Una lettura controcorrente del sonetto ariostesco Come creder debbo io che Tu in ciel oda
DOI:
https://doi.org/10.7347/PLXXIII-442023-03Abstract
Il sonetto XXIII dell’Ariosto si presenta come un’insolita preghiera a Dio, in tro -dotta dal dubbio angoscioso che essa non meriti ascolto, data l’assenza di un sincero pentimento nell’orante, schiavo dei propri sensi; questi però, consapevole della necessità di redimersi prima che la morte renda inevitabile la dannazione, non rinuncia a chiedere aiuto, appellandosi alla pietà che il Dio cristiano prova per l’uomo peccatore. Condizionati da pregiudizi negativi (e infondati) sull’at -tenzione ariostesca per i temi spirituali, gli interpreti moderni hanno sempre più stravolto il messaggio del sonetto, fino a trovarvi riaffermata, dietro l’esteriore contrizione, una visione laica e terrena e un intimo rifiuto della salvezza. Viceversa, una rilettura del suo contenuto, compiuta alla luce dei suoi fondamenti biblici e dottrinari, dimostra la serietà e competenza con cui l’autore affronta delicate questioni teologiche, oltre alla sentita drammaticità con cui sapientemente le articola.