Formazione & insegnamento, 23(S1), 8375

Talent and Education: Working Notes

Il talento e l’educazione: Appunti di lavoro

ABSTRACT

In this essay I will present some working notes on the problem of talent. It is an issue that circulates widely in today’s educational debate and therefore merits some consideration. To this end, my discussion will be organised into three points: (1) the nature of talent; (2) its origin; (3) the ways in which it can be intentionally cultivated.

In questo saggio presenterò alcuni appunti di lavoro sul problema del talento. Si tratta di una questione che circola ampiamente nel dibattito scolastico odierno, e perciò appare meritevole di qualche considerazione. A questo proposito, il mio discorso sarà articolato in tre punti: (1) la natura del talento; (2) la sua origine; (3) i modi della sua formazione intenzionale.

KEYWORDS

Talent development, Talent versus intelligence, Multiple intelligences theory, Nature versus nurture in talent, Gene-environment interaction

Formazione del talento, Talento e intelligenza, Teoria delle intelligenze multiple, Ipotesi innatista e ambientalista, Interazione gene-ambiente

AUTHORSHIP

This article is the result of the work of a single Author.

COPYRIGHT AND LICENSE

© Author(s). This article and its supplementary materials are released under a CC BY 4.0 license.

ACKNOWLEDGMENTS

This article is published with the support of Fondazione Umberto Margiotta.

CONFLICTS OF INTEREST

The Author declares no conflicts of interest.

RECEIVED

August 25, 2025

ACCEPTED

September 30, 2025

PUBLISHED ONLINE

October 2, 2025

ACKNWOLEDGMENTS

Con Umberto Margiotta avevamo avuto occasione di discutere di questo problema quando egli stava lavorando al suo volume sul talento (Margiotta, 2018). Una discussione franca e aperta come sempre, nella quale i nostri dissensi diventavano occasione di apprendimento reciproco.

1. La natura del talento

In generale, per “talento” si intende una specifica inclinazione cognitiva, la predisposizione e/o la capacità marcata rispetto a un certo campo culturale o a un dominio cognitivo specifico. Mentre il concetto usuale di “intelligenza” è di tipo generale, corrisponde a una capacità cognitiva ad ampio raggio, il talento ha un carattere specifico e circoscritto. Si può dire che una persona è intelligente senza bisogno di aggiungere altro, ma non che ha talento senza specificare in quale campo (per esempio, Tizio ha talento per la musica). Nel discorso ordinario si tratta così di due dimensioni diverse, che autorizzano giudizi indipendenti; per esempio: Tizio non è molto intelligente ma ha un grande talento calcistico.

Questa concezione che distingue tra intelligenza e talento sulla base del loro diverso dominio (generale nel primo caso, specifico nel secondo) è stata criticata da Gardner (1987), con la sua teoria della pluralità delle intelligenze. Questo studioso ha infatti rifiutato la distinzione fra talento e intelligenza, sostenendo che vi sono diversi tipi di intelligenza specifiche per dominio. Pertanto, non si può distinguere tra (poniamo) intelligenza musicale e talento musicale. Si tratta del medesimo concetto espresso in modi diversi. Secondo Gardner, ogni individuo possederebbe in modo più spiccato una o due forme di intelligenza. Quindi ognuno avrebbe la possibilità di farsi valere nel campo che gli è congeniale.

In ogni caso, rimane ferma l’idea che vede il talento come una capacità cognitiva specifica per dominio culturale.

2. L’origine del talento: l’ipotesi innatista

Circa il problema dell’origine del talento, la partizione canonica è quella tra l’ipotesi innatista (tutt’ora dominante nel senso comune) e quelle alternative.

Infatti, tanto in rapporto all’intelligenza quanto al talento è stata a lungo predominante l’idea del loro carattere ereditario o comunque innato. Il talento sarebbe, cioè, una sorta di dono naturale. Il carattere dei talenti avuti in sorte predetermina lo sviluppo del soggetto in ciascun campo culturale. Chi è dotato di talento linguistico si svilupperà in modo più marcato in questo campo, e meno (poniamo) in quello motorio. E. come si è detto, ognuno possiede un proprio particolare talento. Si tratta di una concezione di tipo naturalista e deterministica: le soglie potenziali di sviluppo del soggetto sono già codificate nei suoi geni, come un tempo si credeva che il destino di un uomo fosse scritto nelle stelle.

Richiamandoci a Gramsci (lettera del 30 dicembre 1929 alla moglie Giulia; cfr. Gramsci, 2013), si può dire che in questa concezione il talento è come un gomitolo presente dalla nascita nella testa del bambino, e lo sviluppo consiste semplicemente nel suo sgomitolamento. Ma ognuno si può svolgere soltanto nei limiti del gomitolo avuto in sorte. Si noti bene, che non viene negato il ruolo della esperienza e dell’ambiente, ma questo ruolo si riduce ad attualizzare le potenzialità innate, e non può andare oltre il loro limite.

Tuttavia, le evidenze che suffragano tale carattere innato sono deboli e tutt’altro che decisive. Per quanto riguarda l’intelligenza generale, è stata dimostrata la falsità delle ricerche di Burt sui gemelli (Eysenck & Kamin, 1993), sulle quali era fondata la prova della sua natura ereditaria. Circa il talento, l’argomento principale a favore del suo carattere innato è costituito dalla sua precocità, dal suo rivelarsi in un’età nella quale l’istruzione non può ancora aver dato i suoi frutti. Per esempio, si cita spesso il talento musicale precoce di Mozart come una prova in questo senso. Ma queste prove aneddotiche hanno un valore molto limitato. In primo luogo, non tengono conto di potenziali controesempi: come è noto, Einstein a scuola era tutt’altro che brillante in matematica, e il suo insegnante gli aveva detto che quella disciplina non faceva per lui. Il suo talento matematico si manifestò in modo relativamente tardivo. In secondo luogo, dimenticano la possibilità di fattori concomitanti che hanno agito nell’ambiente di sviluppo del soggetto. Per esempio, il padre di Mozart era un musicista e iniziò a istruirlo musicalmente fin dalla più tenera età. Viene, cioè, trascurata la possibilità che esperienze precoci abbiano potuto canalizzare in modo altrettanto precoce lo sviluppo del bambino (Karmiloff-Smith, 1995). E che una volta inclinato in una certa direzione, lo sviluppo precoce abbia assunto un andamento a “palla di neve” (Hawkins, 1982), incrementandosi sempre di più.

Per suffragare l’ipotesi del carattere innato del talento dovrebbero essere svolte effettivamente ricerche sui gemelli secondo lo schema di Burt, ma tenendo conto della pluralità delle intelligenze teorizzata da Gardner. Ci sarebbe bisogno di un certo numero di coppie di gemelli omozigoti e di altrettante coppie di gemelli eterozigoti, tutti orfani fin dalla nascita e dati in adozioni a famiglie diverse. Se dopo (poniamo) un decennio i gemelli omozigoti mostrassero il medesimo tipo di talento nonostante siano stati cresciuti in famiglie diverse, mentre per i gemelli eterozigoti la similarità del talento fosse minore, allora si avrebbe una evidenza a favore del carattere ereditario del talento. Purtroppo, realizzare uno schema di ricerca di questo tipo è altamente difficile, e quindi per sostenere l’ipotesi innatista si ripiega su prove aneddotiche come quella di Mozart. Ma, come si diceva, queste sono deboli e sono ben lontane dall’essere decisive.

3. L’origine del talento: ipotesi alternative

L’ipotesi innatista dell’origine del talento viene spesso accusata di essere in realtà un paravento ideologico per mascherare il carattere sociale delle diseguaglianze di talento, e renderle così più accettabili a coloro che ne sono vittime.

Gli autori di tale critica sostengono perciò una ipotesi alternativa di tipo ambientalista. Il talento mostrato dipende dagli ambienti di sviluppo di cui ha fruito il soggetto. Vi sono ambienti che stimolano certe capacità e altri che sollecitano capacità diverse; perciò, rispetto ad ogni tipo di capacità, vi sono ambienti più stimolanti e altri meno stimolanti. Per riprendere l’immagine di Gramsci, il gomitolo presente nella testa di ogni bambino sarebbe il risultato di un processo di aggomitalamento compiuto dall’ambiente sociale di crescita. Perciò, lo sgomitolamento che si osserva a scuola non sarebbe l’espressione della personalità autentica del bambino, ma soltanto l’esito dei condizionamenti sociali precoci. Questa posizione ha avuto il merito di contrastare l’unilateralità della concezione innatista, ma al prezzo di cadere in una posizione altrettanto unilaterale. Che il talento mostrato da un soggetto in una certa fase del suo sviluppo sia puramente il frutto di fattori genetici o al contrario di soli fattori ambientali appare, in entrambi i casi, poco credibile (cfr. Boncinelli, 1998). Sembra maggiormente plausibile che intervenga una qualche combinazione di questi due ordini di fattori. A questo proposito, vi sono però almeno due diverse concezioni circa la forma di di questa combinazione: se di tipo meramente additivo o se, invece, di carattere interattivo.

La concezione additiva è semplice (cfr. Bloom, 1974, 1979): il grado del talento in un certo campo in un dato momento dello sviluppo è il risultato della somma tra la dotazione genetica iniziale e le influenze ambientali intervenute fino a quel momento:

Tn = G + A0…n

In tale quadro, però, le influenze ambientali svolgono un ruolo diverso rispetto alla concezione meramente innatista. Infatti, in questo caso, le influenze ambientali ripetute nel tempo, se sono di tipo funzionale a quella forma di talento, continuano ad aggiungere ulteriore talento rispetto a quello sviluppato fino a un certo momento. Pertanto, col trascorrere del tempo, il grado di talento raggiunto dipende sempre di più dalle esperienze ambientali rispetto alla dotazione genetica iniziale. Questo vale in particolare per l’impegno volontario profuso da un soggetto rispetto a un certo campo di attività. Parafrasando Helvetius (1976), il talento diventa quindi essenzialmente il risultato del tempo dedicato a un certo campo di attività, l’esito della perseveranza degli sforzi del soggetto. Ciò non toglie che chi parte da una dotazione genetica elevata e fruisce di ambienti adeguati e/o si impegna con perseveranza è destinato a raggiungere un livello di talento maggiore di altri. Tuttavia, a parità di impegno e di ambienti adeguatamente stimolanti, la differenza di dotazione iniziale tra due soggetti è destinata a incidere proporzionalmente sempre di meno, e quindi la diseguaglianza relativa tra di loro tende a diventare sempre minore[1]. Ciò non impedisce che possa comunque fare la differenza.

Questa concezione ha il merito di tenere conto sia dei fattori genetici che di quelli ambientali, e può contribuire a spiegare certe dinamiche evolutive. Tuttavia, l’ipotesi di una combinazione lineare appare semplicistica e non collima col rapporto tra fattori genetici e fattori ambientali che sono stati osservati in numerosi casi in campo biologico.

La concezione interattiva appare più complessa e verosimile. In sintesi, il corredo genetico di un individuo non determina meccanicamente la sua espressione fenotipica, bensì una norma di reazione rispetto agli ambienti di sviluppo (Lewontin, 1993; Luria et al., 1984). In altre parole, il medesimo genotipo avrà espressioni fenotipiche diverse nei differenti ambienti con cui interagisce. Ciò implica che un individuo dotato di un certo profilo genotipico tenderà a sviluppare meglio un determinato talento in ambienti che hanno certe caratteristiche rispetto ad ambienti che possiedono caratteristiche diverse (Lewontin, 1998; Hawkins, 1982). Pertanto, rispetto a una certa forma di talento, un particolare tipo di ambiente può risultare maggiormente favorevole per certi soggetti rispetto ad altri. In linea di principio, questo significa anche che se a ciascun soggetto viene offerto l’ambiente di sviluppo congeniale al suo profilo genotipico, ciascuno di essi può sviluppare al meglio un determinato talento. Questo risulta evidente dalla seguente Tabella 1, che rappresenta una forma semplificata di quella riportata da Hawkins (1982).

Genotipo / Ambiente

A1

A2

G1

100

50

G2

50

100

Tabella 1. Il soggetto dotato di genotipo G1 sviluppa maggiormente il talento x nell’ambiente A1 (100) rispetto all’ambiente A2 (50); per il soggetto G2 accade invece il contrario.

Non vi sono però evidenze conclusive che permettano di stabilire in modo certo quale di queste diverse concezioni sia quella valida. In linea di massima, sembrano maggiormente plausibili quelle che ammettono una combinazione tra fattori genetici e fattori ambientali, e tra queste quella di tipo interattivo. Ma non si possono escludere quadri più complessi, nonché l’incidenza di fenomeni come quello della canalizzazione dello sviluppo ad opera delle esperienze precoci del bambino, ipotizzata da Karmiloff-Smith (1995). Dato che le cose stanno in questo modo, una opzione pregiudiziale per una di queste concezioni appare più motivata da scelte ideologiche che non da basi scientifiche. Così, le ideologie di stampo conservatore tendono a privilegiare la concezione innatista del talento, che permette di giustificare le diseguaglianze di talento tra i soggetti presentandole come naturali. Viceversa, ideologie di tipo progressista hanno a lungo privilegiato concezioni ambientaliste, che permettevano di imputare a cause sociali tali diseguaglianze e, dunque, di rimetterle in questione attraverso l’attivazione di ambienti adeguatamente stimolanti. Questi diversi atteggiamenti, per la verità, si sono manifestati soprattutto nelle controversie sulla natura dell’intelligenza generale e sulle sue implicazioni pedagogiche. Tuttavia, mutatis mutandis, la loro struttura di fondo rimane valida anche rispetto al talento, che rappresenta una forma di intelligenza specifica per dominio. In ogni caso, non intendo negare che le opzioni ideologiche svolgano un ruolo importante nella pedagogia, dando un orientamento generale al suo discorso. Tuttavia, il ruolo delle componenti ideologiche va assoggettato a vincoli precisi: in primo luogo va dichiarato apertamente, senza cercare di mascherare tali opzioni dietro legittimazioni pseudo-scientifiche; in secondo luogo, in sede di giustificazione delle posizioni pedagogiche, l’opzione ideologica non può sostituire senza residui argomentazioni di natura scientifica. In questo caso, il punto è che le argomentazioni scientifiche a favore delle diverse concezioni dell’origine del talento non raggiungono una forza probatoria adeguata. E, come si diceva, le preferenze ideologiche non possono surrogare tale forza. In sede pedagogica, occorre perciò articolare diversamente la determinazione di un indirizzo educativo concreto per lo sviluppo dei talenti. Tenterò di farlo muovendo da una posizione apertamente progressista.

4. La formazione del talento e l’educazione generale

Ovviamente, gli indirizzi pedagogici per la formazione dei talenti prendono forma entro le concezioni sulla natura e l’origine del talento.

Se si muove dalla concezione del talento come dono naturale, il primo compito della scuola diventa quello di “scoprire” lo specifico talento di ognuno, e di rendere il soggetto consapevole di questa sua potenzialità. Questa è la premessa logica per la costruzione di percorsi educativi che permettano a ognuno di sviluppare pienamente il proprio specifico talento. Si tratta della tesi pedagogica della cosiddetta personalizzazione. Questa viene presentata dai suoi fautori come intrinsecamente democratica, in quanto dà modo a ognuno di sviluppare al meglio la propria potenzialità innata. Con Tale prospettiva implica necessariamente che negli altri campi, nei quali la propria potenzialità è meno spiccata, il grado di riuscita tenderà ad essere minore. Il significato di questa diversità e diseguaglianza degli esisti nei vari campi culturali viene ammorbidito invocando il principio che tutte le diverse forme di intelligenza (o di talento) hanno pari dignità. Ciò che conta è sviluppare i propri doni e scoprire la propria vocazione. Si tratta di un argomento che non manca di una certa suggestione. Tuttavia, se si gratta questa patina suggestiva, risulta facile capire che tale argomento presuppone che si viva nel migliore dei mondi possibili, in cui ogni tipo di talento è parimenti apprezzato dal punto di vista sociale. In questo nostro mondo, invece, il valore sociale dei diversi tipi di talento non è per niente equivalente. In generale, vi sono forma di intelligenza socialmente vincenti, che danno maggiori chances di condurre una buona vita. Ovviamente, mi riferisco principalmente all’intelligenza verbale, al talento linguistico. Questa forma di intelligenza, che nelle nostre società è stata considerata come l’intelligenza tout court (Olson, 1979), è quella che risulta maggiormente legata alle posizioni professionali migliori. Ma non si tratta solo di questo: l’intelligenza linguistica è anche profondamente legata alla dimensione della cittadinanza, alla capacità di comprendere criticamente il discorso pubblico, la comunicazione politica, e di partecipare adeguatamente al suo processo. Pertanto, asserire che, per esempio, l’intelligenza verbale e quella motoria hanno la medesima dignità ha un valore puramente di principio, che cade nell’astrattezza se vuol valere sul piano di fatto. Su quest’ultimo piano, infatti, questa asserzione non è valida nemmeno se il talento motorio raggiunge la vetta del campione sportivo perché, se non è accompagnata da un grado adeguato di intelligenza verbale, anche un campione può essere subalterno dal punto di vista politico, e quindi non risultare un cittadino a pieno titolo.

Inoltre, se la concezione innatista del talento non fosse vera, potenziando le presunte inclinazioni naturali degli alunni si tenderebbe a rafforzare l’azione dei condizionamenti sociali, delle loro unilateralità e delle diseguaglianze che provocano.

L’impostazione pedagogica cambia completamente se si muove dalla concezione del carattere complesso del talento, derivante dalla combinazione di fattori genetici e di fattori socio-ambientali. In questo caso, infatti, l’indirizzo pedagogico più adeguato sembra essere quello di garantire una formazione completa, multilaterale, allargata a tutte le forme di intelligenza. In questo modo, si tenderebbe a mettere in grado tutti gli alunni di raggiungere la padronanza delle conoscenze e delle competenze fondamentali dei vari campi culturali del curricolo scolastico. Ciò non sarebbe di ostacolo all’ulteriore sviluppo di eventuali inclinazioni già strutturate, e quindi al raggiungimento di forme specifiche di eccellenza cognitivo-culturale. A questo proposito, un atteggiamento deontologicamente giusto verso tali eventuali inclinazioni (nella cui origine hanno quasi certamente giocato un ruolo anche gli ambienti familiari di sviluppo) richiede soltanto che il loro sviluppo non debba essere ostacolato dalla scuola. Ma non implica che il percorso formativo debba essere curvato nella loro direzione in forma personalizzata per ogni alunno. Questo, infatti, è discutibile sotto vari profili: gli insegnanti potrebbero compiere errori di valutazione nella diagnosi delle potenzialità degli alunni (vi potrebbero essere talenti che richiedono una lunga incubazione, e che quindi potrebbero manifestarsi in modo più tardivo); la canalizzazione intenzionale dello sviluppo dei bambini in certe direzioni piuttosto che in altre potrebbe risultare un fattore limitativo delle possibilità di scelta autonoma del soggetto una volta che questi sia maggiormente consapevole di sé[2]; ed altro.

La combinazione di una educazione multilaterale, mirata a garantire la padronanza deli apprendimenti fondamentali dei vari campi curricolari, con il rispetto delle eventuali inclinazioni manifestate dai vari scolari (che implica soltanto di non ostacolarle) darebbe luogo a un profilo formativo complesso. Per descrivere tale profilo si può ricorrere all’immagine usata da Herbart (1997): quella di una sfera di padronanze comuni a tutti gli scolari, da cui emergono cuspidi diversamente orientate da scolaro a scolaro, in ragione delle loro specifiche inclinazioni. La sfera sarebbe tendenzialmente comune per tutti, la cuspide diversa per ognuno. A questo proposito, si potrebbe perciò parlare di eguaglianza formativa complessa (in analogia con Walzer, 1987): la sfera essenziale uguale per tutti, a ognuno la sua specifica cuspide.

Questa prospettiva che privilegia il raggiungimento della sfera di traguardi formativi comuni per tutti gli studenti, ma che non ostacola lo sviluppo di inclinazioni personali dovrebbe predominare per tutto l’arco dell’obbligo scolastico. Potrebbe però essere integrata da un’area limitata di attività opzionali di vario tipo (dal gruppo teatrale, a quello sportivo ecc.), che possono consentire agli scolari di saggiare i propri interessi.

I percorsi marcati in direzioni specifiche dovrebbero invece essere essenzialmente appannaggio dell’istruzione post-obbligatoria, permettendo così una scelta più consapevole del proprio campo elettivo. A questo proposito, lo sviluppo multilaterale precedente promosso garantirebbe più ampie possibilità di scelta al soggetto.

5. Conclusioni

Come si diceva, le indicazioni pedagogiche per la formazione dei talenti dipendono dalle concezioni sull’origine del talento. Tuttavia, si è detto che non si dispone di prove conclusive a favore dell’una o dell’altra concezione, e che quindi una opzione per una di esse – allo stato attuale delle cose – sarebbe pregiudiziale e dettata più da motivazioni ideologiche che scientifiche[3]. Nondimeno, è necessario procedere alla elaborazione di indicazioni pedagogiche rispetto alla questione dei talenti. Nel quadro di incertezza descritto, per elaborare una indicazione pedagogicamente corretta occorre perciò procedere attraverso un ragionamento indiretto. Cerco di spiegarmi. Il ragionamento diretto dare del tipo: dal momento che sappiamo che circa l’origine del talento la concezione valida è quella x, l’indirizzo valido per lo sviluppo del talento è quello ad esso corrispondente x’: dove per “indirizzo valido” si intende quello in grado di garantire a ognuno lo sviluppo del proprio talento. Poiché in realtà ignoriamo quale sia questa concezione valida, il ragionamento deve invece assumere la seguente forma indiretta. Dal momento che non sappiamo quale sia la concezione valida circa l’origine del talento, come possiamo elaborare un indirizzo pedagogico che eviti di danneggiare anche soltanto una parte degli alunni, impedendo loro di sviluppare adeguatamente le loro intelligenze? Dal punto di vista deontologico, infatti, il principio Primum non nŏcēre (per prima cosa non nuocere) rappresenta il precetto aureo. Una volta impostata in questi termini la questione si tratta di esaminare comparativamente le conseguenze dell’adozione dei due indirizzi pedagogici descritti (quello della personalizzazione e quello dello sviluppo multilaterale) sotto la condizione che una certa concezione dell’origine del talento sia vera oppure falsa. Cioè, posto di adottare l’indirizzo della personalizzazione, quali sono le conseguenze a seconda che la concezione del talento come dono naturale sia vera, e quali sono le conseguenze qualora sia invece falsa. Lo stesso con l’altro indirizzo. Seguiamo questa strada.

Supponiamo di adottare l’indirizzo della personalizzazione:

(a1) Se la corrispondente concezione circa l’origine del talento, che la vede come un dono naturale, è vera, allora ogni alunno potrà sviluppare la forma di intelligenza a lui più congeniale, e quindi i risultati saranno i migliori possibili.

(a2) Se però la concezione dell’origine del talento come dono naturale è falsa, ossia se in realtà tale origine dipende anche in modo significativo da fattori sociali, allora seguendo l’indirizzo della personalizzazione si finirebbe col rafforzare i condizionamenti sociali patiti dagli scolari nei loro ambienti familiari di sviluppo. Pertanto, una parte degli alunni ne ricaverebbe un danno, perché la scuola non fornirebbe stimoli adeguati rispetto alle forme di intelligenza che sono state maggiormente compresse e trascurate in tali ambienti. Quindi, in questa eventualità, la scuola nuocerebbe allo sviluppo di una parte degli alunni.

Supponiamo adesso di adottare l’indirizzo di una formazione multilaterale, mirata a promuovere la padronanza delle conoscenze e delle competenze fondamentali dei vari campi curricolari, senza ostacolare le eventuali inclinazioni degli alunni date da esperienze pregresse.

(b1) Se la corrispondente concezione dell’origine del talento, che lo vede come il risultato di una combinazione tra fattori genetici e fattori socio-ambientali, è vera, allora ogni alunno potrà progredire nel modo migliore possibile verso le competenze fondamentali dei vari campi curricolari, senza che sue eventuali inclinazioni date da esperienze pregresse siano ostacolate.

(b2) Se invece questa concezione del talento come combinazione di genetica e ambiente è falsa, il progresso di ciascun alunno verso le competenze fondamentali dei vari campi culturali sarà diseguale in ragione del suo profilo genetico; tuttavia, lo sviluppo delle sue inclinazioni naturali non saranno in alcun modo ostacolato. Quindi, in questa eventualità, la scuola non nuocerebbe in ogni caso allo sviluppo di alcun alunno.

Concludendo, se si adotta l’indirizzo della personalizzazione e la concezione del talento come dono naturale è falsa, si produce un danno formativo per una parte degli alunni. Se, invece, si adotta l’indirizzo della multilateralità e la concezione del talento come combinazione di fattori genetici e fattori ambientali è falsa, non si causa comunque alcun danno formativo a nessun alunno.

A prescindere dal fatto che la concezione della combinazione di fattori genetici e ambientali appare maggiormente plausibile, appare quindi pedagogicamente e deontologicamente più corretto adottare un indirizzo formativo multilaterale, che miri a promuovere per tutti gli alunni la padronanza delle competenze fondamentali dei vari campi curricolari, senza ostacolare le loro eventuali inclinazioni. Questo è l’indirizzo che appare coerente con l’esigenza di garantire il pieno sviluppo della persona, e di promuovere la piena partecipazione di tutti alla vita del Paese, sia come cittadini che come produttori.

Endnotes


  1. Per esempio, se le dotazioni iniziali di S1 e S2 ammontano rispettivamente a 10 e a 20, il talento iniziale di S2 è doppio rispetto a quello di S1. Se i loro ambienti e i loro sforzi sono pari e aggiungono 10 per ogni unità di tempo, al tempo t8 il talento di S1 avrà raggiunto 90 e 100 quello di S2. A questo punto la differenza proporzionale di talento sarà soltanto di 1/10.

  2. Per esempio, supponiamo che Tizio manifesti un notevole talento poetico, non sarebbe ragionevole indirizzarlo in questa direzione? Si può rispondere che lo sarebbe fino a un certo punto. Certamente, sarebbe opportuno aiutare Tizio a divenire consapevole di questa sua potenzialità. Ma sarebbe discutibile curvare il suo percorso formativo in questa direzione. Più tardi, Tizio potrebbe decidere che la sua priorità è fare il medico, pur essendo consapevole di non avere una grande disposizione per questo campo. Tuttavia, egli potrebbe considerare eticamente importante aiutare gli altri a preservare la loro salute. Pertanto, potrebbe scegliere di essere un medico di livello ordinario piuttosto che un eccellente poeta. Magari, la poesia resterebbe per lui una passione personale da coltivare privatamente. Ma ciò non giustificherebbe l’aver curvato il suo percorso in questo senso.

  3. In realtà, mettendo sulla bilancia gli argomenti a favore della concezione innatista e quelli a favore della concezione basata sulla combinazione tra fattori genetici e fattori sociali, mi pare che la bilancia si inclini decisamente verso questa seconda ipotesi. Ma per mostrare che già in una condizione di parità si dovrebbe optare per quest’ultima, muoviamo da tale assunto di parità.

References

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