Il ‘bestiario’ di Giordano Bruno e l’Acerba di Cecco d’Ascoli
Abstract
In che modo convivono i concetti di umanità e bestialità nell’opera bruniana? Cosa sopravvive della simbologia antica e medievale nelle figure ferine che vivificano la scrittura di Bruno? Come la lingua del Nolano diventa linguaggio ‘naturale’? Sono questi alcuni interrogativi che animano il ‘bestiario’ bruniano, termine, quello di ‘bestiario’, che adoperiamo per sottolineare la rilevanza dell’elemento animale nella scrittura di Giordano Bruno, in particolare, nei versi presenti nella sua opera italiana. Prima di offrire un piccolo saggio del ‘bestiario’, sembra necessario ribadire, brevemente, alcuni concetti propri della filosofia naturale di Bruno, dalla quale non si disgiunge la tassonomia bruniana del mondo animale. Il bestiario bruniano è retto dai concetti di ‘divinità’, di varietas e di ‘metamorfosi’ che pullulano in tutta l’opera italiana (e non solo).
L’animale disegnato da Bruno, cioè, è espressione della divinità che si cela nella Natura; è immagine e segno di un universo in perenne trasformazione; è simbolo dei cambiamenti a cui va soggetto l’uomo in continua ricerca. Le bestie bruniane diventano, perciò, emblema dell’infinito e dell’illimitato desiderio dell’uomo di abbracciare la divina beltà, Diana, la Natura. Nel ‘bestiario’ bruniano, l’animale è simbolo anche dei mali che attanagliano la società. È così, in modo particolare, nello Spaccio de la bestia trionfante. Qui le immagini animali servono a mostrare e a condannare i vizi degli esseri umani. Proprio come in un bestiario medievale. Con la differenza strutturale che, nel dialogo bruniano, l’esortazione al cambiamento, che segue all’ammonizione, avviene mediante la sostituzione delle bestie-vizio con nuove figure (solo in due casi animali) positive, virtuose, le quali vanno ad occupare la sfera celeste, simbolo dell’anima umana.