Sports and Social Inclusion: An Exploratory Study
Sport e Inclusione Sociale: Uno Studio Esplorativo
Silvia Sangalli
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università degli studi di Bergamo (Italy) – silvia.sangalli@unibg.it
https://orcid.org/0009-0001-7246-3026
Antonio Borgogni
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università degli studi di Bergamo (Italy) – antonio.borgogni@unibg.it
https://orcid.org/0000-0002-2226-6753
This article addresses the issue of youth discomfort, focusing specifically on "difficult" adolescents living in situations of severe fragility and social marginality. It highlights the necessity for social interventions to tackle their current challenges and prevent potential future deviations. In this context, physical, bodily, and sports activities emerge as potential intervention tools. However, the effectiveness of such interventions depends on a set of variables. This contribution presents the preliminary results of a doctoral research study that analysed the life stories of 15 vulnerable minors to examine the impact of sports activities on them and to identify the success criteria for intervention.
L'articolo affronta il tema del disagio giovanile, concentrandosi in particolare sugli adolescenti "difficili" che vivono in situazioni di grave fragilità e marginalità sociale. Sottolinea la necessità di interventi sociali per affrontare le loro sfide attuali e prevenire possibili deviazioni future. In questo contesto, le attività fisiche, corporee e sportive emergono come potenziali strumenti di intervento. Tuttavia, l'efficacia di tali interventi dipende da un insieme di variabili. Il contributo presenta i risultati preliminari di una ricerca di dottorato che ha analizzato le storie di vita di 15 minori fragili, per esaminare l'impatto delle attività sportive su di loro e identificare i criteri di successo per l'intervento.
Adolescence, Discomfort, Body, Sport, Socio-educational intervention
Adolescenza, Disagio, Corpo, Sport, Intervento socioeducativo
Conceptualization (S. Sangalli); Investigation (S. Sangalli; A. Borgogni); Writing – original draft (S. Sangalli, A. Borgogni); Writing – review and editing (A. Borgogni). Accordingly, Authorship is reflected in the curation of the following paragraphs: Section 1 (S. Sangalli; A. Borgogni); Section 2 (A. Borgogni); Section 3 (S. Sangalli); Section 4 (S. Sangalli); Section 5 (S. Sangalli; A. Borgogni); Section 6 (S. Sangalli; A. Borgogni).
The Authors declare no conflicts of interest.
April 15, 2024
September 20, 2024
September 21, 2024
Già nel 2005, Benasayag e Schmit (2005) raccontavano di una società immersa nella crisi a causa dei diffusi stati di insicurezza e precarietà. Infatti, al futuro, prima sinonimo di progresso e di fiducia, ci si è iniziati ad avvicinare con diffidenza e pessimismo. “Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie: la lunga litania delle minacce ha fatto precipitare il futuro da un’estrema positività a una cupa e altrettanto estrema negatività” (Benasayag & Schmit, 2005, p. 15). Ma non è la sola società a essere in crisi: le stesse persone vivono una propria e personale crisi. Ciò significa che siamo di fronte a delle “crisi nella crisi” (Benasayag & Schmit, 2005, p. 9).
A distanza di quasi 30 anni la situazione non è cambiata e anche gli stessi minori ne risentono: le conseguenze che la pandemia ha generato, la crescente povertà assoluta delle famiglie e la derivata povertà economica, oltre che le situazioni più gravi di disagio giovanile, richiedono un intervento immediato (Open Polis, 2023a; 2023b; 2024).
I professionisti dell’educazione, a partire dalle conoscenze proprie della pedagogia, possono ipotizzare di impostare interventi socioeducativi che si basino sulle attività corporee, motorie e sportive. Esse, ormai considerate parte integrante del welfare sociale, sono provviste di potenzialità capaci di offrire benefici multipli a chi le pratica. Questi però non sono scontati; infatti, sta emergendo sempre di più la necessità di fare ricerca in questo campo (Coakley, 2011; Coalter, 2015).
Il seguente contributo vuole presentare i risultati preliminari di una ricerca di dottorato, che aspira a individuare i limiti e i criteri di successo di interventi socioeducativi rivolti a minori affidati ai servizi di tutela, che hanno visto ricoprire un ruolo significativo dalle pratiche sportive.
Essere adolescenti in questi tempi non è semplice: i dati mostrano che sono diverse le crisi che stanno affrontando.
La pandemia da COVID-19 ha portato un peggioramento della salute mentale e del benessere psicologico proprio nei più giovani: disturbi dell’umore, ansia, depressione, autolesionismo e istinti suicidi, ma anche disturbi dell’alimentazione sono alcune delle difficoltà causate e sostenute dalla pandemia. Benché, a partire dal 2022 le evidenze mostrino un miglioramento del benessere psicologico, la situazione resta ancora critica, anche perché questi disagi hanno avuto una ricaduta sulla salute complessiva della persona e sulla sua qualità di vita (Open Polis, 2023a).
A ciò si aggiunge che da oltre un decennio i minori sono i più colpiti dalla povertà assoluta, ovvero vivono in famiglie che non possono economicamente permettersi i beni considerati essenziali. Nel 2022 erano ben il 13,4% dei minori a risentire di questa problematica e i maggiormente colpiti erano proprio i più piccoli (Open Polis, 2023b). La stessa pandemia ha contribuito ad aumentare il numero di famiglie rientranti nel gruppo della povertà assoluta.
La questione della povertà economica risulta ancora più rilevante in quanto va ad alimentare anche quella educativa che limita, proprio per le scarse disponibilità economiche, esperienze educative, formative, culturali e sociali, tra cui anche il gioco e le attività fisiche-sportive. Le conseguenze di queste mancanze non riguardano solo il presente, ma minacciano il futuro del minore che rischia, da adulto, non avendo potuto apprendere e beneficiare di reti sociali e mezzi culturali, di vivere anch’egli in povertà economica (Open Polis, 2020), senza le adeguate competenze per vivere la cittadinanza in modo attivo e consapevole (De Angelis, 2020), rischiando anche l’esclusione sociale (Nussbaum, 2012; Sabatano, 2011).
In questo panorama, di per sé già critico, si radicano le storie di quei minori che vivono situazioni ancora più gravi. Stiamo parlando di coloro in condizione di disagio: giovani trascurati, da tanti punti di vista (fisico, emotivo e educativo), con carenze materiali e relazionali; inseriti in famiglie deprivate, senza adeguati strumenti economici e educativi per sopperire ai loro bisogni; rifiutati dalle famiglie o con genitori non adatti a ricoprire il ruolo genitoriale (Bertolini & Caronia, 2015). Giovani, quindi, fragili e poco capaci di resistere agli “urti” della vita; vulnerabili, in quanto costantemente esposti a situazioni potenzialmente deleterie; marginali, alla periferia della società, dove risorse, aiuti e sostegni sono insufficienti; a volte già devianti, quindi esecutori di comportamenti anomali e contrari a regole e norme (Sabatano, 2011; Friso & Visentin, 2019,). Frequentemente, vengono affidati ai servizi di tutela e da questi sono inseriti in centri diurni e/o comunità (Raineri & Corradini, 2022).
Essi stanno vivendo notevoli carenze e sofferenze; rischiano di non acquisire adeguate competenze per vivere in modo attivo, consapevole e inclusi nella società (Bartoli & Pedullà, 2013; Nussbaum, 2012; De Angelis, 2020). Inoltre, se non lo hanno già fatto, hanno probabilità di sviluppare comportamenti devianti e criminali compromettendo, così, il loro futuro (Bertolini & Caronia, 2015).
In un contesto in cui il malessere psicologico ha raggiunto livelli allarmanti e la povertà assoluta dilaga alimentando quella educativa, il problema del disagio giovanile richiama ancora di più le attenzioni degli esperti dell’educazione e della formazione (Milana, 2021).
Pedagogisti e educatori hanno il compito di promuovere interventi socioeducativi, destinati alle situazioni di vulnerabilità giovanile più gravi, proprio per lavorare sul loro presente e sul loro futuro (Bertolini & Caronia, 2015). L’obiettivo deve essere quello di proporre occasioni di “riposizionamento” (Canevaro, 2006), con le quali modificare la propria vita anche percependo la possibilità di renderla migliore, a partire proprio dalla presa di coscienza della condizione opprimente vissuta (Freire, 1967, 1974).
Bertolini e Caronia (2015) descrivevano questi ragazzi, a rischio, disadattati e, in alcuni casi, delinquenti, come “difficili”, in quanto innumerevoli sono gli ostacoli che ogni giorno devono affrontare e queste difficoltà “di riflesso fanno sì che essi siano considerati difficili dagli altri” (Bertolini & Caronia, 2015, p. 36). Con riferimento alle esperienze educative e sociali condotte da Piero Bertolini a partire dagli anni ’50 (Bertolini, 1965; Iori, 2016; Caronia, 2018), che costituiscono l’architrave dei lavori successivi e della fondativa prima edizione (1993) del testo cui stiamo facendo cenno, l’intervento che gli autori propongono deve portare a rileggere in modo funzionale il passato e il proprio vissuto, per poi andare a costruire una “nuova visione di mondo”. Questo percorso diviene praticabile passando proprio da esperienze insolite per i minori, tra cui quelle del “bello”, con le quali confrontarsi con le meraviglie del mondo, del “difficile”, per mettere in gioco impegno e responsabilità, dell’“altro”, per imparare a stare con gli altri e godere dei vantaggi delle relazioni, e dell’“avventuroso”, al fine di scontrarsi con i propri limiti. Alla luce di ciò, le attività corporee, motorie e sportive possono rientrare tra quelle che si possono proporre ai giovani in situazione di disagio per affrontare le loro difficoltà.
Quando si pensa a un intervento socioeducativo per ragazzi e ragazze fragili si può ipotizzare di partire proprio dal corpo, dotato di una duplice funzione: da una parte può essere studiato per comprendere gli effetti delle crisi in corso, essendo esso “uno straordinario punto di osservazione sul mondo” (Digennaro, 2021, p. 44); dall’altra parte può essere considerato il “punto di attacco per interventi mirati attraverso cui avviare il superamento della crisi individuale” (Digennaro, 2021, p. 44). Il corpo, infatti, è il “punto zero” (Foucault, 2006; Borgogni & Zappettini, 2022) della conoscenza sul mondo: è con esso “che noi percepiamo e conosciamo il mondo” (Casolo & Tosi, 2023, p. 27), entrando in relazione con lui, con le altre persone e gli oggetti. Il corpo, quindi, è “a tutti gli effetti, un fondamentale mezzo per la gestione e un eventuale superamento del disagio giovanile” (Digennaro, 2021, p. 51).
Dunque, possono essere prese in considerazione le attività motorie e sportive, che naturalmente coinvolgono il corpo nella sua totalità. Nel corso degli anni, se ne è evidenziata sempre di più la loro dimensione sociale, a partire proprio dal riconoscimento dei benefici che esse portano a più livelli: salutari, psichici, relazionali oltre che per lo sviluppo economico.
Già nel 1978, con la Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport, dell’UNESCO (1978, 2015), si stabiliva che esse fossero a pieno titolo un diritto fondamentale che ogni istituzione deve riuscire a garantire. Queste considerazioni sono state ribadite e ampliate anche successivamente, a livello europeo, nel Libro bianco sullo sport (White Paper on Sport, 2007) e, a livello mondiale, nel Piano di Kazan (2017).
Di esse viene evidenziato il ruolo nel campo dell’inclusione sociale, per la quale si intende la “possibilità/capacità di una società di assicurare a tutti gli individui il raggiungimento di standard dignitosi di vita, riferiti non solo alle condizioni materiali (e quindi perseguiti con interventi di tipo economico) ma finalizzati al benessere complessivo delle persone, attraverso il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini stessi” (Loiodice, 2013, p. 209).
Le attività motorie sportive, oltre a rappresentare un’occasione di crescita personale, di confronto con i propri limiti e capacità, di relazione con i pari, di rispetto delle regole e degli altri, aiutano a costruire un’immagine più consapevole di sé. Portano a confrontarsi con i propri errori e le proprie responsabilità, ad esempio, a seguito di sconfitte, con l’importanza del sacrificio e della perseveranza al fine di ottenere vittorie, aiutando anche a gestire diverse emozioni, come l’ansia e la frustrazione (Di Palma et al., 2016).
Il rispetto degli altri, il pensiero critico, il sapersi assumere le proprie responsabilità, elementi che si esercitano in contesto sportivo, aiutano a vivere la cittadinanza in modo più attivo e consapevole e, di conseguenza, ad essere inclusi nella società indipendentemente delle eventuali condizioni di disagio vissute (De Angeli, 2020).
Che l’attività motoria e sportiva stiano diventando sempre più rilevanti a livello di welfare sociale lo si può comprendere anche dal recente cambiamento effettuato nella Costituzione della Repubblica Italiana. L’attività sportiva, in tutte le sue forme, è ora riconosciuta un diritto sociale, fondamentale a livello educativo, sociale e per il benessere psicofisico (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 33). È diventata fondamentale tutelarla e tutelare anche tutti gli enti che la promuovono a livello dilettantistico, soprattutto per salvaguardarne la sua funzione educativa e il suo valore inclusivo.
La funzione educativa, sociale e benefica dell’attività corporea, motoria e sportiva sta godendo di un crescente riconoscimento a livello istituzionale, sia dagli organi nazionali e internazionali, che nell’opinione pubblica, a tal punto da essere considerata un mezzo funzionale per intervenire contro il disagio giovanile.
Per quanto riguarda, invece, il panorama scientifico si individuano due diverse tendenze: da una parte, una corrente di pensiero, spesso riscontrabile nella letteratura nazionale, dà per scontati i benefici di queste attività, indipendentemente dal contesto e dalle modalità di promozione; dall’altra parte le evidenze, in particolare internazionali, condannano la fede acritica che si ha nei confronti delle attività sportive (in tutte le forme), andando contro a quegli interventi socioeducativi che le utilizzano senza adeguati studi e ricerche preliminari (Coakley, 2011).
Infatti, di frequente, vengono destinate risorse economiche, messe a disposizione dai decisori politici, volte proprio a finanziare progetti socioeducativi che propongono attività motorie e sportive a ragazzi e ragazze che vivono in una condizione di disagio, in povertà educativa, in famiglie fragili, o che sono in messa alla prova. Anche a livello internazionale è diffusa la campagna di Sport per lo Sviluppo e per la Pace che propone due tipi di interventi, o un mix di questi: Plus Sport e Sport Plus; il primo utilizza lo sport come aggancio, per attirare giovani e coinvolgerli in programmi che realmente hanno obiettivi sociali e sanitari; il secondo promuove sia il raggiungimento di obiettivi sportivi (come l’acquisizione di abilità e competenze sportive, o la leadership), sia questioni sociali più generali, come l’equità di genere, le Life Skills e la salute (Coalter, 2008; 2010).
La stragrande maggioranza delle volte che si finanziano iniziative di questo genere, lo si fa reputando che la sola partecipazione ad attività corporee, motorie e sportive procuri benefici, quando invece questo non è, sempre, vero. Lo sport è visto possedere un potere mitopoietico verso cui si prova una fede evangelica (Coalter, 2017; 2015), tanto che raramente vengono effettuati, come già detto, studi approfonditi, anche di carattere longitudinale, sugli effettivi effetti a lungo termine della pratica motorio sportiva.
Al contrario, alcuni studiosi, benché in numero limitato, negli ultimi decenni hanno provato a studiare le vere conseguenze dell’attività corporea, motoria e sportiva su chi le pratica, nonché sui giovani vulnerabili. Nonostante le difficoltà metodologiche dovute alla complessità nell’isolare le variabili in gioco, è emersa una relazione, contingente e occasionale, tra sport e sviluppo, che dipende da una serie di fattori multipli (Hartmann, 2003).
Lo sport non è educativo di per sé (Mantegazza, 1999), ma ciò dipende “dalle intenzioni, dalle modalità e dal contesto in cui si esprime” (Gamelli, 1991, p. 31) e, in particolare, entrano in gioco anche elementi non prettamente sportivi (Hartmann, 2003).
Tra le componenti sportive, che hanno influenze sul tipo di impatto che l’attività ha sul giovane, troviamo, per esempio, il tipo di sport praticato, le azioni dei compagni di squadra e di allenamento, il contesto materiale e culturale in cui avvengono le proposte, l’allenatore e le azioni che compie, la forma delle proposte, ecc. Tra quelle, invece, indipendenti dal contesto sportivo, risultano essere rilevanti le caratteristiche sociali del minore e il contesto sociale da cui proviene, le azioni compiute dal genitore e/o dagli altri adulti di riferimento (ad esempio, gli educatori della comunità e del centro diurno), ma anche il modo in cui si riesce a integrare lo sport nella vita personale (Coakley, 2011; Coalter, 2012).
Da un punto di vista formale, si è visto che le attività sportive tendono ad essere più efficaci quando sono ben strutturate e programmate, e non proposte in modo libero, magari relegate ai momenti di pausa; se attirano l’interesse dei minori; se sono praticate per un periodo considerevole di tempo (che spesso nei centri diurni o nelle comunità non si ha); praticate in piccoli gruppi composti non solo da giovani in situazione di disagio, portate avanti in spazi adeguati, con un livello di difficoltà crescente, ecc. (Verdot & Schut, 2012; Super et al., 2018).
È stato, inoltre, notato che società che hanno un approccio commerciale allo sport, non sono indicate per accogliere i minori fragili (Di Palma et al., 2016); essendo, infatti, l’obiettivo l’inclusione del giovane e il miglioramento della condizione in cui si trova nella vita di tutti i giorni, è fondamentale che il fine con cui le attività sportive vengono eseguite non sia prettamente rivolto alla competizione esasperata, ma sia più centrato sulla persona (Haudenhuyse et al., 2011).
Un altro elemento ricorrente in diverse analisi è la figura dell’allenatore; emerge la necessità che possieda una formazione educativa adeguata, che, per esempio, permetta di comprendere più in profondità cosa significa vivere in condizione di vulnerabilità (Hartmann, 2003; Haudenhuyse et al., 2011). Inoltre, l’allenatore, oltre a rappresentare un modello per i minori (e da qui la necessità di agire comportamenti adeguati e promuovere un clima positivo), può assumere un ruolo importante nella facilitazione dei processi di apprendimento positivo, promuovendo, per esempio, la filosofia della non violenza e del rispetto per gli altri, il senso di responsabilità verso gli altri e verso sé stessi, ma anche una presa di coscienza delle proprie abilità (Coakley, 2011). In un contesto dal clima positivo, deve comunque fissare regole chiare che con autorevolezza deve far rispettare (Haudenhuyse et al., 2011).
Anche il tipo di attività che propone può influenzare l’acquisizione da parte del giovane di determinate abilità e consapevolezze: sfide che permettono di sperimentare il successo, attività costruite appositamente per favorire lo sviluppo di Life Skills, si è visto che migliorano l’autostima o la capacità di gestione delle emozioni (Hermens et al., 2017).
In diversi studi si è visto che un’atmosfera di supporto, una partecipazione attiva del minore, l’invito alla riflessione da parte dell’allenatore sono altri elementi che possono non solo favorire l’acquisizione di Life Skills, ma aiutano anche a trasferire ciò che si è sperimentato in contesto sportivo anche all’esterno (Newman & Anderson-Butcher, 2021; Hermens et al., 2017).
Una menzione particolare va fatta proprio al ruolo della riflessione del minore su ciò che succede durante la pratica sportiva, anche su invito da parte dell’allenatore. La sollecitazione esplicita a riflettere sulle proprie capacità di fronte a un successo o al superamento di una prova difficile, a riflettere sugli errori e sulle strategie per superarli, a riflettere sulle Life Skills esercitate e sul come utilizzarle anche in contesti altri, ha dato in diversi casi risultati positivi, e ha aiutato i giovani ad acquisire un’immagine più consapevole di sé (Super et al., 2014; Super et al., 2018; Newman & Anderson-Butcher, 2021; Spruit et al., 2018; Coalter, 2012).
Dunque, le variabili che entrano in gioco sono evidentemente numerose; oltre alla difficoltà, in fase di ricerca, di isolarle per capire l’effettiva influenza, è necessario tenere conto del fatto che, in ottica idiografica, non tutte hanno impatto o lo stesso tipo di impatto su ogni giovane.
Gli obiettivi della ricerca sono stati prevalentemente due: in prima istanza, si è cercato di comprendere gli effetti delle attività motorie e sportive sulle traiettorie di vita dei giovani che vivono in condizione di disagio; secondariamente, si è cercato di individuare come gli interventi socioeducativi (“di natura” sportiva) devono essere pensati, progettati e proposti, affinché abbiano su questi giovani un impatto positivo e siano capaci presumibilmente di favorire l’inclusione sociale.
È stata effettuata una ricerca qualitativa e idiografica, in grado di cogliere la singolarità e irripetibilità di ogni minore e della realtà a cui apparteneva.
La ricerca non ambisce a essere rappresentativa, bensì mira alla significatività: ogni minore è portatore o portatrice di una storia personale e singolare; ciò che su di lui ha avuto delle influenze non è detto che abbia lo stesso effetto sugli altri. È possibile però supporre che di fronte a due minori molto simili e con storie somiglianti, in base al principio di significatività, l’impatto di un uguale intervento potrà avere degli sviluppi comuni (Gobo, 2004).
È doveroso precisare che fare ricerca nei contesti difficili, indagando storie difficili, è un lavoro difficile (Mortari, 2013; Agostinetto & Bugno, 2020). Quando si ha che fare con ragazzi che vivono queste situazioni, si tratta di entrare in storie caratterizzate da una forte instabilità e da poche certezze, connotate anche da frequenti cambiamenti. Cambiamenti di casa, di persone con cui si abita, di servizi in cui si è inseriti, di scuole, di amicizie, ecc. A volte le responsabilità dei cambiamenti sono da imputare ad altri (ad esempio, genitori che abbandonano i figli, che devono lasciare il nucleo abitativo, che sono costretti a cambiare città, oppure educatori che cambiano lavoro), altre volte, invece, i responsabili, sono proprio i ragazzi, perché, in fondo, quando l’instabilità diventa un’abitudine, non avendo mai sperimentato la continuità, si fatica a tenere un qualsiasi tipo di attività.
In più, essere ospitati da servizi di tutela, come comunità e centri diurni, nonostante siano essi contesti strutturati, non facilita le cose: da una parte, i servizi stessi si ritrovano costretti ad affrontare le emergenze quotidiane che possono distogliere attenzione ed energie a una programmazione più a lungo termine; dall’altra parte, la natura stessa di queste strutture, contraddistinta da ampi turn over del personale, complica la continuità del lavoro educativo stesso.
Tali situazioni, visto l’alto livello di incertezza, apparentemente, si prestano poco alla ricerca. Resta il fatto che, benché difficile, fare ricerca in questi contesti è un’azione pedagogicamente doverosa, in primo luogo, in ottica milaniana, per non essere quel famoso ospedale che si occupa solo dei sani respingendo i malati, ma anche per accorciare le distanze tra i vissuti difficili e la storia, comprendendo anche ciò che sta alla base dei processi di esclusione (Sindoni, 2020). Mortari (2013) ci invita a occuparci dei problemi veri, anche se ciò comporta difficoltà di generalizzabilità dei risultati. La ricerca sulle situazioni difficili, che incontra ostacoli nel suo svolgimento e che deve, senza ovviamente mancare di qualità, scendere a compromessi, può e deve essere considerata rilevante, significativa e generatrice di nuovi saperi (Agostinetto & Bugno, 2020).
Per la ricerca qui presentata sono stati selezionati 15 giovani inseriti nei servizi di tutela, che hanno praticato attività sportiva per un periodo compreso tra i tre mesi e i tre anni; per tre minori l’attività sportiva sta proseguendo, anche se per due di questi l’affidamento al servizio sociale si è già concluso. In alcuni casi, i minori sono stati selezionati tra quelli che avevano preso parte a un progetto coordinato dal CSI di Bergamo che ha coinvolto in attività sportive adolescenti difficili, seguiti dai servizi di tutela, frequentanti centri diurni o affidati a comunità (per un approfondimento maggiore in merito al progetto e ai risultati si rimanda a: Sangalli & Borgogni, 2024).
Il campione di convenienza è stato selezionato tra i diversi casi presentati da tre servizi di tutela: sono stati esclusi minori non accompagnati, in quanto possessori di bisogni parzialmente differenti rispetto al tema della ricerca (Traverso, 2018); sono stati selezionati giovani che avevano praticato sport da un periodo significativo di tempo (visto il contesto fragile, come descritto poc’anzi, tre mesi di esperienza sono, per i giovani indagati, molto significativi e influenzanti); sono stati accettati sia casi in cui l’attività sportiva è stata vissuta positivamente che negativamente.
In particolare, sono stati coinvolti 7 maschi (M) e 8 femmine (F) frequentati tre servizi di tutela di Bergamo (afferenti a due cooperative diverse): 4 M della Comunità “I funamboli” della cooperativa Generazioni Fa; 3 M e 1 F del Centro Diurno “Progetto Autonomia” sempre di Generazioni Fa; 7 F della Comunità femminile “Casa ai Celestini” della cooperativa Agathà.
L’idea iniziale era quella di concentrarci sulle loro storie di vita con un focus sull’esperienza sportiva; non è stato possibile in tutti i casi intervistare direttamente i ragazzi, in alcuni casi perché minorenni e quindi per motivi di privacy non ci era permesso intervistarli (e avendo situazioni famigliari complicate non era nemmeno possibile chiedere permesso ai genitori), in altri casi perché, benché maggiorenni, o i coordinatori non avevano più contatti con loro o la loro situazione era così delicata che i coordinatori hanno convenuto che sarebbe stato meglio non contattarli direttamente.
Per ovviare a tutti gli ostacoli trovati sul cammino della ricerca, si è trovata una soluzione di qualità che avrebbe permesso ugualmente di indagare le domande di ricerca. Sono stati intervistati le coordinatrici dei tre servizi e gli allenatori dei giovani. Per quanto riguarda le prime, si è deciso di intervistare loro e non gli educatori, perché, oltre a essere meno coinvolte nelle logiche di turn over, sono coloro che possiedono più chiaramente il quadro generale della storia del minore e hanno i contatti con tutti quelli che si interfacciano con lui (famiglia, insegnanti, tribunale, neuropsichiatria, ecc.); per quanto riguarda la nostra indagine, le coordinatrici che vi hanno partecipato sono state tre, una per servizio. Per un approfondimento, sono state intervistate anche tre educatrici.
Per quanto riguarda gli allenatori, quelli coinvolti sono stati 8 (7 M e 1 F); in totale, però, le interviste sono state 12, in quanto 2 allenatori avevano seguito 2 M, e una allenatrice aveva seguito 3 F. Solo per 3 minori (1 M e 2 F) non è stato possibile parlare con l’allenatore.
Per quanto riguarda i giovani, sono tre quelli intervistati, 1 M e 2 F.
In tutti i casi sono state effettuate interviste semi-strutturate che si sono svolte online, tranne quella con il giovane M, che ha preferito venisse svolta in presenza. Le interviste sono state registrate, successivamente sbobinate e poi analizzate secondo l’approccio della paradigmatic analysis (Mortari, 2013); operando un’epochè fenomenologica e una riduzione eidetica (Trinchero, 2002), restando fedeli al fenomeno, sono state individuate delle unità significative, poi etichettate e raggruppate in macrocategorie.
Con l’analisi delle interviste sono state indagate le domande di ricerca riguardanti l’effetto dell’attività sportiva sulla traiettoria di vita del giovane e quali elementi sono necessari all’esperienza sportiva affinché abbia un impatto positivo.
Tuttavia, l’analisi è ancora in corso, perciò in questa sede verranno presentati i risultati preliminari.
Apparentemente questo paragrafo potrebbe sembrare un controsenso: infatti, in letteratura si evince chiaramente che non basta la partecipazione ad attività motorie sportive per ottenere dei benefici. Ovviamente, anche l’analisi delle interviste ha portato a questa conclusione; è, altresì, evidente, che, se la persona, in questo caso il minore, non vi partecipa non potrà ottenere benefici (Verdot & Schut, 2012). Perciò, benché non sufficiente, partecipare all’attività risulta necessario.
Analizzando i dati, è stato possibile individuare elementi che hanno portato il praticante a frequentare con più continuità.
Prevedibile, pur non banale, il sostegno economico dei genitori (Coakley, 2011) o, a volte, degli educatori necessario per finanziare l’iscrizione al corso e l’acquisto del materiale. D’aiuto anche la disponibilità della società sportiva a contribuire alle spese e/o a ridurre la quota d’iscrizione.
La decisione di praticare attività sportiva e a quale partecipare, se presa in autonomia o supportata da riflessioni condivise, rende più probabile la continuità della pratica (Hartmann, 2003).
La frequenza alla stessa squadra o gruppo di allenamento da parte di un conoscente (che sia un amico, compagno di classe o di comunità) influenza positivamente la partecipazione. Chiaramente ciò è talvolta diventato un ostacolo, in quanto, nel caso il conoscente abbia interrotto la pratica, ciò ha determinato la rinuncia anche del “nostro” minore.
Scelte educative e di cura spontanee o intenzionali (Maulini et al., 2017), sia pure a volte minime, compiute da allenatori e educatori hanno influenzato positivamente la frequenza. Talvolta gli educatori, in particolare quelli delle comunità, controllavano che il minore si preparasse per l’attività spronandolo ad andare anche quando la motivazione era bassa, per esempio, per stanchezza o svogliatezza. Minor controllo di questi aspetti è stato riscontrato nei centri diurni poiché non si passa tutta la giornata con i minori. Anche le azioni di alcuni allenatori sono state fondamentali: con alcuni minori più restii venivano mantenuti costanti contatti telefonici per ricordare l’allenamento o anche per offrire passaggi in auto. In questi casi, gli allenatori si sono messi a diposizione compiendo azioni che andavano oltre il loro ruolo e dedicando “gratuitamente” forze ed energie.
Dall’analisi del materiale raccolto sono emersi anche elementi che hanno ostacolato la frequenza. Primo fra tutti un’inadeguata preparazione fisica e tecnica: in particolare negli sport di squadra, il confronto con gli altri, più bravi tecnicamente e prestanti fisicamente, in certi casi ha portato il minore ad abbandonare l’attività (Haudenhuyse et al., 2011).
Anche la presenza di influenze esterne al contesto sportivo e al servizio di tutela ha osteggiato la partecipazione; per esempio, a volte i minori preferivano uscire con la propria compagnia piuttosto che andare ad allenamento o alla partita/ gara (Coakley, 2011).
In alcuni casi, l’insufficiente supervisione da parte degli educatori si è rivelata deleteria: talvolta, per incoraggiarne l’autonomia gestionale, i giovani venivano invitati a organizzare autonomamente gli spostamenti, senza tuttavia un adeguato controllo da parte degli adulti. A differenza di quei casi in cui gli educatori comunicavano con gli allenatori proprio per capire l’effettiva presenza, ci sono stati minori che concretamente non hanno partecipato ad alcun allenamento mentre i loro educatori ne erano completamente all’oscuro.
Chiaramente questo è collegato alla frequenza dei contatti tra allenatori e educatori: la mancata condivisione di strumenti per agganciare il giovane ha portato alcune esperienze a concludersi in breve tempo (D’Angelo et al., 2021).
Per quanto riguarda questa sezione, alcuni degli elementi che hanno condizionato positivamente la partecipazione sono stati anche quelli che hanno reso positivo l’impatto dell’attività sulla vita del giovane.
Tra questi ritroviamo la significativa motivazione del giovane (Hartmann, 2003) a praticare sport: a far la differenza è stata, in alcuni casi, la voglia e la disponibilità di mettersi in gioco.
Di notevole importanza anche il lavoro svolto dagli educatori e dagli allenatori per invogliare il giovane a condividere la riflessione su ciò che accadeva in contesto sportivo (Newman & Anderson-Butcher, 2021). Per esempio, una minore era preoccupata per la fatica che faceva nell’allenamento, pur non essendo una principiante. Una riflessione sul senso della fatica, condivisa con la sua allenatrice, ha fatto sì che la sua difficoltà non influenzasse negativamente il percorso.
Questo positivo lavoro di riflessione è stato significativamente favorito dal costante scambio di aggiornamenti tra educatore e allenatore; in questo modo, entrambi potevano sfruttare gli elementi di cui venivano a conoscenza (D’Angelo et al., 2021). Quando questo scambio è mancato non ha fornito, ad esempio, agli educatori elementi con cui potessero lavorare su altri aspetti della quotidianità.
Inoltre, un numero notevole di allenatori ha lamentato un carente aiuto da parte dell’ente educativo: quando il percorso non presentava difficoltà, la parte educativa non vedeva la necessità di un confronto frequente. In realtà, è emerso che gli allenatori avrebbero desiderato avere un rimando sul loro operato e su ciò che il minore riportava: alcuni hanno proposto che sarebbe ottimale fissare a priori degli incontri di aggiornamento.
Un fattore di particolare rilevanza, che può essere considerato un finding della ricerca, è stata la possibilità di personalizzare il ruolo del minore all’interno della società a seconda delle sue competenze in ambito sportivo e delle sue preferenze: alcuni, a fronte delle carenze tecniche che avrebbero potuto mettere in difficoltà nel confronto con i pari, hanno assunto il ruolo di aiuto allenatore o con compiti di assistenza; ad altri che hanno iniziato come atleti, quando hanno deciso di terminare l’attività, è stato proposto di restare assumendo altri compiti. Ciò ha permesso loro di sperimentarsi in contesto esterno dal servizio di tutela, ma ugualmente protetto; il fatto che venissero loro affidati incarichi e responsabilità li ha gratificati. Il contesto sportivo, non necessariamente la pratica, comporta potenziali benefici per i giovani. Focalizzare l’attenzione sull’inclusione sociale esclusivamente attraverso la pratica, fa perdere di vista le numerose possibilità, in termini di ruoli e di mansioni, che una società o un impianto sportivo possono offrire.
Infine, sperimentare esperienze di successo e appaganti (come nel caso di vittorie o di rinforzi dovuti a compiti positivamente condotti) è positivo per il minore (Hermens et al., 2017). Da qui si evince la necessità di esporlo ad esperienze che rientrino nella categoria del possibile, adeguate alle sue capacità, affinché possa provare il trionfo, accompagnate da pertinenti riflessioni sugli errori e sulla sconfitta.
Tra gli intervistati c’erano coloro spinti da una forte “vocazione” e motivazione, che reputano il mettersi a disposizione dei giovani, soprattutto quelli più fragili, una missione. Con ciò non si vuole dire che gli altri allenatori abbiano avuto influenze negative, ma i primi sono stati coloro che hanno investito più tempo ed energie (anche non dovute) per far sì che l’esperienza per il giovane potesse essere la più positiva possibile. Hanno messo in discussione il loro operato anche chiedendo consigli agli educatori; hanno cercato il modo più funzionale per “agganciare” il minore; e, anche quando alcuni hanno smesso, non si sono dati per vinti e, a distanza di tempo, hanno ricontattato il minore per coinvolgerlo in altre attività.
Queste considerazioni portano a riflettere sulla necessità di selezione che i coordinatori e gli educatori delle cooperative devono compiere in merito alle società sportive e ai loro operatori (Di Palma et al., 2016). A tal proposito, dall’analisi delle interviste è emerso che, grazie al progetto del CSI di Bergamo a cui abbiamo accennato nel paragrafo sulla metodologia, è stata creata una proficua rete di collaborazione, all’interno della quale gli enti educativi hanno trovato società sportive idonee e allenatori adatti per i loro giovani.
Infine, va fatta un’osservazione sulla formazione degli allenatori (Hartmann, 2003; Haudenhuyse et al. 2011). Alla luce dei dati raccolti, è evidente che possedere una formazione socioeducativa è funzionale, ancora meglio se in questa ci sono stati approfondimenti sul disagio giovanile. La maggior parte degli allenatori intervistati non erano, tuttavia, tecnici di professione ma volontari, e quindi hanno frequentato per lo più aggiornamenti tecnici relativi allo sport da loro proposto. Altri, invece, possedevano un diploma ISEF, ma anche in questo caso non avevano formazioni specifiche sul tema del disagio.
Dalle interviste è emerso che questi ultimi, e altri che hanno ruoli educativi in distinti contesti (ad esempio l’oratorio), non sentivano la necessità di una formazione sul tema del disagio, poiché ritenevano di possedere sufficienti conoscenze e competenze. Altri, invece, tra gli allenatori “volontari”, erano consapevoli delle loro carenze sul tema e manifestavano la necessità di essere formati tanto che, grazie al progetto prima menzionato, avevano frequentato la formazione congiunta con gli educatori (tra l’altro, considerata prodromica alla buona riuscita della progettualità) e hanno, poi, concretamente potuto sfruttare le nozioni apprese nel lavoro con i minori “difficili”.
Per quanto riguarda il tipo di influenza che l’attività sportiva ha sulla vita dei minori, indubbiamente ha senso parlarne quando, comunque, il giovane vi ha partecipato per un periodo significativo di tempo e non in modo episodico. Una durata limitata può anche avere qualche influenza, ma effettivamente è difficile stabilire se c’è stato un impatto a lungo termine.
In merito, invece, a quei giovani che hanno frequentato con più continuità l’attività o che ancora rimangono in quel contesto, i coordinatori hanno riportato dei miglioramenti di vario genere nella vita di tutti i giorni: possiamo qui citare l’esempio di un minore entrato in comunità per ritiro sociale che, grazie all’esperienza sportiva, ha iniziato a frequentare anche l’oratorio dove questa veniva promossa entrando anche in rapporto con i giovani della parrocchia. Un’altra ragazza, invece, ha trovato nello sport la professione che vorrà fare da grande; perciò, ha deciso di cambiare scuola e investire le sue energie laddove si sente più portata e soddisfatta.
Spesso lo sport viene utilizzato anche dagli educatori come “metafora”. Alcuni minori sono diventati più autonomi nella gestione del materiale necessario per praticarlo e nell’organizzazione, oltre che nella cura di sé. Perciò gli educatori, per far sì che trasferiscano queste abilità negli altri contesti di vita, all’occorrenza fanno riflettere i ragazzi su ciò che hanno acquisito relativamente all’attività sportiva per portarli a fare un parallelismo con la quotidianità.
In altri casi, nonostante l’esperienza sia stata positiva, di fronte a un livello di compromissione molto alto (ad esempio, nel caso di utilizzo di sostanze) l’attività sportiva apparentemente non è stata un “gancio” abbastanza forte. Non è detto che nel futuro di questi giovani il ricordo di un’esperienza positiva non sia germoglio per qualcosa di altrettanto buono.
In realtà, per il tipo di studio che si sta affrontando, anche in fase di follow-up è complicato stabilire se l’aver frequentato attività sportiva abbia avuto effettive influenze sulla traiettoria di vita o se e quanto sia proprio questa ad aver migliorato la qualità di vita del giovane (Hermens et al., 2017; D’Angelo et al., 2021). Dall’intervista degli unici tre giovani ora maggiorenni sembrerebbe che l’impatto positivo maggiore sia avvenuto in quelli che sono riusciti a rielaborare la loro esperienza.
Alla luce delle crescenti difficoltà che vivono gli adolescenti, è necessario trovare gli strumenti per intervenire in modo efficacie. L’attività motoria, fisica e sportiva può concretamente rappresentare un valido aiuto.
Pur essendo aumentate le opportunità di finanziamento relative a questo ambito, la scarsità di ricerche, in particolare longitudinali, che li hanno accompagnati ha portato a una notevole e preoccupante mancanza di evidenze scientifiche lasciando spazio, anche a livello accademico, ad una visione acritica nei confronti dei benefici, a priori, che l’attività sportiva può apportare.
Il contributo qui presentato va nella direzione di colmare il vuoto che negli anni si è venuto a creare, individuando alcuni criteri che possono rendere un intervento socioeducativo, che coinvolge lo sport in maniera significativa, di successo.
Rimane il fatto che ogni persona, in questo caso ogni minore, rappresenta una singolarità e, perciò, il tipo di impatto che un’attività sportiva ha su di lei o lui è strettamente personale.
Ciò che al momento risulta necessario è l’attivazione di studi longitudinali, di cui il mondo accademico deve farsi carico.
Infine, altro aspetto su cui la comunità accademica deve interrogarsi, è la formazione accademica dei laureandi in scienze motorie e di quelli nelle professioni educative che, al momento, presenta lacune in merito alla riflessione sulla relazione sport e educazione, in particolare quando parliamo di ragazzi “difficili”.
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