionali e globali) non sono spesso disposte a correre. Ad esempio, Dodd e Lester (2021) propongono un modello concettuale che mostra come le attività di gioco avventuroso intercettano l’emergere di situazioni emotivamente negative nell’infanzia e contribuiscono a una migliore gestione dell’ansia, una maggiore tolleranza dell’incertezza e anche una più adeguata risposta agli stimoli fisiologici. Similmente, la rassegna critica alla base dello studio di Turgut-Kurt e Sevimli-Celik (2024), dimostra che c’è ampio consenso scientifico intorno all’idea di introdurre una certa componente di rischio nelle esperienze formative. Ciò rimanda proprio a Biesta:
“Eppur viviamo in tempi impazienti in cui riceviamo costantemente il messaggio che la gratificazione immediata dei nostri desideri è possibile e che ciò è bene. Il richiamo a rendere l’educazione forte, sicura, prevedibile e scevra da rischi è una manifestazione di impazienza. Ma ciò si basa su un fraintendimento fondamentale su riguardi l’educazione e un fraintendimento fondamentale su come essa ‘funzioni’. Vede le debolezze dell’educazione – il fatto che non ci sarà mai corrispondenza perfetta tra ‘input’ e ‘output’ – solo come un difetto, solo come un qualcosa che deve essere raddrizzato e superato e non anche come la condizione stessa che rende l’educazione possibile” (Biesta, 2013, pp. 3–4 trad. mia).
Biesta ricorda che educare non è garantire un risultato, ma creare uno spazio in cui qualcosa di nuovo possa accadere – uno spazio fragile, aperto, mai del tutto prevedibile. L’educazione, per Biesta, è “un rischio bello”, perché solo rischiando possiamo dare luogo all’emergere del soggetto (Biesta, 2013, p. 9). Ciò fa eco a Rancière (1987) che, nel suo Le maître ignorant, mette in guardia contro l’illusione della spiegazione come viatico formativo: imparare non è capire ciò che il maestro ha da dire, ma esercitare la propria intelligenza nel mondo.
Su questa linea si muove anche una riflessione filosofica più ampia, che va da Arendt a Foucault. Arendt (1958), nella sua idea di natalità, parla dell’educazione come spazio in cui qualcosa di radicalmente nuovo può venire al mondo: ogni bambino che nasce è, in potenza, un nuovo inizio. Foucault (1975), invece, insegna che ogni processo educativo è anche un processo di soggettivazione, intrecciato a dinamiche di potere, di resistenza, di costruzione del sé. La formazione inquieta vive, dunque, in questo spazio di tensione tra l’evento del nuovo e l’attrito con ciò che già esiste.
3. Presentazione dei contributi
Nel presente numero 23(2) di Formazione & insegnamento, la metafora dell’inquietudine pedagogica diviene chiave interpretativa di una riflessione ampia e sfaccettata sull’educazione contemporanea. Seppure nella loro varietà, le tematiche affrontate condividono l’urgenza di interrogarsi sul senso profondo della formazione in una società che si trasforma, barcamenandosi tra istanze etiche, necessità pratiche e bisogno di rinnovamento.
Parlare di formazione inquieta significa inerire un qualcosa che sfugge e che non si lascia catturare facilmente. Non è un modello, anche se il concetto è teoreticamente promosso; non è metodo, anche se presume processo. È un movimento. È un gesto pedagogico non pienamente ricomposto, che resiste a regolamentazione e chiusura, nella consapevolezza che l’educazione è apertura al rischio anziché imposizione di una forma.
L’educazione inquieta nasce dove finisce la pretesa di dominio. Avviene dove chi insegna non cerca di riprodurre sé stesso, ma accetta di perdersi un poco nell’incontro con l’Altro. È educazione che non consegna soluzioni prefabbricate [ready-made], ma invita a problematizzare ciò che si dà per scontato: le norme, le gerarchie e il lessico stesso delle ontologie pedagogiche (“insegnamento”, “apprendimento”, “valutazione”…). In questo senso, è profondamente politica, non perché abbia nella politica il suo contenuto privilegiato, ma perché colloca i suoi soggetti in una prospettiva emancipante e di ri-appropriazione delle proprie scelte.
La formazione inquieta non è per chi cerca stabilità, ma per chi accetta che un vuoto può aprirsi quando non si possono prevedere gli esiti del gesto didattico. Ciò richiede che si abiti il dubbio non come debolezza, ma come precondizione del pensiero. Un’educazione che non consola, ma chiama; che non tranquillizza, ma provoca. Proprio per questo – proprio in ragione di questa sua inquietudine, apre possibilità che altrimenti resterebbero chiuse.
3.1. Paradigmi
Proprio con una provocazione si apre questo fascicolo. In primo luogo, perché a pubblicare il primo contributo non è uno studioso strutturato in istituzioni alta formazione, bensì Gesuelli (2025) – un insegnante-ricercatore che ha sottoposto a Redazione e Revisori un contributo di grande pregio. Pubblicando insegnanti-ricercatori, anziché universitari in carriera, Formazione & insegnamento si prende un rischio: difficilmente costoro contribuiranno con i propri contributi alla Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) e, rispetto a questa metrica di Stato, i loro articoli hanno valore neutro. Tuttavia, sarebbe velleitario, sul piano delle scienze pedagogiche, ignorare la qualità e l’autenticità di contributi profondamente radicati nel mondo scuola. In secondo luogo, il contenuto stesso di Gesuelli (2025), intitolato Libertà come Disattivazione e Co-Creazione: Una Ricerca-Azione sulle pratiche emancipanti in una Scuola Secondaria di Primo Grado, è infuocato: la sua autoetnografia racconta di azioni destabilizzanti dello status quo, che risultano sovversive agli occhi dell’ordine costituito e che pure sono fondate su un’ampia consapevolezza critico-filosofica da un lato e scientifico-pedagogica dall’altro. Con Gesuelli si torna a parlare di libertà ed emancipazione, non come vuoti contenitori concettuali della retorica di piazza, bensì come azioni concrete inserite in un contesto di attriti e resistenze.
3.2. Abitare il Mondo
Occupandosi di Pensiero critico e partecipazione democratica, Ratotti (2025) affronta un tema legato a doppio filo a quello dell’inquietudine. Vi gioca un ruolo-chiave il pensiero di Nussbaum, la cui nozione di capability è riconosciuta dall’autrice dell’articolo come asse portante della partecipazione democratica. Senza capability non c’è emancipazione, ma, sembra suggerire, anziché costituire un obiettivo formativo, la capability è essa stessa formazione – come del resto sottolineato dall’invito di Dewey all’attività e all’esperienza. La provocazione più forte è forse nel riferimento a Hume, che consente di riconoscere, attraverso il filtro offerto da Nussbaum, uno stretto legame tra affettività e ragione scientifica.
Abitare il Mondo significa anche apertura all’integrazione. Che, in alcuni casi, è una questione di scelta, mentre in altri – come nel caso dei rifugiati di Morrice (2013) – rappresenta una decostruzione dell’identità soggettiva. A combattere tali lati oscuri è Di Pinto (2025), che racconta le esperienze teatrali in carcere. Il carcerato è sicuramente un’identità in decostruzione e, anzi, si potrebbe arguire che lo stesso dispositivo-carcere è, in sostanza, un apparato di decostruzione dell’identità. Se, però, normalmente saremmo portati a concludere che una società vede in esso l’opportunità di “disfare” il sé colpevole di un individuo, tali istituzioni finiscono sistematicamente per determinarne l’annullamento soggettivo tout court, se non addirittura costituirsi come hub della pedagogia nera. Ben vengano quindi le iniziative formative e scientificamente informate, che contrastano la dispersione educativa carceraria. Il contributo di Di Pinto (2025) è proprio questo: basato su un’ampia documentazione tratta dalla letteratura di settore, procede a descrivere l’offerta curricolare ed extracurricolare del CPIA BAT “Gino Strada” presso il carcere di Trani. È un percorso complesso e che merita lettura attenta, che culmina in chiare proposte operative.
Sempre nella Sezione “Abitare il Mondo”, lo studio di Marconi et al. (2025), intitolato Enti del Terzo Settore e Sostenibilità Culturale: Una ricerca qualitativa nella Regione Toscana, rappresenta un passo avanti nell’affrontare il legame tra pedagogia, sostenibilità culturale, enti del terzo settore e formazione continua. Indaga sette cooperative sociali della Toscana, per scoprirne i processi formativi e lo fa aderendo al paradigma del welfare culturale, che vede nella cultura un fattore stimolante per la sostenibilità territoriale. Ne emerge un quadro variegato, ma con elementi comuni: la dimensione contenuta delle cooperative è motivata dal desiderio di maggiore attenzione alla persona, tuttavia queste stesse realtà “piccole” riescono a esercitare massa critica grazie a iniziative di rete.
3.3. Infanzia
La Sezione “Infanzia” si apre con un contributo di Stringher (2025), ricercatrice INVALSI. Lo scopo è descrittivo, ma quanto presentato ha grande portata ermeneutica. Ove le istituzioni si sarebbero accontentate di profilazioni semplici, l’indagine di Stringher (2025) approfondisce la dimensione qualitativa dei docenti di scuola dell’infanzia in Italia: donne (99,4%), in fase di invecchiamento (63% ha più di 50 anni), soddisfatte (85%) esperte (in media oltre 20 anni di esperienza), ma con qualifiche datate (73% titolare di livello ISCED 3 o 4). Plausibilmente, un quadro del genere, per chiarezza e dettaglio, costituirà il caposaldo di tutti i prossimi studi su questa categoria professionale.
Sempre di scuola dell’infanzia si occupano Zoroaster e Restiglian (2025), presentando i risultati di due ricerche etnografiche svolte in Regione Veneto. Il tema è di particolare interesse: il feedback tra pari nei bambini dai 3 ai 5 anni. Lo stereotipo contro cui si cimentano i loro risultati è quello di un’infanzia depotenziata, incapace di tessere relazioni complesse come quelle della vita adulta. Ma ciò che Zoroaster e Restiglian scoprono va contro questo luogo comune: i bambini non solo fanno ampio uso di feedback, ma ne traggono anche giovamento – specialmente quando si tratta di eseguire un compito correttamente. Lo studio è ben concepito e si basa su solide evidenze, al punto da risultare di interesse per il lettore non solo in ragione dei contenuti che espone, ma anche perché valida il protocollo osservativo utilizzato – preludendo, quindi, a una trasferibilità degli strumenti di indagine.
Si compie poi un passo indietro verso lo Zerotre come sottoinsieme dello Zerosei. Si tratta di un’indagine (Gottardo & Restiglian, 2025) condotta sui genitori dei bambini coinvolti nei servizi per la prima infanzia. La ricerca mostra che, per i genitori, la qualità è collegata al tipo di attività svolte, alla professionalità degli educatori/educatrici e alla capacità di questi ultimi di coltivare un rapporto sano con il bambino. È un risultato confortante, perché illustra come la relazionalità resti centrale nell’esperienza del bambino in crescita e, nel contesto dello studio, i genitori appaiono consapevoli, interessati e molto agentivi.
3.4. Insegnare
Questo fascicolo ospita anche tre contributi della Libera Università di Bolzano, due dei quali sono frutto della suddivisione di un contributo lungo in due separati, raccomandata dalla Redazione – secondo una policy ormai consolidata. Ricevuti in momenti diversi del trascorso semestre, affrontano, con organicità ma prospettive anche molto diverse tra loro, le ricadute formative del gioco da tavolo The Next Generation of Changemaker.
In particolare, Morselli (2025) conduce un’indagine post hoc factum, che rivela l’efficacia del gioco nello stimolare competenze imprenditoriali, a fronte però di un ridotto impatto sugli apprendimenti della sfera personale. Nel successivo contributo di Schumacher e Kansteiner (2025) il focus è sugli esiti partecipativi dell’attività, che stimolano perplessità sulla capacità degli allievi di incamerare le pratiche partecipative: costoro, infatti, seguitano a identificare nella partecipazione principalmente la possibilità di partecipare al dialogo, ma con scarso riorientamento dei loro processi nella dimensione metacognitiva. Data la puntualità del questionario, non c’è da dubitare circa la cogenza delle conclusioni, che dimostrano quindi grande trasparenza nel sottolineare i limiti del board game stesso – anche in un’ottica di costi/benefici in termini di tempo. Ciò conduce al terzo contributo (Mian & Kansteiner, 2025), marcatamente distinto per approccio metodologico, che utilizza la tecnica delle vignette fenomenologiche per svelare complessi rapporti intra- e interpersonali tra studenti coinvolti, svelando appunto quel tipo di inquietudine tipica dei contesti formativi – avendo come effetto non solo quello di fare luce sugli eventi oggetto di narrazione, ma anche di validare il metodo stesso delle vignette fenomenologiche come utile strumento chiarificatore.
A questo trittico si aggiungono altri due articoli che sono sempre orientati al Mondo Scuola. Il primo (Khan et al., 2025) è frutto di una collaborazione internazionale che ha coinvolto l’Università degli Studi di Ferrara, l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e l’Università di Swat (Pakistan). Il focus è stato indagare l’efficacia della tecnologia didattica utilizzata durante le sessioni d’aula della scuola secondaria pubblica del Khyber Pakhtunkhawa – provincia del Nord-Ovest del Pakistan, nota colloquialmente come Sarhad – e, più precisamente, nel circondario del distretto di Swat, a maggioranza Pashtun. Questo studio fa da complemento al precedente lavoro di Khan et al. (2023), il quale, invece, si concentrava sulla scuola primaria. I risultati invitano a un attento bilanciamento nell’uso delle tecnologie in classe: migliorano la collaborazione e l’indipendenza degli studenti, stimolandone la motivazione, ma restano necessari formazione alla sicurezza e finanziamenti volti a colmare il gap tecnologico – specialmente in aree remote e ultraperiferiche.
Sempre di tecnologie si occupano Bardelli et al. (2025), preoccupandosi che la loro adozione diventi “mero adeguamento” e non stimoli un autentico adattamento da parte dei docenti. A conclusione del loro studio sull’uso delle immagini nella didattica universitaria STEM, giungono a riconoscere l’importanza della videoanalisi come strumento che favorisce il feedback e l’autovalutazione da parte dei docenti – auspicando che i percorsi formativi di faculty development siano più interdisciplinari in modo da fare spazio a competenze parallele a quelle disciplinari.
Segue il lavoro di Tino (2025) sui Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento. Rivolgendosi a un campione sostanziale di studenti tra i 18 e i 22 anni, a prevalenza femminile, afferenti al medesimo istituto scolastico, Tino conduce un caso di studio su due percorsi scuola-lavoro. I rispondenti hanno riferito efficacia nel raccordo tra mondo dell’educazione e mondo del lavoro, segnalando aumentata consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità. Acquista sempre più importanza anche il rapporto con il tutor. Ciò consente di identificare il PCTO in uno “spazio trasformativo” che si presta a ulteriore valorizzazione.
3.5. Storia dell’educazione
La sezione di storia dell’educazione ospita, in questo fascicolo, un contributo di Gramigna (2025) sul rapporto tra Margiotta e Kant – che si inserisce in una teoria di lavori iniziata con la pubblicazione sul binomio Margiotta-Dewey (Gramigna, 2024b) e proseguita con quella su Margiotta e Agostino (Gramigna, 2024a).
Il presente articolo di Gramigna rende un grande servigio, perché ripercorre fedelmente alcuni punti dell’argomentazione margiottiana, senza particolari tradimenti, restituendo al lettore l’accesso a un testo complesso e di difficile reperibilità (Margiotta, 1974). Quest’opera di Margiotta, che l’autrice stessa riconosce come corposa, per densità e portata si presterà certamente ad ulteriori approfondimenti e Formazione & insegnamento è lieta di accoglierne un primo tassello.
3.6. Rassegne critiche
Due literature review affrontano questioni di didattica innovativa. Si tratta di scelte investigative consapevoli, che non accettano in maniera coatta lo stereotipo dell’innovazione, ma lo fanno oggetto di esame critico. Inoltre, nell’attuale regime di complessità, i meta-studi e le rassegne critiche costituiscono uno strumento fondamentale: per i ricercatori, che non sempre riescono a padroneggiare l’intera estensione del proprio campo; per i formatori, che spesso sono esterni a contesti accademici e necessitano quindi di ampie sintesi; per i policymaker, spesso calati in una logica meccanicistica (funziona o non funziona?).
La prima di queste rassegne critiche è a firma di Strongoli e Catania (2025) e si occupa di flipped learning e progettazione didattica nell’alta formazione. Le domande chiave vertono sugli effetti della flipped classroom in contesti universitari e sui punti di attenzione della pratica. I risultati mostrano una pratica di successo, durante la quale, controintuitivamente, gli studenti sentono comunque la necessità che il formatore resti centrale, come figura di supporto attiva. Alcuni dubbi vengono sollevati circa un panorama valutativo eccessivamente variegato. Sussistono inoltre criticità riguardo all’uso di video didattici troppo brevi e troppo poco coinvolgenti, l’assenza – spesso non pianificata – di feedback tempestivi e la mancata rilevazione di un differenziale di performance rispetto a metodi didattici tradizionali.
La seconda literature review è un contributo di Coppi e Barone (2025). Inizialmente pensato come compendio per la Sezione “Studi Margiottiani”, l’articolo è cresciuto fino a diventare una guida forse imprescindibile sul legame tra le nozioni di “generatività” e di “talenti” nel panorama internazionale. Infatti, le autrici scoprono che il tema, seppur presente, è trattato dagli autori esaminati in maniera sporadica e non continuativa. Più frequentemente, poi, il settore dei ricercatori che se ne occupano è psicologico, anziché pedagogico. Ciò dimostrerebbe quindi che, come sostengono Coppi e Barone, “generatività e talenti” è un campo emergente… motivo per cui Formazione & insegnamento ha deciso di dedicarvi una call speciale.
3.7. Recensioni
A conclusione di un numero caratterizzato dall’inquietudine della formazione è la recensione dedicata da Borg (2025) a un recente testo di Amenta (2025) che affronta uno dei temi più inquietanti della contemporaneità scolastica: docenti maltrattati e studenti maltrattati. Non stupisce, quindi, che un contributo del genere abbia superato i confini italiani per approdare sulla scrivania del lettore internazionale. È evidenza del fatto che i messaggi forti, su temi cruciali, rompono il muro dell’inazione e contribuiscono alla capacità di fare rete da parte dei diretti interessati – tingendo quindi di speranza le ombre dell’inquietudine.
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