La «crudeltà» del cigno. Lettura di una lirica montaliana
Abstract
La riscrittura montaliana del mito classico del cigno affidata alla lirica Nel Parco di Caserta mostra non solo come si attivi un percorso che discopre analogie tematiche e sviluppa una intertestualità latente, ma anche come occorra il potere di identificazione che solo il poeta produce e che trasmuta il topos in qualcosa che non era prima, in modo che esso renda un senso nuovo, acquisti un significato diverso. L’idea che il componimento vuole rendere è quella di un rovesciamento dei valori classici: il cigno crudele come conseguenza della fine (il vuoto) della cultura classica. Quello che per la poesia antica era una figura cosmica diviene per Montale una figura di destino e il segno di uno smarrimento esistenziale. Il problema del perché il cigno si trovi all’opposto di un valore positivo trova una soluzione che contamina i principi dell’antichità classica con i dati della modernità. La dichiarata «crudeltà» del cigno non può concludersi che con la fine del concetto di destino (le Madri), centro assoluto di gravità dell’antico.
Nella cruelity del volatile sta il tratto psicologico della coscienza della lacerazione e della fine di un modo di intendere la letteratura. Proprio in questo aggettivo iniziale, il cigno mostra una parvenza di metafisica (e barocca) squisitezza, cosa che indica la sua sopraggiunta importunità in poesia. L’immagine del cigno ha sempre significato, nella letteratura e nell’iconografia, l’altezza del desiderio, l’eros che la presenza delle ali trasforma in angelo. Le ali gli danno l’aspetto femmineo, di uccello ampio e prodigioso; l’esiguo collo indica la tensione di tutto il corpo nello sforzo di ripiegamento in sé, un gesto di chiusura ancestrale e di cosmologica circolarità. Di qui è derivata la grande devozione umanistica a questo animale, sottile, candido, molle divenuto il simbolo stesso della poesia, similitudine del canto, della meditazione, dell’anima.