La nota carducciana alle Odi barbare (1877), la libertà metrica e la poesia di Leopardi

Autori

  • Carlo Caruso

Abstract

Volli congedarmi da’ lettori [scil. delle Odi barbare] co’ i versi alla rima, proprio per segno che io con queste odi non intesi dare veruna battaglia, grande o piccola, fortunata o no, a quella compagna antica e gloriosa della poesia nuova latina. Queste odi poi le intitolai barbare, perché tali sonerebbero agli orecchi e al giudizio dei greci e dei romani, se bene volute comporre nelle forme metriche della loro lirica, e perché tali soneranno pur troppo a moltissimi italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di accenti italiani. E così le composi, perché, avendo ad esprimere pensieri e sentimenti che mi parevano diversi da quelli che Dante, il Petrarca, il Poliziano, il Tasso, il Metastasio, il Parini, il Monti, il Foscolo e il Leopardi (ricordo in specie i lirici) originalmente e splendidamente concepirono ed espressero, anche credei che questi pensieri e sentimenti io poteva esprimerli con una forma metrica meno discordante dalla forma organica con la quale mi si andavano determinando nella mente. Che se a Catullo e ad Orazio fu lecito dedurre i metri della lirica eolia nella lingua romana che altri ne aveva suoi originari, se Dante poté arricchire di care rime provenzali la poesia toscana, se di strofe francesi la arricchirono il Chiabrera e il Rinuccini, io dovrei secondo ragione potere sperare, che, di ciò che a quei grandi poeti o a quei rimatori citati fu lode, a me si desse almeno il perdóno.

Dunque chiedo perdóno dell’aver creduto che il rinnovamento classico della lirica non fosse sentenziato e finito co’ tentativi per lo più impoetici di Claudio Tolomei e della sua scuola e nei pochissimi saggi del Chiabrera: chiedo perdóno del non aver disperato di questa grande lingua italiana, credendola idonea a far con essa ciò che i poeti tedeschi dal Klopstock in poi fanno assai felicemente con la loro: chiedo perdóno dell’avere osato recare qualche po’ di varietà formale nella nostra lirica moderna, che non ne ha mica quel tanto che alcuni credono. Velleità queste mie, lo so io per il primo, tanto più importune e inopportune oggi, che dinanzi al vero storico, il quale, gloria e tormento del secolo nostro, pervade oramai tutto il pensiero umano, la poesia (mi perdonino i lettori anche queste fantasie funebri) compie di spegnersi.Tant’è: a certi termini di civiltà, a certe età dei popoli, in tutti i paesi, certe produzioni cessano, certe facoltà organiche non operano più. La epopea intanto è sotterrata da un pezzo: violare il sepolcro della gran morta cancaneggiandovi su, anche se non fosse indizio di svogliatezza depravata, non diverte. Il dramma agonizza, e i troppi medici non lo lasciano né meno andare in pace.

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Pubblicato

2015-01-15

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