«Il filo di un ragionamento»: lettura del «sonetto ebreo» di Burchiello

Autori

  • Alessio Decaria

Abstract

Per parlare di questo testo, si potrebbe cominciare dal celebre giudizio di Vittorio Rossi, celebre probabilmente più per l’autorità dello studioso che per l’originalità dei concetti espressi: che i sonetti del Burchiello – quelli, s’intende, composti secondo il modulo ‘alla burchia’ – siano totalmente privi di senso era e forse è ancora un’opinione piuttosto diffusa.

Tutti ormai sanno che d’una parte dei sonetti sciamati fuori del cervello fantastico del barbiere sarebbe vano tentare un’interpretazione. Contesti di stramberie, di ghiribizzi, di riboboli, di slatinature, vanno rassegnati nel novero copioso di quelle composizioni che per il regolare andamento delle concordanze e dei nessi grammaticali e il gradevole rotondeggiare dei ritmi, paiono nascondere in quell’accozzaglia il filo di un ragionamento, mentre in realtà non dicono cosa alcuna e non hanno un briciolo di senso.

Non c’è dubbio che molti dei sonetti del barbiere, nonostante i generosi sforzi degli interpreti, resistano ancora alle loro fatiche e risulti difficile trovarvi – ammesso che ci sia – quel «filo di un ragionamento» invocato dal Rossi. Quello che qui, con molta temerarietà, si tenterà di fare è provare a riconoscere un senso in uno dei sonetti più ermetici e, almeno apparentemente, più nonsensical di Burchiello. E se oggi si può almeno tentare una cosa del genere, si deve agli studiosi che nei molti decenni che ci separano dal Rossi e dalla sua  epoca hanno battuto le vie più varie per interpretare quelle strane accozzaglie, ponendo davanti al lettore di oggi un panorama testuale e bibliografico ben diverso da quello di cui poteva disporre lo studioso veneto.

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Pubblicato

2015-01-21

Fascicolo

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Articoli