Formazione & insegnamento, 23(S1), 8136
Talents as the Development of Subjectivity in Transition
Talenti come sviluppo di soggettività nella transizione
ABSTRACT
The term ‘Talents’ admits multiple interpretations. For several decades, Umberto Margiotta has sustained a line of research and a wide-ranging debate that has foregrounded the topic from an educational perspective. Within this frame of reference, this contribution offers a broad reflection on the quality of the experience of time as a gateway to critical and reflective thinking, as an exercise of freedom and self-determination, and as a formative condition that orients subjects and is therefore decisive in their development, including in delineating expectations and the potential of talents.
Il termine Talenti rinvia a molteplici interpretazioni. Umberto Margiotta per diversi lustri ha tenuto vivo un fronte di ricerca e un articolato dibattito che ha valorizzato il confronto sul tema in prospettiva formativa. Entro tale cornice di riferimento, il contributo indirizza a maglie larghe la riflessione sul terreno della qualità dell’esperienza del tempo come chiave d’accesso al pensiero critico e riflessivo, come esercizio di libertà e di autodeterminazione, quale condizione formatrice che orienta i soggetti e dunque risulta determinante nel loro sviluppo, anche nel circoscrivere aspettative e potenzialità dei talenti.
KEYWORDS
Umberto Margiotta, Time, Subjects, Freedom
Umberto Margiotta, Tempo, Soggetti, Libertà
AUTHORSHIP
This article is the result of the work of a single author.
COPYRIGHT AND LICENSE
© Author(s). This article and its supplementary materials are released under a CC BY 4.0 license.
ACKNOWLEDGMENTS
This article was published with the support of Fondazione Umberto Margiotta.
CONFLICTS OF INTEREST
The Author declares no conflicts of interest.
RECEIVED
June 28, 2025
ACCEPTED
July 28, 2025
PUBLISHED ONLINE
October 1, 2025
1. Premessa
In sede educativa e in contesti d’istruzione si assiste di recente ad un uso ripetuto e sempre più diffuso del termine talento, spesso richiamato nella forma plurale talenti. Pur nella chiara consapevolezza, ormai abbastanza diffusa, delle molteplici interpretazioni a cui l’espressione rimanda nel linguaggio comune, la ricerca pedagogica non dovrebbe comunque venir meno all’impegno di riflessione e di approfondimento sul tema già avviato da tempo.
Si avverte forte il rischio, infatti, che lasciando progressivamente spazio di legittimazione agli impliciti, alle comode assonanze, alle consuetudini, non ultimo anche ad un uso strumentale dell’espressione, si possa approdare ad una facile legittimazione di pratiche irriflesse e ideologicamente orientate sul terreno di ciò di ciò che si intende per talento.
Va riconosciuto ad Umberto Margiotta l’acume e la lungimiranza di aver approfondito, e poi arricchito nel corso di un arco di tempo che si è protratto per diversi lustri, un articolato dibattito sull’argomento; un confronto volto a richiamare l’importanza e la necessità di approfondire il senso, ma anche il peso in termini valoriali, delle molteplici dimensioni e concezioni
dell’emergere e del divenire dei cosiddetti talenti. In apertura dell’Editoriale che scrive nel 2018 per la Rivista Formazione & Insegnamento, nel fascicolo dedicato al tema La formazione dei talenti come nuova frontiera, sviluppando la metafora contenuta nel titolo, eesso
gli afferma con chiarezza e lucidità come il talento sia da intendersi al pari di una frontiera della vita umana e che, pertanto, risulta irrilevante stabilire quanto di innato possa esso contenere, poiché a determinare l’esito in termini di possibilità di “esercizio continuo e deliberato del proprio potenziale” (Margiotta, 2018, p. 10) sarà comunque una partita che si gioca interamente sul terreno inerente al modo di vivere e di sviluppare le proprie azioni. Va da sé, di conseguenza, che ogniqualvolta il soggetto venga privato delle giuste opportunità di specchiarsi in contesti accessibili e aperti alla relazione, praticabili dal proprio agire trasformativo, siano essi formali, non formali o informali, una situazione di disagio o di disadattamento andrà a configurarsi, ad attestarsi in forma più o meno stabile.
2. Antagonismo e competizione non generano sapere
Richiamare l’attenzione sull’importanza dei contesti di vita e di relazione ha utilmente orientato ogni possibile futuro sviluppo del confronto sul tema della formazione dei talenti entro una prospettiva eminentemente educativa; ha contrassegnato, per il dibattito, un orizzonte pedagogico in cui significati ed esperienza non possono mai essere disgiunti, ma ha anche chiamato la ricerca pedagogica a confrontarsi con una serie di interrogativi di rilievo ai quali bisogna trovare risposta a più livelli di analisi e di osservazione, a partire dal modo stesso in cui si prospettano, si organizzano concettualmente e si leggono in chiave critica le trasformazioni (dunque le transizioni), che è esso stesso criterio e strumento di cambiamento.
“I cromosomi del dottore sono potenti – scrivevano ironicamente i ragazzi di Barbiana in Lettera a una professoressa - Pierino sapeva già scrivere a 5 anni. Non ha avuto bisogno di far la prima. Entra in seconda a 6 anni. Parla come un libro stampato. Già segnato anche lui, ma questa volta col marchio della razza pregiata” (Scuola di Barbiana, 1967, p. 29). Per quanto il contesto nel quale si colloca attualmente l’Istituto scolastico, con le proprie finalità e i propri strumenti, si presenti ai nostri occhi significativamente modificato a confronto con la scuola di Don Lorenzo Milani, avvertiamo tutto il valore e anche l’attualità di queste affermazioni. Una denuncia che a distanza di più di cento anni dalla morte del priore di Barbiana giunge ancora con sicuro effetto, come testimoniano di recente anche le numerose iniziative convegnistiche ed editoriali organizzate in occasione del Centenario della sua nascita.[1] Dalla prima pubblicazione di Lettera ad una professoressa (1967) ad oggi, certamente nuove povertà educative si sono aggiunte alle precedenti, mentre dentro e fuori la scuola sono andati via via attestandosi e normalizzandosi vissuti individuali e sociali contrassegnati da relazioni intersoggettive sempre più improntate ad una competizione in costante crescita, incontrollata e ingiustificata sotto il profilo delle finalità formative e d’istruzione, perseguita con un accanimento nel quale sembra essersi smarrita ogni ragione umana.
Inventare ogni giorno nuovi antagonismi, alimentati da una strumentale competizione fine a se stessa, non serve a sviluppare e promuovere sapere, ad aprire strade al potenziale personale. L’esperienza scolastica, così come ogni altra attività formativa, compreso il lavoro, per quanto oggi possa apparire assurdo, non possono essere piegate e consegnate alla logica della concorrenza; poiché nascono e sono riconosciute come esercizio di diritto, devono arrivare a tutti (Tomarchio, 2017, p. 143). Tanta indotta e pervasiva competizione sollecita, in particolare in sede pedagogica, un’attenta riflessione intorno a ciò che continuiamo a chiamare sviluppo; una riflessione da condurre inevitabilmente, e con speciale riferimento, tanto all’esperienza scolastica quanto, come suggerisce Margiotta, all’esperienza lavorativa intesa come agire generativo delle persone.
Il tema della tavola rotonda alla quale prendiamo parte, Coltivare talenti in un’epoca di transizioni: tempi, contesto, condizioni, non a caso richiama nel titolo la metafora più antica e più frequentemente associata al compito educativo, quella dell’educazione come azione del coltivare, un’azione che coincide con l’esercizio della pratica lavorativa più antica e che, nei secoli, ha variamente associato l’attività dell’educatore a quella del coltivatore, anche in contesti formali e d’istruzione.[2] Le ragioni di così tanto indugiare e compiacersi nella metafora educatore/coltivatore, i molteplici sviluppi che ha visto attraversata da un’ampia letteratura pedagogica, sono stati a lungo oggetto di studi specifici; con riferimento agli scopi del presente contributo trovo però interessante porre in evidenza come essa risulti strutturalmente connessa alla categoria del tempo, carattere che, a mio giudizio, può verosimilmente spiegare anche l’origine di tanto ampia fortuna. Al netto di ogni possibile disamina o approfondimento, la metafora in questione ci ricorda che sono connaturati alla condizione umana tempi di attesa, fasi di maturazione che necessitano di tempi differenziati per ciascuno, che esiste, lungo il viaggio nel tempo che è la nostra vita, stagionalità e ricorsività. Continuando lungo la metafora possiamo in sintesi aggiungere che la prima conoscenza di base dell’azione del coltivare, per analogia anche dell’educare, passa per una imprescindibile consapevolezza della necessità di dare agio, in ogni singola condizione e per ciascun individuo, al tempo e ai tempi del nostro agire.
L’idea, la rappresentazione, o anche soltanto la qualità dell’esperienza del tempo, si presenta da sempre alla mia considerazione come una sorta di lente d’ingrandimento sull’educazione. Si consideri, infatti, quale rilevanza assume in ordine a temi connessi a dialoghi intergenerazionali, a nozioni quale processo, progetto, a ciò che chiamiamo educazione permanente, o ancora innovazione educativa. Ogniqualvolta le questioni pedagogiche assumono contorni sfumati, ho avuto modo di sperimentare come mettere a fuoco sulla dimensione del vissuto temporale sia d’aiuto nel tentare di fare chiarezza, riducendo al minimo possibili atteggiamenti mistificatori, sorvolando su retorica e luoghi comuni.
A conti fatti, senza una consapevolezza e una sufficientemente chiara prospettiva di ordine temporale, cosa è, e cosa potrebbe essere, entro quale riserva di concetto rischia di segnare il passo, la ricerca pedagogica, la stessa metodologia che voglia dirsi educativa? Del pari la prospettiva di soggetti che sviluppano nel tempo talenti entro quali condizioni e dimensioni di pratica educativa può essere praticabile?
3. La qualità dell’esperienza del tempo come condizione formatrice
Cultura è innanzitutto una certa esperienza del tempo, afferma Agamben (Agamben, 1978, p. 91); ad ampio raggio di incidenza operano infatti i motivi che mi inducono ad insistere nel richiamare l’attenzione sulla categoria/esperienza del tempo in prospettiva formativa. Uno di essi mi appare di particolare rilievo in questa sede, poiché è sicuramente da porre in stretta relazione con quella condizione formatrice entro la quale dovrebbero trovare contesti favorevoli, e dunque prendere forma, i talenti. Lo rappresento nella necessità che individuo di trovare risposte adeguate alla questione aperta dei bisogni legati alla qualità dell’esperienza del tempo vissuto, oggi sempre più attraversata e condizionata da un pervasivo e inquietante presentismo, diffuso nel nostro costume di vita, di lavoro, di studio. Una condizione che opera sulle nostre aspettative e dunque sul nostro sviluppo, che trasferisce i propri effetti anche nelle questioni morali, nello sguardo che rivolgiamo al mondo e agli altri.
Così abbiamo lasciato che venisse costruita una gabbia a perimetrare le aspettative e le potenzialità dei giovani delle nuove generazioni e di noi stessi, tutti indotti al continuo esercizio di rappresentazione e di formulazione di obiettivi, misurati e misurabili, sempre più smart come anche le parole, con il risultato di una disumanizzante standardizzazione anche dei tempi della costruzione della conoscenza, tutti pesati in termini di prestazione. Gli effetti che produce tanto appiattimento sul presente possono essere individuati a livello formativo in un pesante impoverimento del nostro “senso interno” che è, a più livelli, sede di dialogo attivo con la memoria personale e collettiva, ma anche con i futuri possibili, di conseguenza in uno stato che compromette la possibilità di elaborazione dell’esperienza stessa, nel prodursi e riprodursi di un ‘vuoto d’esperienza’ che riduce ogni nostra attività ad una sorta di movimento fittizio volto a generare unicamente abilità funzionali entro limitati raggi d’azione.
Tempo “che manca” chiamiamo comunemente la condizione che limita le opportunità di accesso, che non produce conoscenza e ridimensiona ogni possibilità di superiore consapevolezza di noi stessi e del mondo. Una condizione propria di individui con ridotte aspettative sul futuro, soggetti pertanto ‘agiti’ sotto diversa forma e a più livelli, accomunati dal tratto dell’irrilevanza storica e politica, oltre che sociale. Per questa via viene precluso ai soggetti l’accesso alla profondità delle proprie riflessioni, alle peculiarità di quel vissuto temporale che, ispirandoci al pensiero kantiano, possiamo chiamare “tempo interno”, dimora di ogni possibile elaborazione, di ogni sviluppo o conversione di ordine formativo.
Nella Critica della ragion pura (1781) già Kant poneva le basi per una trattazione dell’esperienza del tempo, forma a priori della sensibilità, come ‘senso interno’, struttura di un’esperienza che è intreccio di pensieri, di aspettative, di memorie[3]; mentre in tempi più vicini a noi e con specifico riferimento alla relazione educativa, tra numerosi altri illustri rappresentanti della pedagogia contemporanea, è Dewey in Esperienza ed educazione (1938) a segnalare come sia di importanza decisiva capire quali esperienze vivranno fecondamente e creativamente nelle esperienze che seguiranno, in quanto ogni esperienza riceve qualcosa da quelle che l’hanno preceduta e modifica in qualche modo la qualità di quelle che seguiranno. Queste ultime, quelle che seguiranno, saranno sempre ‘ulteriori’, mai meramente successive in un ordine di tempo lineare-sequenziale. Quando richiamo i rischi connessi al soprarichiamato, diffuso atteggiamento di appiattimento sul presente, mi riferisco proprio al fatto che non viene riconosciuto, in senso operante, né il valore dell’appello al processo interpretativo del tempo vissuto, né l’appello ad un futuro che sia realmente tempo a venire e non mera proiezione dell’ombra del presente. Una pedagogia che non sviluppi una prospettiva di pensiero critico rispetto ad una così surrettizia e straniante idea di contemporaneità, si pone a servizio dello sviluppo di talenti? Va superata l’idea, sempre più intrisa di narcisismo tecnocratico, di un presente assoluto. L’intelligenza di talenti giovanili è esente da seduzioni narcisistiche, piuttosto afferma Margiotta, “chiama connessione e lavora alla connessione: connessione con gli altri, con il lontano, con l’aldilà, con i morti, con il passato, con l’avvenire. Con l’accrescimento delle connessioni, non è tanto lo spazio a restringersi, quanto il senso dell’umano a espandersi” (Margiotta, 2018, p. 11).
Serve allora rivolgere al tempo una riflessione approfondita, proprio mentre siamo in corsa per guadagnare lo status di individui ‘fuori dal tempo’, mentre c’è chi agita la prospettiva di uscire definitivamente dal tempo, avendo la pretesa di studiare con approccio scientifico i segreti l’immortalità (sarà l’emergere di un incommensurabile, incompreso, talento?!). Non c’è da stupirsi, sono presenti anche tra i pedagogisti quanti pensano sia possibile misurare processi di crescita, di apprendimento, unicamente entro la misura discreta di un tempo cronologico.
Ma vi è anche un altro motivo che, tra i tanti, dovrebbe indurci a richiamare la categoria/esperienza del tempo proprio con riferimento allo sviluppo dei talenti; uno scopo più direttamente legato all’ordine delle pratiche educativo-didattiche e di ricerca, da ricondurre al dispositivo scientifico attraverso il quale sviluppiamo e conduciamo le nostre stesse analisi per restituire loro legittimazione in sede pedagogica. Osservo infatti con una certa apprensione come si stia progressivamente attestando la tendenza a delegare ogni rimando al tempo dell’educazione ad un circuito scientifico specifico e ormai pressoché esclusivo, contrassegnato da espresso e codificato riferimento alla competenza storica entro un circuito via via sempre più circoscritto a predefiniti oggetti di indagine. Senza considerare che, così facendo, stiamo pericolosamente perimetrando il tempo dell’educazione, stiamo ponendo un’ipoteca sulla forza generativa dello stesso senso del tempo, riducendo, per di più, il modo di intendere e di interpretare, ricostruire e narrare, storia e storie. Un’idea, qualsivoglia idea, può assumere come riferimento in maniera significativa il terreno educativo, soltanto se recuperata alla sua dimensione processuale, diversamente rimane ipostasi, dogma, mero orpello ideologico[4].
Se di talenti vogliamo parlare, allora, ancor più in dialogo con il contributo di ricerca di Umberto Margiotta, non saprei in quale direzione cercare al di fuori di un orizzonte di riferimento contraddistinto da tanto richiamo alla riflessività e al tempo, ancor più se in contesti che definiamo di crescita umana, di sviluppo, di transizione, a richiamare trasformazioni epocali che porterebbero in sé grandi opportunità per la crescita dei soggetti, nuove sorti progressive per lo sviluppo dei loro talenti.
4. Liberare talenti
Il richiamo al tempo, fin qui operato, ha una precisa ragion d’essere, ancor più se attraversato da interrogativi a tratti così poco ‘attuali’ (l’effetto è in parte voluto).
Nelle riflessioni che Margiotta rivolge alla formazione dei talenti, infatti, direttamente o indirettamente, la dimensione temporale è sempre presente, anche esplicitamente richiamata. A suo giudizio l’emergere di un talento può essere paragonato ad un viaggio nel tempo; un viaggio in direzione della forma espressa della nostra unicità, contraddistinto da un processo che è ‘esercizio continuo e deliberato del nostro potenziale’. Un tale sviluppo presenta al suo interno dinamismi legati a fattori socioculturali (ai contesti, alla territorialità, alle condizioni economiche) e, al tempo stesso e in forma interrelata, dinamismi di ordine genetico-evolutivo.
Nel suo insieme si offre alla nostra considerazione come un ordine d’esperienza che restituisce un profilo di uomo operoso e impegnato lungo il versante della pratica della coltura di sé, che induce gli individui a riflettere su sé stessi, da singoli o come componenti di un collettivo, ma senza mai rinunciare alla loro veste autorale.
Questo richiamo va chiaramente all’indirizzo di quell’esercizio di libertà che deve rimanere alla portata di tutti, ma che, specialmente in età adolescenziale, si configura quale disposizione che diviene a sé proprio nel momento in cui ravvisa sé stessa e sa di essere (è a questo livello che il sapere si fa tutt’uno con la postura e la consapevolezza di sé rispetto al mondo); è lo sguardo irriducibile di un vissuto di personale ricerca, di scoperta e di responsabile collocazione del proprio agire nel mondo circostante in una direzione, mai prescrittiva, estensibile in sviluppi molteplici.
Alla luce delle considerazioni fin qui condotte sarebbe impensabile accompagnare la formazione di talenti avendo la pretesa di introdurre componenti formative, strutture nuove (l’inarrestabile sovraordinata transizione) che si sovrappongano alle precedenti in forma meccanica e giustapposta, dovrà piuttosto trattarsi di una continua e ricorsiva “sintesi soggettiva per contatto operante” (Tomarchio, 2008), in un processo di progressiva integrazione di componenti ristrutturanti. Il segreto sta nel garantire autonomia e differenza, precisa Margiotta nel 2008, a sottolineare che il potenziale di vita, il talento, non può essere disgiunto proprio dal potenziale di libertà che siamo chiamati ad esprimere (promessi, come siamo, ad una forma); anzi, forse rappresenta proprio la libertà di andare verso il compimento della propria promessa forma, l’utopia concreta di chi pensa sia ancora legittimo subordinare il reale al possibile.
Soggetti e transizione, rifuggiamo dunque da ogni banalizzazione, ogni prefigurato rapporto di interscambio va adeguatamente problematizzato in chiave critica e posto in discussione, a più livelli, in termini dialettici. Si tratta di molto più che di un mero dato di assestamento di sistema. E soprattutto non è entro le forme che prospetta una sovraordinata transizione che generano talenti nei soggetti. “La critica è pratica, non compimento e risoluzione. – suggerisce Rita Fadda - Essa in quanto apertura originaria alla domanda, non si esaurisce in nessuna risposta, non riposa in essa, né si acquieta, ma crea lo spazio della crisi […] L’ineluttabilità della scelta è l’essenza della crisi che comporta lacerazione, dubbio, rischio” (Fadda, 2016, p. 28).
Quello che osserviamo e che viviamo oggi, è tuttavia il sopraggiungere e l’attestarsi indiscusso di un autoritarismo sempre più pervasivo che, attraverso una forzata coazione all’autovalorizzazione, tende a piegare soggettività relativamente autonome ad una logica strumentale e calcolante. Sicché i soggetti crescono programmati per sentirsi sempre colpevoli di non essere abbastanza resilienti, mai abbastanza bravi come imprenditori di sé (ma chi l’ha detto che per portare alla luce le nostre migliori qualità bisogna autorappresentarsi al pari di una merce?). È per questa via che si uccidono i talenti, isolando il soggetto, colpevolizzandolo, ponendolo di fronte al suo insuperabile limite, insanabile debito, facendogli credere che questo è il suo destino. Nel futuro che sembra prospettare un tale ineluttabile status di transizione, vedo avanzare a grandi passi una versione aggiornata e molto aggressiva dell’eterodirettività, l’inganno reiterato della non-scelta obbligata (non c’è alternativa).
Ci sarebbe molto da dire su come oggi il mondo della comunicazione opera a servizio e in funzione di una prospettiva di abbassamento della soglia di attenzione critica delle giovani generazioni, trattenendola, monetizzandola, lasciandola di fatto all’arbitrio assoluto di algoritmi senza volto non imputabili di alcuna responsabilità. Si tratta di attenzione sottratta al tempo della riflessione e della ricerca personale, tolta al tempo della vita di relazione. E mentre questo accade, i giovani e noi tutti diventiamo oggetto di commercio, assieme ai nostri dati, alle nostre scelte, che vengono scambiati e acquistati, senza tregua. Non si tratta del ‘nuovo che avanza’, non siamo dentro un’epocale, incontrollabile trasformazione, in moto in direzione di un futuro ultratecnologico, sperimentiamo piuttosto condizioni di limitata libertà, e anche di esercizio di violenza.
A prescindere da tanto frastuono, da un contesto comunicativo ‘malato’ nel quale la conferma e la legittimazione è data dal numero delle ripetizioni, dall’eco di un già detto un inarrestabile numero di volte, la domanda d’obbligo di un pedagogista rimane sempre e comunque orientata dalla bussola dei processi formativi, dall’azione e dalla posizione del soggetto quale agente di elaborazione dell’esperienza stessa in rapporto alle circostanze nelle quali vive immerso.
Lo sviluppo di soggettività, l’emergere di talenti, in particolari congiunture che diciamo ‘di transizione’, dovrebbe essere progressiva generazione di equilibri dinamici in un tempo inteso, in un unico movimento, quale sviluppo di sapere e crescita di consapevolezza di sé in rapporto all’universo circostante, poiché mai si apprendono elementi isolati (i fatti), piuttosto movimenti (forma-azione in divenire), dati d’esercizio dettati da quella specificità, da quella unicità di rapporto che sola dà forma e corpo al sapere (Tomarchio 2017 pp.142-146). In questo preciso momento storico, ancor più che in passato, l’apporto della ricerca pedagogica non può dunque essere ispirato da una logica adattiva, bisogna al contrario assumere come compito quello di interrogarsi sulla realtà e di contribuire a ridefinirla attraverso un pensiero demistificante, generativo, utopico, nonviolento, aperto. Gli assiomi del pensiero unico continuano ad accelerare correndo sul posto dentro il non-luogo di un eterno presente lastricato di visioni parziali limitanti e di interessi individuali che perimetrano e alterano l’idea stessa di transizione, annullando ogni spazio pubblico di reale confronto e di elaborazione, ogni opzione possibile.
Potremo continuare ad essere dentro un cammino convincente verso la formazione di autentici talenti che siano soggetti autonomi, capaci di accedere al proprio futuro, di esserne protagonisti e parte determinante, quando, e soltanto se, avremo preso atto della circolarità di rapporto che corre tra processi di emancipazione dei soggetti e status/contesti di libertà.
E intanto che così andiamo ragionando, ciò che intendiamo per libertà rischia di essere rappresentato come pratica disfunzionale, di essere sempre più assimilato ad una minaccia, nel migliore dei casi a forme solipsistiche di intrattenimento.
Anche dall’agenda della ricerca scientifica sembra rimosso il tema della libertà e dell’autodeterminazione, è stata pertanto una precisa scelta quella di chiudere le brevi considerazioni fin qui condotte richiamando ancora una volta l’argomento che interroga e inquieta, ma sostanzialmente, ha la forza di tenere ancora aperta l’intera partita. Perché in fondo la transizione è in noi, anzi siamo noi. Non possiamo lasciare che venga considerata un agente di sistema.
L’orizzonte di impegno, coerentemente, che prospetterei e che speriamo venga fatto proprio anche dai tanti talenti emergenti, non dovrebbe essere, in definitiva, quello improbabile di cambiare hic et nunc il mondo, ma di far proprio il compito, nella diuturnitas, di cambiare il tempo.
Endnotes
Un’articolata ed interessante ricostruzione sul pensiero e l’opera di Don Milani, rivolta in modo particolare a porre in luce gli aspetti di attualità del suo pensiero è contenuta nei due volumi, Sessioni plenarie e Junior Conference, che Accolgono gli Atti del Convegno Siped (Firenze, 16/17 giugno 2023) a cura di Boffo et al. (2024). ↑
Non è difficile trovare riscontro dell’uso della metafora in numerosi testi ampiamente richiamati da tanta letteratura pedagogica: Da Platone (Eutifrone) e Quintiliano (Institutio oratoria) a Montaigne (Essais) e Comenio (La grande didactique), per andare soltanto alle origini più antiche nel tempo. Per una dettagliata disamina sul tema si rimanda ai primi due capitoli di Cousinet (1954), disponibile in traduzione italiana in Tomarchio (2003). ↑
Per quante immagini proviamo ad evocare, sostiene Kant nella Critica della ragione pura, la proprietà essenziale del tempo è impossibile da raffigurare in alcun modo, esso è un’intuizione interna priva di qualsivoglia possibile raffigurazione. E ogniqualvolta suppliamo a questa insufficienza rappresentandoci la serie temporale con una linea che si prolunga all’infinito nella quale il molteplice forma una serie avente una sola dimensione, ci ritroviamo immediatamente dentro un’analogia per difetto, perché le parti della linea sono simultanee, mentre le parti del tempo sono sempre successive. Non possiamo chiedere ad una rappresentazione lineare del tempo, di restituirci la successione che fa del tempo “il tempo”; e del pari, a tale rappresentazione lineare-sequenziale non possiamo chiedere neanche la processualità, la continuità/discontinuità, la conseguenzialità senza le quali non può esistere cultura dell’educazione, né teoria della formazione (cfr. Tomarchio, 2015). ↑
Dentro una condizione fatta di eterno presente viviamo un’attualità che associamo, per mera tautologia, ad un’idea di innovazione che ormai, sempre più spesso, si autoproclama e si autodefinisce. ↑
References
Agamben, G. (1978). Infanzia e storia: Distruzione dell'esperienza e origine della storia. Torino: Einaudi.
Boffo, V., Del Gobbo, G., & Malavasi, P. (2024). Dare la parola: professionalità pedagogiche, educative e formative. A 100 anni dalla nascita di don Milani.. Lecce: Pensa MultiMedia. https://www.pensamultimedia.it/libro/9791255681304
Cousinet, R. (1954). La culture intellectuelle.. Paris: Le Presses d’Ile de France.
Dewey, J. (1938). Experience and Education. Urbana-Champaign (IL): Kappa Delta Pi.
Fadda, R. (2016). Promessi ad una forma: Vita, esistenza, tempo e cura: lo sfondo ontologico della formazione.. Milano: FrancoAngeli.
Margiotta, U. (2018). La formazione dei talenti come nuova frontiera.. Formazione & insegnamento, 16(2), 9–14. https://ojs.pensamultimedia.it/index.php/siref/article/view/2923
Scuola di Barbiana (1976). Lettera a una professoressa.. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina.
Tomarchio, M. (2017). Manifesto per una scuola inclusiva. Filosofia di una scelta educativa e didattica.. In A. Catalfamo (Ed.). Cultura inclusiva nella scuola e progettazioni curricolari. Suggestioni e proposte (pp. 142–146). Trento: Erickson.
Tomarchio, M. (2015). Coltivare l’essere che trasforma le cose: Pedagogia militante e progettualità educativa.. In M. Tomarchio & S. Ulivieri (Eds.). Pedagogia militante: Diritti, culture, territori: Atti del 29° convegno nazionale SIPED (Catania 6-7-8 novembre 2014) (pp. 25–36). Pisa: ETS.
Tomarchio, M. (2008). Un modello di educazione alla libertà: la sintesi per contatto operante.. In E. Colicchi & A. M. Passaseo (Eds.). Educazione e libertà nel tempo presente: Percorsi, modelli, problemi (pp. 336–351). Roma: Armando.
Tomarchio, M. (2003). Educazione Nuova e Culture intellectuelle.. Catania: CUECM.