Il canto I dell’Orlando Furioso del 1516

Autori

  • Tina Matarrese
  • Marco Praloran

Abstract

Presentiamo qui un saggio del commento all’Orlando furioso del 1516, nella edizione in corso di preparazione per «I classici italiani annotati» della Einaudi: un lavoro ancora in fieri e soggetto pertanto ad aggiustamenti e ripensamenti. Ci si può chiedere innanzitutto perché commentare la prima forma di un’opera che una consuetudine di secoli ci ha abituato a leggere e conoscere nella sua ultima forma. C’è una ragione culturale sufficiente a farci leggere il Furioso del ’16 autonomamente? Non può bastare un commento al Furioso del ’32 che richiami in nota le lezioni precedenti, come quello per esempio curato da Emilio Bigi per l’edizione Rusconi (1982), che riporta le varianti a giudizio del curatore più significative delle edizioni 1516 e 1521? In tal modo però c’è il rischio, come riconosce Bigi, di considerare le varianti «solo come testimonianze di un cammino verso la “perfezione” raggiunta nel terzo Furioso» (Introduzione, p. 9). Se è vero che ogni fase di elaborazione di un’opera costituisce un testo in sé, ciò è tanto più vero per il poema ariostesco, le cui successive edizioni, curate dall’autore stesso, possiedono una propria originalità e organicità. La distanza poi tra la prima e l’ultima edizione implica inevitabili mutamenti di progetto sul piano letterario, linguistico e ideologico, in considerazione anche dei forti e veloci cambiamenti che segnano la letteratura volgare in quel periodo: trasformazione di generi e forme, assestamento del toscano letterario come lingua nazionale, un nuovo ordine che ridisegna anche il poema cavalleresco.

E il Furioso del ’16, che ora e finalmente ha anche una sua edizione critica, curata da Marco Dorigatti per Olschki 2006 (qui citata come DORIGATTI), possiede necessariamente ragioni diverse da quelle del Furioso del ’32. Come osserva felicemente Segre nella Introduzione alla sua edizione mondadoriana (1976), «si può e si deve ritornare alla prima redazione per cogliere nel suo momento di freschezza vitale l’invenzione ariostesca. Percorrere questo secondo tracciato retrogrado (meno battuto dai critici) significa lasciare indietro le aggiunte celebrative e gli aggiustamenti diplomatici, uscire dall’incanto dell’armonia e recuperare le articolazioni fantastiche nel loro nativo movimento, riportarsi nell’orizzonte più raccolto e familiare della prima esperienza ariostesca. D’accordo sulla bellezza di molte aggiunte del 1532, sulla perfezione dei ritocchi di stile e di struttura; ma nel primo Furioso c’è una libertà, una gioia di esprimersi, una felicità che il totale impegno formale forse sacrificò in parte» (p. XXIX).

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Pubblicato

2015-01-21

Fascicolo

Sezione

Articoli