Formazione & insegnamento, 23(03), 8307

Women, Education and Work in Italy: Don't let your guard down!

Donne, Istruzione e Lavoro in Italia: Non si abbassi la guardia!

ABSTRACT

The paper is a social pedagogical study that aims to reflect on the issue of education/training and women's work in Italy. The issue raised still requires pedagogical commitment to ensure gender equality not only on an economic and social level, but above all on a cultural level. The study draws on recent research and monitoring which show that, despite the enactment of certain laws and the commitment of Italian politics to gender equality, the desired results have not been achieved. This implies a social pedagogical engagement to contrast stereotypes and discrimination, especially in the family, education and work contexts. In these contexts, social pedagogy will have to be influenced by reflections from gender pedagogy in order to eradicate certain implicit cultural prejudices.

L’articolo si presenta come uno studio pedagogico sociale che intende riflettere sul tema dell’istruzione/formazione e del lavoro delle donne in Italia. La questione posta richiede ancora un impegno pedagogico affinché siano garantite condizioni di parità di genere non solo sul piano economico-sociale, ma soprattutto a livello culturale. Lo studio si serve di recenti ricerche e monitoraggi che mostrano come, nonostante l’emanazione di alcune norme e l’impegno della politica italiana per l’uguaglianza di genere, non siano stati ottenuti i risultati sperati. Ne consegue un impegno pedagogico sociale per contrastare stereotipi e discriminazioni, soprattutto in ambito famigliare, formativo e lavorativo. In questi contesti la pedagogia sociale dovrà lasciarsi contaminare da riflessioni provenienti dalla pedagogia di genere per sradicare alcuni pregiudizi culturali impliciti.

KEYWORDS

Education, Training, Work, Family, Gender

Istruzione, Formazione, Lavoro, Famiglia, Genere

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This article is the result of the work of a single Author.

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August 29, 2025

ACCEPTED

November 10, 2025

PUBLISHED ONLINE

November 25, 2025

1. Introduzione

La questione delle donne, del loro accesso all’istruzione e al mondo del lavoro è molto importante ed ha origini, almeno per l’Italia, nel secondo Ottocento, ovvero da quando il governo del tempo ha iniziato a riflettere sulla necessità dell’istruzione femminile in maniera laica, in alternativa ai collegi di stampo religioso. Un’educazione femminile di cui doveva prendersi “oneri e onori” l’amministrazione pubblica per agevolare l’inserimento della donna nell’istruzione secondaria al fine di agevolare un inserimento lavorativo, spesso legato al mondo dell’insegnamento (Ghizzoni & Polenghi, 2008).

A sua volta il Novecento è stato definito “il secolo della donna” (Ulivieri, 2023), periodo in cui, a seguito delle due guerre mondiali e dell’abbandono dei soli ruoli domestici, le identità femminili adulte si intrecciavano con le identità delle ragazze e delle bambine. I nuovi diritti per il genere femminile trovano delle risposte nell’istruzione come anche nel lavoro, dal contesto agricolo a quello del contesto urbano.

Abbiamo ormai superato il primo quarto del nuovo millennio e il tema dell’istruzione e del lavoro delle donna resta ancora una questione aperta in quanto, dati alla mano, siamo ancora lontano da alcuni principi della Convention on the elimination of all forms of discrimination against women (CEDAW) promossa nel 1979 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite; come anche non abbiamo fatto nostra in Italia la strategia di gender mainstreaming formalmente riconosciuta nel 1997 con il Trattato di Amsterdam, che mirava a una reale pari opportunità, tra uomini e donne in Europa (Treaty of Amsterdam, 1997).

Questo contributo intende riflettere sull’attuale periodo italiano, dove il genere e il ruolo della donna ancora sembra necessitare di diversi passi da compiere in termini di uguaglianza e libertà di agire, soprattutto nel mondo del lavoro.

Considerando la possibilità che donne e uomini vivano personalmente e culturalmente un’idea di sé diversa anche in funzione del genere di appartenenza, questo comporta una serie di condizionamenti personali e poi sociali che conducono a scelte lavorative diverse. Non si intende sostenere che vi siano lavori più adatti agli uomini o professioni ‘da donna’, bensì che il genere costituisce un criterio che può orientare la scelta lavorativa (Hoff et al., 2024) a volte su preferenze soggettive, altre volte per motivazioni culturali e, purtroppo, in alcuni casi per effetto di stereotipi.

Per tale ragione si intende affrontare e esaminare i numeri dell’istruzione e del lavoro femminile secondo una prospettiva pedagogico-sociale, in particolare riflettendo sull’apporto che possono dare la pedagogia familiare e la pedagogia del lavoro alla questione di genere.

2. Accesso all’istruzione e professioni

La possibilità di accedere all’istruzione, prima di configurarsi come un problema di genere, ha interessato in maniera trasversale la società nel suo complesso. Diversi Paesi nel corso degli anni hanno prolungato l’istruzione obbligatoria. Questa scelta spesso non ha influito in maniera decisa in termini salariali, specie per coloro che vivevano in contesti urbani.

Questo dato riportato da uno studio polacco e comparato con altre nazioni con qualche lieve variazione di percentuale (Strawinski & Broniatowska, 2024), ci ricorda che per una parità di opportunità all’istruzione prima e al lavoro poi, è necessario studiare anche i dati dell’istruzione terziaria che di fatto possono determinare incrementi salariali. Il problema del rapporto tra livello scolastico e salario nel lavoro femminile in Italia è, come vedremo, uno dei punti dolenti del nostro paese.

Un altro elemento importante da considerare in termini di accesso all’istruzione sono gli stereotipi di genere a livello formativo, in quanto “la rappresentazione stereotipata, basata su secoli di tradizionale divisione dei ruoli, è sempre in agguato […] rafforzando identità tradizionali, difficili da decostruire” (Marone&Buccini, 2022, p. 177). Considerando il diritto allo studio in Italia soffermiamoci principalmente sulla scuola secondaria di secondo grado e sull’università.

Già dal 2013 si registrò uno storico sorpasso in Italia in termini di successi formativi nell’istruzione secondaria e terziaria si registrò un trend femminile allineato alla media dei paesi Ocse, nonostante nella globalità fossero al di sotto della media europea. Al tempo i maschi diplomati della secondaria erano al 70% tra i 25–34enni, mentre le donne diplomate raggiungevano il 75% nella stessa fascia di età. Nell’istruzione terziaria le donne primeggiavano sul totale della popolazione, con il 16% contro il 13% degli uomini. (OECD, 2013).

Attualmente in Italia, secondo il Rapporto CNEL-ISTAT,

“le donne in Italia sono mediamente più istruite degli uomini: nel 2023, il 68,0% delle 25-64enni ha almeno un diploma o una qualifica (62,9% tra gli uomini) e il 24,9% è in possesso di un titolo terziario (18,3% tra gli uomini). Le differenze di genere nei livelli di istruzione risultano più marcate di quelle osservate nella media Ue27. Tuttavia, il maggior investimento femminile nell’istruzione non si traduce in un vantaggio lavorativo e gli indicatori che misurano i ritorni nel mercato del lavoro sono generalmente peggiori per le donne” (Freguja et al., 2025, p. 14).

Per quanto concerne l’orientamento nella scuola secondaria si riporta che

“la scelta del tipo di scuola risulta differenziata in base al genere, con le donne, storicamente meno orientate a percorsi tecnico-scientifici, che scelgono in prevalenza il percorso liceale (64,6%), per lo più in materie umanistiche. Al contrario, solo una ragazza su cinque sceglie un istituto tecnico (anche in calo rispetto al 2008/2009), a fronte di due coetanei su cinque, ma solo il 37,4% sceglie un percorso Tecnologico, contro il 74% dei maschi, mentre la gran parte delle ragazze si orientano su quello Economico. Ancora meno numerose (14,6%) le ragazze che optano per un istituto professionale, ma in questo caso il gap di genere è decisamente più contenuto” (Freguja et al., 2025, p. 6)

L’orientamento di genere si mantiene anche nel percorso universitario dove solo il 20% si iscrive ai percorsi STEM (seppur l’Italia superi la media europea in termini di immatricolazione) e in cui le aree che più ne risentono sono l’informatica e l’ingegneria. (Freguja et al., 2025, p. 13).

Nonostante ciò, alla luce dei dati positivi in termini di accesso all’istruzione e successo formativo delle donne in Italia, ci si aspetta se non altro una pari opportunità sociale e trattamento economico lavorativo. In realtà non è così, in quanto, come meglio si esplicherà in seguito, lo svantaggio occupazionale riguarda le donne italiane per tutti i titoli di studio, seppur meno per le laureate che, pur trovando più facilmente lavoro, hanno un trattamento economico decisamente inferiore a quello maschile (OECD, 2024).

L’aspetto che però si vuole sottolineare in questo paragrafo è che ci si potrebbe aspettare un vantaggio occupazionale maschile nelle professionalità legate alle STEM, ma un vantaggio femminile negli altri ambiti. In realtà il Rapporto CNEL-ISTAT mostra come Italia “i divari occupazionali di genere sono minimi, ma sempre a favore degli uomini, anche nelle discipline a prevalenza femminile” e “metà dell’occupazione femminile è concentrata in 21 professioni, quella maschile in 53” (Freguja et al., 2025, pp. 13–15).

Un altro aspetto da rilevare nel rapporto formazione-genere è che, nonostante il numero delle donne laureate in Italia sia maggiore rispetto agli uomini, vi è ancora una forte discriminazione di genere all’interno del mondo accademico, che mette in evidenza una segregazione verticale, cioè “la frequente sottorappresentanza delle donne negli studi dottorali e fra i docenti universitari” (D’Andrea, 2022, p. 137). Non sorprende quindi il dato riportato nel Rapporto CNEL-ISTAT che evidenzia come nei percorsi formativi post-laurea, nell’anno accademico 2022/2023, “le donne rappresentano la maggioranza degli iscritti alle scuole di specializzazione (58,5%) e ai master di I (68,4%) e II livello (59,0%). Sono invece meno della metà nei corsi di dottorato (48,3%) che rappresentano il primo passo per la carriera lavorativa universitaria ancora dominata dalla presenza maschile” (Freguja et al., 2025, p. 14)

3. Mondo del lavoro

Se i dati sull’accesso all’istruzione sono poco confortanti e ci presentano una situazione ancora in lento cambiamento, il mondo del lavoro presenta un quadro ancora più complesso. In questo articolo si farà riferimento a due studi prodotti dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP): L’ombra lunga sul presente e sul futuro delle donne in Italia: Disparità di genere nel mercato del lavoro e nel sistema pensionistico di Deidda-Boscherini (2024) e L’insostenibile inattività: Il lavoro delle donne che manca, nella transizione demografica in Italia (Cardinali, 2025). Entrambi gli studi partono dai dati inerenti alle contrazioni delle nascite in Italia che avranno una conseguenza sui contributi pensionistici italiani (specie delle donne) e sulla possibilità o meno di avere ancora molte donne inattive in Italia.

Ma soffermandoci ora su quelli che sono gli obiettivi di questo articolo, possiamo prendere in esame alcuni dati importanti del primo studio inerenti alle donne lavoratrici in Italia:

“Il tasso di occupazione femminile rimane in Italia ancora tra i più bassi d’Europa, con poco più del 50% di occupazione femminile, inferiore di oltre 10 punti percentuali al valore medio dell’Unione europea [...]. Le analisi sulle ragioni della scelta del part-time in Italia hanno anche fatto emergere una distorsione nell’applicazione dell’istituto contrattuale, nota in letteratura con il termine di “part-time involontario”, dietro cui si celano fenomeni discriminatori nei confronti della componente femminile dell’occupazione, finalizzati all’elusione/evasione fiscale e contributiva […]. All’interno dell’Unione europea, la differenza tra la retribuzione oraria lorda media di uomini e donne, espressa come percentuale della retribuzione maschile, nel 2022, si aggirava intorno al 12,7% in meno per ogni ora lavorata (13,2% nell’euro zona) e variava da un massimo del 21,3%, in Estonia, a un minimo del 4,5%, in Romania, e 4,3% in Italia” (Deidda-Boscherini, 2024, pp. 13, 17, 21–22).

Dal secondo studio, a firma di Cardinali, riportiamo che in Italia al 1° gennaio 2024 si registrano come inattive 12.377.000 persone tra i 15 e 64 anni di cui più di 7.800.000 sono donne e “stante le sfide poste su più piani dalla transizione, demografica il Paese probabilmente non può più permettersi di lasciare un bacino così ampio al di fuori della strategia di sviluppo dei prossimi anni” (Cardinali, 2025, p. 3–4).

Allo stesso tempo

“è necessario scindere la quota di donne che non si dichiara disponibile alla fuoriuscita dall’inattività, dalla componente, invece, che può essere effettivamente impiegabile nel mercato del Lavoro […]. Pertanto, evidenzia sul complesso delle inattive, quante siano le c.d. “Forze lavoro potenziali” (FLP), ossia la quota di donne realmente disponibile a entrare nel mercato del lavoro a determinate condizioni. Sugli oltre 7 milioni e 800 mila donne inattive in Italia, la quota di forze lavoro potenziali è del 16%, corrispondente a più di 1 milione e 260 mila donne” (Cardinali, 2025, p. 7.)

Un altro aspetto importante che considera questo studio sono le componenti dell’inattività di chi vorrebbe lavorare e delle donne che non cercano un’occupazione:

“Analizzando la componente di inattività relativa alle “forze lavoro potenziali”, quindi donne che dichiarano una disponibilità condizionata al momento o alla ricerca di lavoro (1 milione e 260 mila di donne in Italia), notiamo che una quota del 18% (prevalente dai 15 ai 29 anni) motiva la propria condizione di inattività per studio e formazione; il 23% per pensione e un ulteriore 14% (prevalentemente over 50) per motivi di non bisogno od età. Se si escludono queste motivazioni, molto connotate dall’età anagrafica, il 27% lega la propria condizione di inattività a esigenze di carattere familiare, intese sia nella componente di accudimento diretto di figli o persone non autosufficienti, sia nel generale profilo di esercizio di un ruolo familiare di riferimento in ambito casalingo” (Cardinali, 2025, p. 9).

Inoltre,

“Analizzando invece la componente dell’inattività che riguarda “le donne che non cercano lavoro e non sono disponibili”, (6 milioni e mezzo di donne in Italia), notiamo un parallelismo con le motivazioni per classi di età espresse dalle Forze lavoro potenziali. Il motivo di studio e formazione pesa per il 19% sul totale ed è sempre proprio della classe di età 15-29. Si tratta evidentemente di un impegno che alla data di rilevazione, si presenta come alternativo alla partecipazione al mercato del lavoro – ma potenzialmente modificabile nel tempo a chiusura di tali impegni di studio; il pensionamento incide per il 26% e il 19% (prevalentemente per gli over 50) non intende entrare nel mercato del lavoro per motivi di assenza di interesse o bisogno, anche legati all’età. Anche in questa tipologia di inattività per le donne, la motivazione prevalente continua ad essere l’esercizio della funzione di cura ampiamente intesa. Il 27,4% dei 6 milioni e mezzo di donne inattive che non cercano lavoro e non intendono farlo deve questa condizione a esigenze sia di accudimento diretto di figli o persone non autosufficienti, sia al ruolo di riferimento in ambito casalingo” (Cardinali, 2025, p. 11).

In ultimo, lo studio riporta le condizioni in cui le donne accetterebbero un lavoro (qualsiasi lavoro, lavoro congruo o solo, se cambiano i bisogni) in riferimento ad altri elementi:

“(a) Il titolo di studio: con l’aumentare del titolo di studio aumenta la richiesta di un lavoro congruo. (b) Il proprio profilo professionale: ricerca dell’impiego coerente col proprio profilo è prevalente nelle classi di età centrali 18-29 e 30-49 e meno rilevante per le over 50. (c) Contesto familiare e presenza di figli: la prevalenza dell’opzione lavoro congruo sia tipica delle donne senza figli, mentre per le donne con figli la modifica della propria condizione e dei relativi bisogni resta l’opzione prevalente. La richiesta di un eventuale lavoro più adatto al proprio profilo, invece, è più elevata tra chi ha un figlio e più bassa tra chi ne ha due o più. (d) Salario di riserva (ovvero salario minimo). Complessivamente circa la metà delle inattive disponibili al lavoro accetterebbe un impiego inferiore ai 1.000 euro netti mensili (e nello specifico il 21% fino a 600 euro e il 27,8% fino a 999 euro). Il 18,5% richiederebbe 1.000 euro, il 19,5% tra i 1.001 e i 1.499 e il 13,1% 1.500 euro e oltre. (e) Relazione tra salario di riserva e tipologia di lavoro. Le donne che dichiarano che accetterebbero qualunque lavoro, lo immaginano collegato a una retribuzione minima medio alta, mentre le donne che collegano la partecipazione al cambiamento della propria condizione sarebbero nettamente disponibili a lavori inferiori ai 1.000 euro mensili netti” (Cardinali, 2025, pp. 13–18; corsivo dell’Autore).

Intrecciando i risultati di questi due recenti studi sulla condizione lavorativa o di inattività delle donne in Italia, possiamo notare due aspetti importanti: il primo riguarda la volontà delle donne di impegnarsi nello studio per un successo lavorativo, tanto che non cercano lavoro stabile durante la stagione formativa della loro vita. In secondo luogo, tuttavia, una volta entrate nel mercato del lavoro, vi è una disparità di considerazione e trattamento economico rispetto al genere maschile strutturato, molto probabilmente, su degli stereotipi culturali, forse gli stessi che si sono incontrati già nei percorsi di istruzione.

Il primo di questi stereotipi continua ad essere l’idea che la donna, contrariamente all’uomo, possa (debba?) rinunciare al lavoro per la cura della prole, specie negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, come dimostrano le fasce di età presentate nello studio sull’inattività delle donne. Un dato confermato anche dal part-time forzato e condizionato dal fatto che per la stessa professionalità un uomo viene pagato più della donna, motivo per cui, in un momento di mancato benessere economico, il guadagno ha più “valore” dei valori dell’equità, della corresponsabilità educativa e della realizzazione personale.

Alla luce di quanto riportato in questi primi due paragrafi ci si augura che l’impegno preso dal Governo con il documento La Strategia Nazionale per la Parità di Genere (2021–2026) che si ispira alla Gender Equality Strategy 2020-2025 della European Commission (2020) possa dare dei segnali di speranza in termini di competenze, reddito, potere e work-life balance. Per ora l’Indice sull’Uguaglianza di Genere stabilito dall’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE, 2024) condanna il nostro paese al quattordicesimo posto.

4. La questione pedagogico-sociale

I suddetti dati sono stati presentati non solo come cornice, ma anche e soprattutto come apporto di altre discipline ai temi educativi che leggono i bisogni pedagogico-sociali e i fabbisogni formativi. È importante strutturare una riflessione che richiami diverse prospettive di analisi pedagogica, da quella teorica a quella prassica. Una prima domanda che si può porre è la seguente: nella pedagogia del lavoro, la questione di genere ha dei risvolti importanti? Vengono concessi degli spazi autonomi e interdisciplinari di riflessione a partire da quelle che sono le prospettive proprie del femminismo e della pedagogia di genere? (Lather, 2000).

Se è vero che il primo aspetto rivoluzionario della pedagogia di genere è stato quello di rivolgersi al problema sociale e non tanto al metodo di ricerca (Marcelli, 2016, p. 50), è oggi un dato incontrovertibile il fatto che i femminismi hanno maturato anche metodi di indagine a partire dalle differenze di genere nella postura ermeneutica, elaborando approcci epistemologici situati (Haraway, 1988), prospettive dialogiche e relazionali, nonché pratiche del “partire da sé” come gesto politico e conoscitivo (Cavarero, 1990; Lonzi, 1978). Questa svolta ha segnato il passaggio dai femminismi centrati sull’analisi delle strutture sociali a quelli capaci di interrogare i modi stessi di produzione della conoscenza, mostrando come ogni discorso porti con sé tracce di potere, esclusione e possibilità di trasformazione.

Nel rispetto della cultura femminista e lasciando aperti questi stimoli euristici, a questo punto del lavoro si intende portare avanti una riflessione educativa su due campi “applicativi” della pedagogia sociale, ovvero la pedagogia familiare e la pedagogia del lavoro, in specie l’orientamento.

4.1. Pedagogia familiare e educazione di genere

Lo storico della pedagogia, Cavallera (2003, 2006) pone l’inizio della pedagogia familiare in Italia, come sapere scientifico e pluridisciplinare, intorno agli anni Sessanta con la pubblicazione dell’opera Educazione familiare e società di Galli (1965). Anni particolari in Italia, in cui si mette in discussione una certa obbedienza sociale alle tradizioni fino ad allora indiscutibili (Pironi, 2020) e dove le donne iniziano a portare avanti riflessioni e pratiche emancipatrici coinvolgendo famiglie e diversi ambiti della società (Ulivieri, 2025).

Non a caso poi negli anni Settanta avremo le norme relative al nuovo diritto di famiglia (1975) e la legge sulla “parità” tra i sessi del 1977. Il ruolo della donna e l’idea che una donna potesse formarsi e lavorare era uno dei concetti più dibattuti già all’epoca, perché, come osservava già Volpicelli (1964, pp. 33-34) in quegli anni, tale concezione poteva intaccare un modello patriarcale di famiglia. E pertanto la norma era solo un primo passo verso un vero e proprio cambiamento culturale.

Sempre in questi anni abbiamo i primi echi in Italia dei movimenti femministi che si traducono in una presa di parola pubblica e politica da parte delle donne: il 1970 segna la conquista della legge sul divorzio, seguita dal vivace dibattito sul suo referendum abrogativo (1974), mentre il 1978 sarà l’anno della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Questi passaggi legislativi non furono meri avanzamenti giuridici, ma il risultato di un’intensa stagione di mobilitazioni, collettivi femministi e pratiche di autocoscienza che portarono alla luce le contraddizioni del modello patriarcale. In particolare, la pratica del “partire da sé”, elaborata da gruppi come la ‘Libreria delle donne di Milano’ e teorizzata in testi come Non credere di avere dei diritti (Libreria delle donne di Milano, 1987), mise in evidenza il valore politico ed epistemico dell’esperienza soggettiva.

In questo contesto la pedagogia di genere in Italia iniziò a configurarsi come terreno di sperimentazione culturale e sociale, in dialogo con la filosofia della differenza e con i modelli educativi che cercavano di superare la neutralità apparente della scuola tradizionale. L’attenzione non era più soltanto rivolta a garantire l’accesso delle donne alle istituzioni formative, ma a trasformare i linguaggi, le pratiche e i contenuti stessi dell’educazione, introducendo prospettive nuove di interpretazione del sapere. In particolare, con l’opera Dalla parte delle bambine di Belotti (1973) che evidenzia le influenze culturali che resistono a una libertà emancipatrice già dall’infanzia, inizia un filone di ricerca importante sugli studi pedagogici di genere, dall’uguaglianza tra i sessi alla differenza di genere, fino ad arrivare all’attuale rapporto fra complessità e genere (Leonelli, 2011), argomento su cui ancora oggi si dibatte.

Alla luce di questo breve excursus storico, l’incontro della pedagogia della famiglia con la questione di genere è duplice, ovvero sia sul versante dell’educazione di genere che della pedagogia di genere. Come ci ricorda ancora Leonelli, mentre “[l’]educazione di genere non è sottoposta al vaglio critico e può configurarsi come una mera pressione omologatrice alla tradizione” (Leonelli, 2011, p. 2), la pedagogia di genere ha il compito di studiare e vagliare i condizionamenti promuovendo una riflessione in grado di anticipare le emergenze e le nuove questioni che si vanno prospettando nella famiglia, nelle scuole, nei servizi (Leonelli, 2011, p. 4).

La chiamata alle armi quindi per i pedagogisti e per le pedagogiste è quella di intervenire nella formazione di primo e secondo livello per andare a incidere su quella che Bruner (1977) definiva “pedagogia popolare” e che spesso cristallizza i concetti rendendoli dogmi culturali.

La pedagogia formale, come sapere teorico e pratico progettuale, deve pertanto intervenire su quella struttura intermedia di credenze e abiti mentali (Baldacci, 2012, p. 24) che è insita inconsapevolmente in coloro che sono chiamati al ruolo educativo nei diversi contesti non formali (famiglia, associazionismo, comunità, etc.) e formali come la scuola e l’università, prima ancora che nei discenti.

Il riconoscere come il proprio patrimonio pedagogico - che nel tempo si forma, si struttura, anche su base scientifica - possa comunque restare contaminato da credenze legata alla propria infanzia è conditio sine qua non per un’autentica riflessione pedagogica liberante.

È proprio in questo contesto che la pedagogia di genere agisce in maniera meta-riflessiva all’interno del campo della pedagogia familiare. La interroga, la provoca, la consapevolizza. Non esiste più una sola definizione di famiglia, tanto da dover ricorrere in letteratura al plurale (le famiglie) per indicarne i cambiamenti strutturali e di ruolo. È necessario, tuttavia, analizzare se e come il contesto sociale riconosca validi e accolga questi cambiamenti. Sembra che a volte un ostentato libertinismo dei comportamenti (utile forse solo al liberismo), non corrisponda a una reale, concreta e democratica accoglienza di questi cambiamenti di ruolo di genere in termini culturali e socio-economici. Per esempio, il gioco della polarità donna single e manager contro donna madre è uno dei terreni più fertili per creare divisioni culturali e non permettere una libera visione del ruolo della donna nella società a partire da una coscienza di genere.

Allo stesso tempo la pedagogia di genere può lavorare a livello di mediazione interna alla famiglia, ovvero come riconoscimento di un’equità e di una valorizzazione di differenze di genere nelle relazioni educative familiari. Abbiamo visto che il cambiamento dell’assetto normativo in Italia non è bastato per segnare una nuova epoca di reale equità; pertanto, è necessario che la pedagogia proposta alle famiglie, luogo primario dove si forma la pedagogia popolare, sia accompagnata da una visione di genere (Burgio, 2025). Ciò significa che è importante che la pedagogia di genere supporti le pratiche, guidi “l’azione educativa per poi procedere ricorsivamente a rimodulare e perfezionare quel quadro in funzione di una valutazione critica degli esiti e delle sperimentazioni sul campo. Tra pedagogia di genere e educazione di genere si crea dunque un rapporto di ricorsività virtuosa” (Biemmi & Mapelli, 2023, p. 53).

Ponendo questa relazione tra educazione e genere in chiave emancipatrice si possono formare, all’interno della famiglia, persone che sappiano superare stereotipi non solo culturali, ma anche e soprattutto sociali. Il problema non è quello “apparente” dei giochi maschili e femminili, o dei colori maschili e femminili, la questione è la forma mentis sociale che si propone all’interno della famiglia. Come non c’è un ruolo giusto o sbagliato della donna nella famiglia o nella società, in quanto alla base vi deve essere l’idea della libertà di essere se stessa. Una donna deve essere libera di scegliere se lavorare o se dedicare l’intera esistenza alla prole o dove posizionarsi all’interno di questa polarità. Una scelta da concordare con l’altro genitore dei figli per salvaguardare il benessere di tutti e tutte. Questo è il messaggio migliore da trasmettere in famiglia. È in tal senso, quindi, che non ci sono lavori femminili, ma ci sono lavori che realizzano la persona.

4.2. Pedagogia del lavoro: orientamento, capacitazioni e studio delle organizzazioni

In chiave educativa, fortemente collegata alla dimensione professionale, vi è la pedagogia del lavoro che studia il valore formativo dell’esperienza educativa (learning by doing) prima dell’ingresso nel mercato del lavoro e in seguito nell’attività professionale (work based learning). Su questi temi è presente una vastità di letteratura nazionale e internazionale e alcuni spunti interessanti sono stati forniti in un recente studio di Pellerey (2020a, 2020b, 2020c) sulla rilettura pedagogica del lavoro non solo nella scuola, ma anche nelle organizzazioni e nelle comunità di pratica.

Uno degli elementi più importanti della pedagogia del lavoro è l’orientamento, perché come insegnava già Braido (1954), “orientare è educare” in quanto aiuta la persona a porsi nella realtà salvaguardando la propria dimensione esistenziale legata non solo alla professionalità, ma anche alla verità dell’essere persona. “Verità” che oggi può tradursi nel senso di fronteggiare e liberarsi da quelle che sono delle distorsioni sociali legate al ruolo di genere (Lopez, 2012) nella società come nel lavoro.

Per tale ragione il primo orientamento deve avvenire tra i banchi di scuola dove una didattica orientativa deve coniugarsi con una didattica antisessista e intersezionale che mira “al superamento della relazione binaria tra studenti/studentesse e docenti così da facilitare l’emergere di soggettività più ampie e processuali, in quanto intrinsecamente connesse” (Fabbri et al., 2024, p. 10).

Una scuola che applica modelli relazionali liberi da sovrastrutture stereotipate permette di dare un primo orientamento esistenziale, ovvero “una visione pedagogica e personalistica, sempre più orientata verso una concezione multidimensionale e sistemica” (Del Core, 2023, p. 29) che sarà utile poi anche in chiave professionale. Se, infatti, in passato si definivano i soggetti idonei a un contesto lavorativo a partire dalle caratteristiche del lavoro e tenendo in alta considerazione le attese culturali in termini di ruolo di genere, nell’attuale prospettiva pedagogica “si parte dalla persona con le sue inclinazioni per individuare ciò che nelle diverse professioni può meglio corrispondere a tali disposizioni personali” (Crea, 2024, p. 21). Ciò significa che l’auto-percezione verso l’idoneità a una professione, non deve tanto inseguire un’attesa sociale, quanto deve partire da una consapevolezza personale di come la propria identità di genere possa trovare una sua serena manifestazione in quella professionalità.

Nelle recenti Linee guida per l’orientamento proposte dal Ministero (MIM, 2022) si possono rintracciare diverse finalità educative, tra cui l’accompagnamento dello studente o della studentessa alla generazione di un’idea di percorso formativo e professionale. Proprio in questo frangente la dimensione di genere risulta essere fondamentale. Infatti, come osserva Sangiuliano (2016, pp. 296–297) anche le teorie più innovative in chiave orientativa come l’apprendimento trasformativo di Mezirow o l’apprendimento esperienziale di Kolb, sembrano considerare la persona come un individuo astratto, in cui la dimensione intersezionale, ovvero l’incontro tra genere, vissuti e contesti culturali sembra essere poco importante. In tal senso si considera necessario lavorare su un empowerment femminile già nei percorsi formativi per anticipare situazioni sociali disallineate rispetto ai propri desideri di crescita personale e professionale, quali per esempio un mondo del lavoro ancor oggi imparziale e poco attento ai temi della maternità (Augelli, 2023).

Al paradigma del capitale umano che sostanzialmente prevede che l’investimento in termini formativi debba essere poi ben retribuito sul piano professionale, è necessario sostituire quello del capability approach. I dati precedentemente riportati nello studio INAPP di Deidda-Boscherini hanno messo in luce come una donna, per la stessa professione, guadagni meno degli uomini. Questo significa che secondo la teoria del capitale umano è più fruttuoso investire negli studi di un uomo che di una donna. Per poter contrastare questa disparità e discriminazione bisogna soffermarsi non tanto e non solo sull’aspetto socio-economico, ma anche sulla dimensione politico-formativa. Il fine non è solo legato ad una giustizia sociale “finale”, quindi occupazionale e stipendiale (che comunque non è raggiunta), ma ad un valore di equità già in sede formativa.

Il modello delle capability approach, come incontro tra competenze interne della persona e le circostanze esterne, dovrebbe guidare le scelte politiche del nostro paese sia in chiave formativa che economica secondo un principio egualitario e democratico. Un’esponente di questa corrente di pensiero è certamente Nussbaum (2011) che vede nelle capacitazioni la possibilità di successo di una persona, tenendo in alta considerazione la dignità dell’essere umano indipendentemente dal genere. L’autrice, riprendendo in parte i contenuti di Women and Human Development, sua opera specifica sul benessere della donna (Nussbaum, 2000) e ripercorrendo la storia di Vasanti, una donna indiana che riuscì a liberarsi di un marito violento intraprendendo un percorso di trasformazione personale, sottolinea la necessità di garantire reali opportunità formative, professionali e sociali, radicate nei contesti di vita delle persone. Solo un modello che permetta a tutti e a tutte una reale e paritaria possibilità formativa e occupazionale potrà dare significato e concretezza alle politiche attive del lavoro.

Infine, un filone di ricerca della pedagogia del lavoro che interessa la nostra riflessione è lo studio delle organizzazioni, in particolare del management al femminile (Campanile, 2024). Se infatti vi sono delle difficoltà nel conciliare vita personale e lavoro nel mondo femminile, tali difficoltà sembrano essere maggiori per quando riguarda i ruoli di coordinamento e responsabilità, soprattutto nel settore privato. Anche in questo caso, oltre alle motivazioni già riportate ed espresse nello studio di Cardinali, emergono questioni legate agli stereotipi di genere. Come osserva Visceglia “la percezione relativa al maschile si sovrappone naturalmente a quella del leader, poiché presentano delle caratteristiche comuni. Al contrario la percezione del femminile si discosta da quelle caratteristiche considerate rappresentative del leader” (Visceglia, 2022, p. 200). Questo pre-concetto non trova fondamento scientifico, anzi diverse ricerche (Calabrò et 2012; Cuomo-Raffaglio, 2017) affermano che la leadership femminile è una leadership empatica, democratica e collaborativa e quindi più idonea al benessere organizzativo.

5. Conclusioni

L’Articolo 37 della nostra Costituzione recita:

“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” (Costituzione della Repubblica Italiana, 1947, Art. 37).

In realtà, la situazione italiana ci parla ancora di una differenza di genere importante nel mercato del lavoro, specie nella fascia di età tra i 25 e i 50 anni, ovvero l’età della maternità e della maturità. Rispetto al genere maschile che tra gli i 25-34 riporta una percentuale di inattività del 16,8 e nella fascia 35-49 di un valore pari all’8,2, le donne per la fascia 25-34 hanno un quoziente del 32,4% e per la fascia 35-49 del 28% (Checcucci, 2025, p.37). Più specificatamente,

“il carico familiare rappresenta per molte donne un motivo di rinuncia all’attività lavorativa, soprattutto quando ci sono bambini in età prescolare: tra i 25 e i 34 anni, meno della metà delle madri risulta occupata, a fronte di oltre il 60% nella fascia tra i 35 e i 54 anni. Nella fascia di età tra 25 e 54 anni, il tasso di occupazione degli uomini senza figli è del 77,3%, 8,6 punti percentuali in più rispetto alle donne (68,7%). La differenza è di circa 30 punti percentuali quando i genitori hanno figli minori (rispettivamente 91,5 e 61,6%)” (Freguja et al., 2025, p. 6).

Un gap di genere che può definirsi provocatoriamente anti-costituzionale!

Inoltre, come osserva Cardinali (2025, p. 3), è elevato il rischio “per le donne di perdere l’occupazione e non transitare nelle fila della disoccupazione (ossia nella condizione di non avere lavoro ma cercarlo), ma di collocarsi direttamente nella categoria dell’inattività, ossia di non avere più lavoro e non cercarlo o non essere immediatamente disponibili al reimpiego” (Cardinali, 2025, p. 3).

In questo articolo sono stati riportati dati e fatte considerazioni pedagogiche che ci permettono di sostenere la necessità di continuare a lavorare sulla consapevolezza di genere in un’ottica di cittadinanza attiva (Pace, 2010). Questo vale sia negli anni della formazione che nel periodo lavorativo. Una necessità che ha due finalità importanti: una di carattere economico-sociale (Rinaldi, 2023) e una di carattere valoriale. Per quanto concerne la prima con il tasso di denatalità presente nel nostro paese non è pensabile che nei prossimi decenni così tante donne possano rimanere fuori dal mercato del lavoro, sia per ragioni di domanda di lavoro che di contributi pensionistici per una popolazione che sta invecchiando. In questo senso dovrebbero migliorare tutti i servizi del settore caring (in particolare i servizi educativi all’infanzia e di cura degli anziani) per sostenere l’ingresso nel mercato del lavoro delle donne di età tra i 25 e i 60 anni. Si consideri a riguardo che “tra le madri inattive con figli […] la maggior parte (62,2%) non cerca lavoro né è disponibile a lavorare per motivi familiari (incluso l’accudimento dei figli o l’assistenza a persone anziane o non autosufficienti), motivazione addotta solo dal 4,8% dei padri” (Freguja et al., 2025, p. 6).

La dimensione assiologica deve accompagnare, anzi sostanziare quella economico-sociale. In questo la pedagogia ha un ruolo fondamentale. Come direbbe bell hooks (2020), la “pedagogia impegnata” è l’ardua via da seguire nei nostri tempi. Riconoscere e valorizzare il genere nella cultura significa combattere per un’equità sociale nell’istruzione, nel lavoro e nella politica. Non ci sono scorciatoie, neanche ideologiche:

“L’educazione progressista e olistica, la “pedagogia impegnata”, è più faticosa della pedagogia critica o femminista convenzionale. A differenza di queste due pratiche di insegnamento, promuove il benessere. Ciò significa che chi insegna deve impegnarsi attivamente in un processo di autorealizzazione capace di promuovere il proprio benessere personale, per poi essere in grado di fornire strumenti di autodeterminazione agli studenti” (bell hooks, 2020, p. 47).

Genitori, insegnanti e tutti/e coloro che sono chiamati a educare devono testimoniare in primis la proposta pedagogica impegnata e di genere. Nel nostro paese non sono bastate le leggi, le “quote rosa”, le manifestazioni, i saperi e le riflessioni di genere o le mobilitazioni femministe. Tutti segni sociali ancora troppo lievi per incidere su quella pedagogia popolare che sembra accettare ancora oggi lo status quo, rimandando ai figli e agli studenti il cambiamento in un futuro indefinito. La testimonianza educativa deve partire ora, nelle nostre famiglie, nelle nostre madri, nonne, nei nostri padri e nonni (Lopez, 2016, p. 959); nei nostri sistemi educativi, in particolare nell’università (Biemmi et al., 2023); nella formazione e nel mondo del lavoro (Dello Preite, 2023) e nella società civile (Chianese, 2024). Rimandare a domani, ai “nostri figli e alle nostre figlie”, significa non voler cambiare, o come direbbe Freire, riconoscere che il primo oppressore dell’oppresso è se stesso.

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