«Già Roma, or Babilonia» (appunti su Rerum vulgarium fragmenta CXXXVI-CXXXVIII)
Abstract
Il trittico dei sonetti anti-avignonesi oggetto di queste mie poche annotazioni è tutt’altro che scarsamente studiato. Si potrebbe dividere la fortuna critica in modo magari un po’ grossolano, in due fasi principali. La prima fase, quella diciamo così dei commenti antichi (tra Cinque e Settecento), è stata attratta primariamente dall’elemento fortemente polemico di questi sonetti, quello stesso elemento che, per inciso, ha portato come si sa alla censura del ciclo (censura applicata alla fonte, tramite esclusione di questi sonetti dal commento, o addirittura in alcuni casi meccanicamente sugli esemplari stessi, con i nostri sonetti cancellati da tratti di penna o asportati insieme alle carte che li contenevano).
Come esemplari di questo primo momento potrei qui ricordare le dilatate esegesi del Daniello o, ancor più, del Gesualdo, in cui tra l’altro vengono già chiaramente additati per la prima volta i rapporti strettissimi che il gruppo intrattiene con le Sine nomine avignonesi, principalmente con SN 18 (da collegare soprattutto, anche se non solo, al primo sonetto della serie, Fiamma dal ciel) ma anche con la 8 e la 10 (da cui l’immagine rispettivamente del «turrificus atque simul terrificus Nembroth» Clemente VI che rimbalza nel gioco «le torre superbe [...] / et i suoi torrer’» di L’avara Babilonia 10-11, e appunto di Nembroth, ancora, che «superbis turribus celum petens»), la 5 ecc.