Le egloghe non egloghe dell’Arcadia
Abstract
Sappiamo bene, ora che l’attenzione critica sull’opera maggiore del poeta gentiluomo Iacopo Sannazaro sembra essersi risvegliata, che delle dodici egloghe, regolarmente alternate ai dodici brani in prosa dell’Arcadia, ben quattro non sono propriamente egloghe, ma appartengono invece a metri alti e ufficialmente consacrati dalla tradizione lirica italiana. Oltre ai componimenti nella stessa terza rima con cui Boccaccio aveva per primo ridato vita, nella sua Commedia delle ninfe fiorentine, al nostalgico colloquio tra pastori canonizzato dalla tradizione classica (e si allude in particolare alla gara di canto tra Alcesto e Acaten nel cap. XIV), ben presto alternata o sostituita con quei ternari sdruccioli che nella produzione quattrocentesca diverranno i più tipici marcatori del genere, Sannazaro propone, infatti, come altri esempi di bucolica volgare, ben due canzoni (egloghe III e V) e due sestine (egloghe IV – addirittura doppia – e VII).
Che si trattasse di forme che col quel particolare genere potessero intrattenere qualche rapporto di parentela, e cioè che Sannazaro portasse in luce possibilità bucoliche già latenti in quelle strutture metriche, lo hanno ben fatto vedere a suo tempo Domenico De Robertis e poi Giuliano Tanturli: non a caso le due canzoni sono modellate sulle due contigue del Petrarca (Rvf 125 e 126) definite dall’autore stesso «rozze», «boscherecce» e «disadorne» (ma De Robertis evidenzia analoghi fermenti anche nel tessuto della 50), mentre entrambe le due sestine esibiscono in conclusione il motivo degli impossibilia già costante nella bucolica classica e che aveva contribuito a inserire in quel metro, dalle petrose in poi, forti suggestioni pastorali.