Carducci e «La guerra»
Abstract
Chi ritorni a sfogliare l’ultima raccolta di Carducci può imbattersi, come a me è avvenuto quasi per caso, in un verso (e mezzo) davvero, per me, fulminante: «(Colà dove mummie) / Dormono inutili Faraoni...». La poesia, ahimè, che è La guerra (1891), di fulminante non ha invece nulla, e non mi meraviglio di non averci fatto caso ai tempi in cui leggevo Carducci con partecipazione, né di non averla citata nel mio manuale di metrica.
Qui (essendo la metrica altra cosa dalla poesia) avrebbe potuto trovare un posto come ode alcaica il cui decasillabo non ha mai l’accento sulla sesta sillaba, come, nelle stesse Rime e ritmi di cui fa parte, la prima e la terza parte di Cadore, diversamente dall’odicina Nel chiostro del Santo, il cui decasillabo ha sempre terza e sesta toniche: forse perché la prima soluzione era sentita come più solenne? Si può solo dire che quando Carducci riesce nella migliore delle alcaiche, Alla stazione, a mettere in tensione e a rendere poeticamente necessario un linguaggio tra arcaico e straniato, il decasillabo ha sempre terza e sesta toniche («Tu pur pensosa, Lidia, la tessera / al secco taglio dài de la guardia, / e al tempo incalzante i begli anni / dài, gl’istanti gioiti e i ricordi»). Una semplice occhiata ai manoscritti mostra però il fatto curioso che a Carducci per il quarto verso tendeva a scappare l’endecasillabo: nella prima versione delle prime due strofe, «E l’uomo surse sbadigliando guerra » (destossi annotato sopra surse), «E truce rise sul percosso Abele»; e in un’ulteriore strofa che si trova nel primo foglietto manoscritto, e di cui non si rimpiangerà che non sia poi rimasto quasi nulla, un assai dubbio «Ad acuire la lucente selce» (ma si sa che i poeti dell’Ottocento per il sillabismo interno di parola – dieresi e sineresi – non esitavano quasi di fronte a niente).