Freedom as Deactivation and Co-Creation: An Action Research Study on Emancipatory Practices in Lower Secondary Education

Libertà come Disattivazione e Co-Creazione: Una Ricerca-Azione sulle pratiche emancipanti in una Scuola Secondaria di Primo Grado

Fabrizio Gesuelli
Istituto Comprensivo Gigi Proietti, Ministero dell’Istruzione e del Merito, Roma (Italy); fabrizio.gesuelli@icgigiproietti.edu.it
https://orcid.org/0009-0008-0675-8716

ABSTRACT

This article critically examines the definition of freedom proposed in the forthcoming 2025 National Guidelines by the Italian Ministry of Education, contrasting it with the constraints perceived in everyday teaching practices within a lower secondary school. Drawing on a theoretical framework that includes contributions from Biesta, Žižek, Agamben, and Nishitani, the paper advocates for a conception of freedom rooted in the deactivation of the teacher’s telos [τέλος] and the co-construction of knowledge. Through a combination of action research and autoethnography, the study explores and defines practices of porous teaching. By embracing the figure of the “illegal teacher,” making use of the hidden curriculum, and implementing a pedagogy of error, the article demonstrates how genuine spaces of emancipation can emerge. The final analysis highlights systemic challenges and underscores the urgent need to integrate these practices into the everyday life of schools, in order to foster a teaching culture that truly supports shared agency and meaningful freedom.

L’articolo problematizza la definizione di libertà nelle Indicazioni Nazionali 2025, confrontandola con le limitazioni percepite nella pratica didattica quotidiana di una scuola secondaria di primo grado. Partendo da un quadro teorico che attinge a Biesta, Žižek, Agamben e Nishitani, si propone una visione della libertà basata sulla disattivazione del télos [τέλος] docente e sulla co-costruzione del sapere. Una ricerca-azione auto-etnografica ha permesso di sperimentare e definire pratiche di didattica porosa. Attraverso la valorizzazione della figura del “professore illegale”, l’accoglienza del curriculum nascosto e l’implementazione di una pedagogia dell’errore, si dimostra come sia possibile creare spazi di autentica emancipazione. L’analisi finale evidenzia le sfide sistemiche e l’urgente necessità di integrare stabilmente queste pratiche per una scuola che favorisca realmente libertà e agency condivisa.

KEYWORDS

Freedom, Italian National Curriculum Guidelines, Emancipatory teaching, Teaching profession

Libertà, Indicazioni Nazionali 2025, Educazione emancipatrice, Professione docente

CONFLICTS OF INTEREST

The Author declares no conflicts of interest.

ACKNOWLEDGMENTS

Questo articolo è dedicato a tutti gli studenti che, in questi anni, a vario titolo, sono stati il mio stimolo più grande. Un grazie anche a tutti i colleghi che, con il loro impegno e confronto, hanno rappresentato un’importante fonte di ispirazione. In particolare, desidero ringraziare M. H. e C. B.: questo lavoro è soprattutto per voi. E infine, un pensiero speciale a tutti gli studenti che oggi si sentono frustrati o disamorati dell’insegnamento: non siete soli.

RECEIVED

June 20, 2025

ACCEPTED

July 2, 2025

PUBLISHED ON-LINE

September 12, 2025

1. Introduzione: la libertà contesa tra retorica e pratica educativa

Nelle Indicazioni Nazionali 2025, a proposito dell’educazione alla libertà, si legge che “non è sviluppo dello studente nella libertà, ma sviluppo della libertà nello studente (MIM, 2025 p. 10)”. Questa formulazione, che chiude un ragionamento su autodeterminazione e autonomia di pensiero e celebra la libertà come valore “occidentale”, solleva interrogativi cruciali: cosa significa davvero “sviluppare la libertà nello studente” e perché si nega uno sviluppo “nella libertà”? Come sottolineato da Nicola Faggin (2022), all’interno di un sistema predeterminato, comportamenti autenticamente liberi sono limitati; al contrario, uno sviluppo nella libertà, che le Indicazioni sembrano osteggiare, sarebbe la condizione necessaria per essi. In questo scenario, la libertà rischia di ridursi a mero slogan, mentre la realtà delle aule spesso riflette una riproduzione di modelli gerarchici e performativi (D’Ascanio, 2012). Tale ambiguità si manifesta chiaramente nella percezione degli studenti, come emerso da preliminari circle time, dove espressioni quali “mi sento come un cane al guinzaglio” rivelano una profonda insofferenza alle strutture imposte.

Questo articolo mira a esplorare e analizzare pratiche didattiche che sfidano la performatività scolastica e il ruolo tradizionale del docente, proponendo un modello di libertà basato sulla trasformazione degli adulti e sulla co-costruzione del sapere. Attraverso un’analisi critica e la descrizione di pratiche innovative, si intende dimostrare come un approccio che accetta l’incertezza e quella che verrà definita come l’impotenza del docente possano generare spazi di autentica emancipazione per le persone coinvolte, siano essi docenti o studenti. A tal fine, il lavoro procederà con la spiegazione del quadro teorico, una sezione metodologica, seguita dall’illustrazione dei casi studio e delle pratiche sperimentate. In conclusione, si argomenterà per l’urgenza di sistematizzare tali pratiche nelle scuole e per una radicale rivisitazione dei ruoli, superando la concezione del docente come soggetto educante di oggetti (gli studenti).

2. Quadro teorico: libertà, soggettività e disattivazione del télos

La distanza tra le teorie pedagogiche contemporanee e quanto espresso nelle Indicazioni Nazionali si accentua spesso nella pratica quotidiana, suggerendo che l’educazione alla libertà nella scuola resti un compito arduo, se non impossibile, senza una trasformazione profonda degli adulti. Nelle classi, si ha spesso l’impressione che gli studenti permangano in una condizione assimilabile al fuoco aristotelico descritto da Agamben (2016), in riferimento allo schiavo greco: senza enérgheia [ἐνέργεια], perennemente subalterno al suo padrone (l’insegnante) che gli fornisce energia sotto forma di ciocchi di legno (saperi o apprendimenti).

Tuttavia, la letteratura pedagogica contemporanea insiste sulla necessità di superare la figura del docente come “autore-eroe” e di promuovere una soggettivazione autentica degli studenti (Biesta, 2022; Meirieu, 2017). Gert Biesta parla di “meraviglioso rischio” dell’educazione proprio in funzione della libertà come insegnamento e pratica (2022). Educare alla libertà richiede fiducia e un gesto di dissenso da parte dell’insegnante. Tale dissenso implica una rottura con la “promessa” insita nella professione docente – la performatività o il télos, ovvero quello che a torto o ragione pare essere lo scopo predefinito e la causa determinante dell’azione educativa.[1] L’idea di dissenso di Biesta (2022) suppone infatti un indietreggiamento radicale del docente che, lasciando spazio, consente lo sviluppo della libertà e dell’autonomia negli alunni.

Procedendo lungo questa linea di ragionamento, l’idea di dissenso di Biesta ricalca da vicino il “no retroattivo” che il filosofo Slavoj Žižek (2006) utilizza proprio per sviluppare il suo concetto di libertà. Come scrive il filosofo sloveno, la libertà passa per un rifiuto radicale, delle routine e delle certezze, fino a riscrivere il passato di una persona e aprire nuove possibilità. Questo “no”, però, non è una mera negazione, ma piuttosto offre la possibilità di determinare retroattivamente le cause che potrebbero definire le nostre azioni future.

Il “no retroattivo” deve quindi configurarsi come un evento. Come sottolinea Francesco Cappa citando proprio Žižek, l’evento è “un’effetto che eccede le proprie cause” (Cappa, in Biesta, 2022, p. 13). L’evento qui descritto, quindi, è una forza creatrice che risuona con l’adagio secondo cui gli umani sono artefici dei loro destini. Questa prospettiva non è affatto peregrina, in quanto ci conduce direttamente al cuore dell’analisi: la libertà è un gesto radicale, un tipo di no che ha la forza retroattiva di determinare e quindi creare le nostre azioni future. Ma per essere tale necessita di un prezzo da pagare che ha a che fare con la creazione stessa.[2]

Questa forma di evento, così dirompente, è un atto che affonda le radici nella tradizione teologica della creazione, così come analizzata da Agamben (2019; 2016)[3]. Il filosofo illustra come la tradizione teologica che si sviluppa durante il basso Medioevo immagina la forza creatrice di Dio come una forma di impotenza. La prima opera di creazione, cioè la separazione della luce dalle tenebre, sarebbe descritta come una discesa nelle tenebre, in un tartaro oscuro e informe dal quale Dio sarebbe emerso. In questa discesa, Dio avrebbe esperito una forma di impotenza, intesa quale disattivazione del proprio télos, della propria intenzione e scopo predefinito. Ed è proprio questo tipo di esperienza che ritengo sia il meccanismo alla base del concetto di dissenso proposto da Biesta.

Questa prospettiva trova eco in esperienze di ricerca che hanno esplorato le pratiche di abitazione dello spazio pubblico con persone senza fissa dimora. In tali contesti, pur essendo l’intento iniziale animato da un télos – la causa che determina l’agire dell’architetto, ovvero “attuare soluzioni per migliorare le condizioni degli altri” – è emerso come ogni tentativo di imporre una visione esterna, calata nel contesto di chi abita la strada, rischiasse di fare più danni che altro. La progettazione di soluzioni abitative per persone senza fissa dimora, ad esempio, poteva inavvertitamente ghettizzare la loro condizione, pur non essendo tale condizione accettabile (si vedano studi come Gesuelli, 2018; 2020). Tale situazione ha portato a confrontarsi con lo scopo dell’architetto – il proprio télos di trovare soluzioni – che in quel momento, per dirla alla Agamben, era sospeso e stava girando a vuoto, e ad accettare un’esperienza di impotenza. Solo in quel preciso momento si è aperta una rivelazione: il senzatetto, nella sua capacità di adattamento e inventiva quotidiana, era già un “mirabile architetto” della propria sopravvivenza (Gesuelli, 2020; Lancione, 2013; 2016). Questa disattivazione dell’io intenzionale – un “no” alla presunzione di sapere cosa sia meglio per l’altro – ha creato un campo di impotenza creativa che retroattivamente ha riscritto le azioni future. Solo attraverso la rinuncia a ciò che si crede di dover essere o fare, si apre la possibilità di guardare alla propria persona – e di conseguenza all’educazione – in un modo radicalmente nuovo. La libertà, quindi, non è concessa, ma si costruisce nella rottura e nella negoziazione continua di ruoli pre-definiti.

Questi ragionamenti sono sfociati in quella che verrà definita una didattica porosa, che integra anche concetti di Deleuze e Guattari (1980) con il loro concetto di rizoma e la filosofia giapponese di Nishitani (2007; cfr. anche Hui, 2021). In questa prospettiva, il docente non è più il regista onnipotente, né solo un facilitatore che costruisce spazi di possibilità entro vincoli scelti o dati. Piuttosto, l’idea di porosità abbraccia la precarietà quale base fondamentale della realtà nella quale viviamo: l’impossibilità di conoscere l’altro pienamente e di camminare con e per le sue scarpe. Sperimentare tale impotenza comporta il farsi minore: creare vuoti affinché lo spazio di relazione diventi poroso.

“L’artista / ch’a l’abito de l’arte ha man che trema”, scrive Dante (Alighieri, 1967/1321, Par., XIII, 77‍–‍78). In questa citazione Agamben (2014, p. 9) legge un procedere tremolante, mai sicuro. Si potrebbe allora intendere questo adagio con il fatto che non può esserci un’apertura all’insegnamento che sia limitata da ruoli, manuali, pratiche consolidate o, peggio, progettazioni predeterminate. Piuttosto, occorre che tali limiti diventino essi stessi precari, come un rizoma ricco di nodi che genera occasioni per la creatività e l’invenzione degli studenti e dei docenti.

Se all’inizio di questa sezione, gli studenti erano paragonati al fuoco aristotelico, utilizzato per descrivere lo schiavo nell’antica Grecia, a seguito dell’analisi fin qui svolta si propone un altro esempio di fuoco, quello del filosofo giapponese Nishitani (2007): “il fuoco non brucia il fuoco e quindi è fuoco” (Hui, 2021 p. 203). Questa concezione, lontana dalla tradizione occidentale, implica che il fuoco non sia un oggetto distinto che “brucia” un altro oggetto, ma una relazione intrinseca. Il fuoco è utilizzato come metafora per spiegare la capacità di svuotare i ruoli e le identità e per far emergere una relazione autentica e non dualistica che, secondo Nishitani, si attua proprio nella realtà di tutti i giorni. Questa realtà è concepita come un vuoto fertile. È quindi, svuotando la realtà della pratica quotidiana da noi stessi ed insegnando come farlo ai nostri alunni, che è possibile nutrire una didattica relazionale che sia autentica.

3. Metodologia: un approccio di Ricerca-Azione Partecipata e auto-etnografica

L’approccio metodologico adottato in questo studio si ispira alla ricerca-azione partecipata e ai principi dell’etnografia collaborativa, come delineati da Campbell e Lassiter (2015), in cui la conoscenza è co-costruita tra ricercatore e partecipanti, e l’osservazione si intreccia con l’azione trasformativa. L’indagine è stata condotta in un contesto scolastico di scuola secondaria di primo grado, coinvolgendo nove classi (tre prime, tre seconde e tre terze)[4] nell’arco di due anni scolastici (2023‍–‍2025). La scelta di questo scenario è stata intenzionale per consentire una sperimentazione prolungata e l’osservazione delle dinamiche evolutive.

Il docente ha agito in funzione di ricercatore. Questo ruolo ibrido è stato gestito attraverso un’azione di riflessività costante, la cui gestione è stata oggetto di costante analisi critica, documentata nel diario di campo. Le diverse esperienze sono state riportate in un diario di bordo, utilizzato come strumento primario di auto-analisi e osservazione partecipante.

Gli strumenti per la raccolta dei dati qualitativi sono stati i seguenti:

Per coerenza con la prospettiva emancipante e liberatoria, la valutazione sommativa tradizionale è stata intenzionalmente rivista. È stata adottata una valutazione formativa e narrativa (Eisner, 1998; 2002), intesa come racconto e storia dell’apprendimento. Questo si è concretizzato attraverso:

Questi elementi sono stati discussi in colloqui individuali con gli studenti, privilegiando una comprensione qualitativa e processuale del progresso.

Si riconosce che la natura auto-etnografica e il contesto di un singolo ricercatore-docente limitano la generalizzabilità dei risultati. Tuttavia, l’intento non è produrre dati quantitativi ma offrire un’analisi qualitativa approfondita e una validazione di pratiche innovative, riconoscendone la marginalità ma valorizzandone il potenziale trasformativo per stimolare il dibattito e la ricerca futura. La metodologia qui adottata si riconosce nell’auto-etnografia partecipata, dove il docente-ricercatore si espone in prima persona, documenta e riflette sulle pratiche, e si apre alla trasformazione personale e collettiva attraverso il confronto diretto con gli studenti.

4. Pratiche di libertà: dalla progettazione porosa al docente attivista

La concezione del “no retroattivo” di Žižek (2006), insieme agli studi di Jonathan Hill (1998; 2003) e Jeremy Till (2013) sull’“architetto illegale”, ha fornito il fondamento teorico per la “didattica porosa” qui sperimentata. L’architetto illegale, secondo Hill, è una figura che “mette in dubbio e sovverte codici prestabiliti e interventi di architettura, riconoscendo che l’architettura è fatta dal suo uso e dalla progettazione” (Hill, 2003, p. 131). Questa prospettiva rompe la dicotomia tra progettista e utente, spostando il focus dall’autorità dell’architetto all’agency dell’individuo nel plasmare il proprio ambiente. Tali ragionamenti consentono di stabilire paralleli significativi con le pratiche relative sia allo studente che al docente (ad esempio, subire passivamente l’azione progettuale del docente; ignorare comportamenti e pratiche di uso della scuola; o al contrario ascoltare tali pratiche; ecc.).

Il presupposto della didattica porosa è la precarietà, intesa quale elemento alla base della vita quotidiana. Riconoscerne e apprezzarne la presenza significa aprirsi alla possibilità di quel “meraviglioso rischio” educativo proposto da Biesta (2022); significa includere la possibilità dell’errore tanto dello studente quanto del docente; nutrire l’indeterminatezza e lasciare entrare l’imprevisto; permettere che certe situazioni si disegnino da sole, nel tempo dell’incontro.

Nel contesto educativo sperimentato, il “professore illegale” è proprio lo studente che assume il ruolo di docente, diventando attore attivo e autore del sapere. Il docente, invece, svolge un’azione di attivismo interno, destabilizzando il sistema e promuovendo strategie partecipative dal basso.

Il docente-attivista, quindi:

Questa impostazione rende il processo educativo più democratico e creativo, dissolvendo la netta distinzione tra docente e discente e valorizzando l’agency degli studenti.

Un caso emblematico: nelle classi prime, la realizzazione di capitelli greci in cartone ha esemplificato la progettazione porosa. Agli studenti è stato dato il vincolo iniziale (materiale di riciclo e tipologia di capitello) ma totale libertà nella concezione formale. Questo processo, privo di istruzioni dettagliate, ha permesso agli alunni di esplorare autonomamente soluzioni per realizzare le proprie foglie d’acanto tridimensionali o le volute ioniche. Il valore non era nel ‘capolavoro’ artistico, ma nella negoziazione tra pari e con il docente (Bremmer et al., 2024), nella gestione dell’errore come tappa creativa e nella manifestazione del “rizoma” (Deleuze & Guattari, 1980), dove il sapere si è auto-organizzato in direzioni imprevedibili, sfidando la linearità della progettazione didattica tradizionale. Dal diario di campo, è emerso come gli studenti abbiano apprezzato “la libertà di sbagliare insieme ai propri compagni” (estratto dal diario di bordo, 27 marzo 2025) e il fatto che l’assenza di istruzioni li rendesse autori, con non poca fatica, di ogni fase realizzativa del proprio lavoro.

Dalla parte del docente, il lavoro è stato simile a quello di un surfista che deve “sentire” la tavola rispondere alle onde, entrare in contatto con il corpo per comprendere la direzione dell’onda. Questo tipo di attenzione abbraccia la precarietà intesa come indeterminatezza delle sollecitazioni provenienti da ogni singolo studente o gruppo di studenti. Parimenti, è un tipo di lavoro che non può più avvenire dallo scranno di una cattedra, ma scende tra i banchi e tra gli alunni. Richiede un discreto repertorio di conoscenze e competenze che spaziano da quelle disciplinari (Arte e Immagine) a quelle di geometria, matematica, tecnologia, lettere, storia, mitologia, botanica e biologia. Alcune di queste possono essere in possesso del docente, per le altre ci si può affidare agli alunni, nel loro ruolo di docenti illegali; ad esempio, durante la realizzazione dei capitelli, gli alunni hanno dimostrato autonomamente di possedere competenze in tecnologia per la costruzione delle volute o in biologia per la riproduzione delle foglie, assumendo di fatto il ruolo di “docenti illegali” per i loro pari e per il docente stesso (cfr. anche Sardelli, 2019).

Rendere la didattica porosa si traduce in un’attività che accoglie l’errore, valorizza l’imprevisto, rende l’ambiente di apprendimento un “cantiere aperto” dove adulti e studenti co-costruiscono il sapere (Biesta, 2022).

4.1. Brainstorming, debate e curriculum nascosto: esempi pratici

La stessa logica del docente-illegale sperimentata nelle prime classi è stata proposta anche nelle seconde, ma con strategie differenti. In questo caso si è fatto ricorso a pratiche di brainstorming e debate learning, in cui gli studenti hanno assunto un ruolo attivo nel suggerire al docente come affrontare i prossimi argomenti. Anche in questo caso, il ruolo del docente è stato quello di ascolto e di ricezione delle varie sollecitazioni, stimoli e proposte che venivano dagli alunni. Queste proposte sono state varie e creative, spaziando dalla creazione di giochi da tavolo, all’elaborazione di mappe digitali in forma di itinerari storici (che potrebbero essere inclusi quali compiti di realtà per un campo scuola), fino alla realizzazione di più “tradizionali” cartelloni.

Da un lato, questa modalità di relazione ha favorito la partecipazione attiva, la responsabilizzazione e la costruzione condivisa del percorso didattico, rompendo la tradizionale verticalità tra docente e discente. Dall’altro, ha portato alla luce anche una certa solitudine: dalle impressioni raccolte con gli studenti, uno dei temi ricorrenti era che “certe cose” le potessero fare solo durante le mie ore, mentre nelle altre ore si dovesse chiedere il permesso persino per bere l’acqua (annotazione dal diario di campo, 19 febbraio 2025). Dare voce agli studenti implica anche ascoltare il lato nascosto della scuola.

Accogliere il curriculum nascosto, come suggerisce Annette Krauss (2014), significa riconoscere che la scuola è attraversata da pratiche informali, strategie di resistenza e saperi non previsti dal curriculum formale presente nei vari PTOF. Il curriculum nascosto è il luogo dove si apprendono non solo subalternità e adattamento, ma anche agency, solidarietà, capacità di negoziare regole e significati. Accoglierlo significa anche assumere, agli occhi degli altri colleghi, il ruolo di docente-attivista.

Nel caso-studio, in una delle terze, l’occasione di riflettere sul concetto di “stare insieme”, attraverso la rielaborazione dell’opera di Matisse (1910) La Danza, ha preso una piega del tutto inaspettata. Invitati a riflettere sull’opera di Matisse attraverso la descrizione che Tim Ingold ne fa nel suo libro The Life of Lines (Ingold, 2015), un gruppo della classe ha concepito e proposto lo stare insieme come aiuto reciproco, identificando tale aiuto nella pratica di preparare e passarsi bigliettini durante i compiti. Da docente, è stato un momento rivelatore che si è scelto di cogliere indicando agli alunni il sito di Annette Krauss (2014), ma lasciando loro totale libertà di trasformare le proprie idee nell’artefatto che ritenessero più opportuno. Questa riflessione condivisa è stata trasformata in un “Manuale per copiare e suo significato”. Non più solo devianza da reprimere, ma risorsa per la crescita collettiva. Invece di sanzionare, si è aperto un dialogo sul perché sentissero il bisogno di copiare, esplorando le dinamiche di paura del fallimento e la solidarietà tra pari. Questo ha permesso di trasformare un atto ritenuto “illegale” in un’occasione per sviluppare la capacità di negoziare regole, di esprimere bisogni e di comprendere la solidarietà come forma di intelligenza collettiva, piuttosto che come infrazione individuale.

Dal circle time svolto in classe, l’aspetto più emblematico emerso era la fiducia che questi alunni stavano riponendo nel loro insegnante. Fiducia innanzitutto nel non diffondere con altri insegnanti, quelli con i quali si utilizzavano i bigliettini, questo manuale. La fiducia, del resto, è l’elemento che si collega strettamente con la libertà e che permette agli alunni di scoprirsi nella propria soggettività (Biesta, 2022). Questo ragionamento ci riporta all’importanza che il docente riveste e all’urgenza, espressa nelle varie sezioni di questo articolo, di un cambiamento interno senza il quale non è possibile fare spazio a situazioni come quelle descritte finora.

5. Insegnare errori: una pedagogia della disattivazione e del “Non Sapere”

Nel ragionamento che Biesta (2022) fa collegando libertà e fiducia, emerge un lato ‘nascosto’ della pratica docente, affrontato da bell hooks (2020) come la paura di mostrarsi vulnerabili e fallibili agli occhi degli studenti. Uno degli aspetti che sacrifica maggiormente la relazione tra docenti e studenti è proprio questo mascheramento dell’errore.

A tal proposito, tra le pratiche più radicali sperimentate, c’è stata quella di sbagliare deliberatamente. Ciò ha incluso sia l’omissione intenzionale di caricare compiti sul canale didattico della scuola, sia la deliberata presentazione di contenuti errati affinché fossero gli alunni stessi a correggerli.

Questo processo assume una valenza dirompente. Sul piano cognitivo, stimola il pensiero critico e la responsabilità; sul piano simbolico, rompe la logica performativa della scuola, dove il valore è misurato dalla correttezza e dall’efficienza. Qui, l’intento era duplice: da un lato, trasformare il télos dell’alunno da ‘recettore’ a ‘insegnante’; dall’altro, favorire la progressiva ‘scomparsa’ del docente come unica fonte per accedere alla conoscenza. Il sapere si costruisce insieme, e il docente si rende progressivamente superfluo per far spazio alla costruzione soggettiva dello studente.

Eticamente, questa pratica richiede una profonda fiducia nella capacità di discernimento degli studenti e una chiara contestualizzazione. Durante queste fasi di “insegnamento dell’errore”, si è stabilito un patto formativo con la classe: si è poi spiegato che l’obiettivo non era confondere, ma stimolare il pensiero critico e la ricerca autonoma della verità.

Ad esempio, nel presentare Caravaggio nelle classi seconde, sono stati intenzionalmente omessi dettagli chiave oppure attribuite a lui opere di altri artisti. Gli studenti, invitati a verificare le informazioni e a “catturare” gli errori del docente, hanno sviluppato una maggiore autonomia nella ricerca e una capacità di analisi critica delle fonti. In un altro caso, un’immagine dello street artist Banksy (2006) è stata “fatta passare” per opera del paesaggista inglese John Constable. La gestione delle reazioni è stata cruciale: inizialmente c’era spaesamento, poi divertimento e infine un senso di empowerment nel “correggere” l’adulto. Questo processo ha contribuito a demistificare la figura dell’insegnante infallibile, rendendo l’errore non un tabù ma una risorsa didattica.

Certamente, questa pratica rientra nell’ “interruzione educativa” proposta da Biesta (2022). Un tipo di interruzione che sottende e svela il potere nelle mani del docente. Ad ogni modo, come lo stesso Biesta scrive:

“Ci auguriamo che a un certo punto [gli alunni] si rivolgano a noi e riconoscano che quanto inizialmente sembrava un’interruzione indesiderata - un atto di potere - ha in realtà contribuito alla loro soggettività adulta” (Biesta, 2022, p. 32).

È proprio attraverso questa chiave di lettura che Biesta ci offre, correlata all’esempio pratico descritto qui sopra, che ci permette di inserire per contrasto un’idea di alunno che è assimilato al fuoco aristotelico descritto da Agamben (2016). Questa pratica di interruzione educativa sarebbe stata impossibile se prima non ci fosse stato alcun ‘no radicale’ (Žižek, 2006), inteso come atto che, attraverso l’esperienza dell’impotenza, risemantizza il passato e apre a nuove possibilità. Introduce altresì il ‘fuoco’ di Nishitani (2007; cfr. anche Hui, 2021), inteso non come potere che consuma l’oggetto (il ‘fuoco aristotelico’ di Agamben, che riduce lo schiavo a mera potenzialità senza enérgheia), ma come una relazione che dissolve i ruoli predefiniti, consentendo l’emergenza di un sapere co-costruito e autentico.

6. La libertà come campo relazionale e spazio del vuoto creativo

La libertà, in questa prospettiva, non è un possesso individuale ma un campo relazionale, uno spazio vuoto dove soggetti e ruoli si dissolvono e si ridefiniscono continuamente. La filosofia di Nishitani (2007; cfr. anche Hui, 2021; Rovelli 2020) offre qui un contributo decisivo. Al contrario della tradizione occidentale, Nishitani concepisce il fuoco come relazione che dissolve l’idea di un soggetto e di un oggetto subalterno ad esso. Tutto è relazione. Non c’è un “sé” separato dal suo agire – un “sé” che si possa oggettivare e quindi sottomettere o strumentalizzare. Anche in classe accade qualcosa di simile: non c’è più chi insegna e chi apprende in senso rigido; c’è solo una relazione che si muove e produce significato.

Letta attraverso questa chiave, la pratica educativa autentica nasce dalla capacità di stare nel vuoto, di accogliere l’incertezza, di riconoscere che il sapere non è un oggetto da trasmettere ma un processo che si dà solo nella relazione. La scuola, allora, può diventare luogo di libertà solo se chi la costruisce ogni giorno, docenti e studenti, imparano e insegnano ad accettare la propria impermanenza, la fragilità della conoscenza, la necessità di fallire e di riprovare (Dweck, 2006).

7. Critica, sfide e prospettive future

Le pratiche descritte, seppur efficaci a livello micro, hanno incontrato significative resistenze sistemiche. Specificamente, alcuni colleghi hanno manifestato preoccupazione per la ‘perdita di controllo’ e per la gestione di una valutazione non del tutto sommativa in un contesto ancora rigidamente ancorato a verifiche periodiche degli apprendimenti. La percezione di un programma didattico fisso – malgrado l’autonomia scolastica abbia formalmente superato tale concezione dal 2010 circa – rappresenta tuttora una barriera culturale per molti colleghi.[5]

Altri hanno manifestato resistenze a partire dall’idea stessa di non utilizzare più il libro di testo come unica fonte di studio degli alunni. La ‘non convenzionalità’ delle lezioni ha suscitato curiosità ma anche cautela tra alcune famiglie. Inoltre, la rigidità degli orari scolastici e la limitata flessibilità degli spazi scolastici hanno costituito ostacoli concreti alla piena attuazione della progettazione porosa.

Per superare la marginalità di tali esperienze, è fondamentale una trasformazione collettiva. Oltre all’innovazione nella singola aula, l’autore ha intrapreso azioni per promuovere la diffusione di tali pratiche nell’ambiente scolastico: discussioni informali con i colleghi e la condivisione di risultati preliminari. In prospettiva, si guarda alla possibilità di presentare queste pratiche in contesti collegiali più ampi, collaborare con le associazioni di genitori e promuovere la costituzione di una rete di docenti-attivisti che possano agire congiuntamente per un cambiamento culturale e strutturale del quale non si può più fare a meno.

8. Conclusioni

Partendo dalla nozione di libertà ambiguamente definita nelle Indicazioni Nazionali e dalla percepita limitazione dell’agency studentesca, questo articolo ha argomentato per una radicale riconsiderazione del ruolo docente. Abbiamo sostenuto che l’educazione alla libertà, lungi dall’essere un mero obiettivo curricolare, è una conquista fragile che richiede la disattivazione del télos docente e una profonda trasformazione degli adulti. Attraverso il modello della didattica porosa, abbiamo illustrato come pratiche quali l’emergere del ‘professore illegale’, l’accoglienza del curriculum nascosto e l’insegnamento deliberato dell’errore possano generare autentici spazi di co-costruzione del sapere e di agency condivisa. La pedagogia del vuoto di Nishitani offre un fondamento filosofico a questa visione, in cui la libertà si manifesta in un campo relazionale dinamico e non gerarchico. Nonostante le resistenze sistemiche, la marginalità di queste esperienze deve diventare una leva per una trasformazione collettiva. Solo attraverso il coraggio di rinegoziare i ruoli e di abbracciare l’incertezza, le scuole potranno davvero diventare luoghi di emancipazione e contribuire alla costruzione di una società più giusta e democratica.

Riferimenti bibliografici

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Biesta, G. (2022). Riscoprire l’insegnamento. Raffaello Cortina Editore.

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  1. Lo stesso Biesta dedica un capitolo al problema del nesso causale legato alla professione di insegnante.

  2. Questa idea di retro-causalità trova la sua applicazione pratica anche nel campo della fisica quantistica sotto il nome di “esperimenti di scelta ritardata”.

  3. In particolare, Agamben iscrive tutto il suo ragionamento all’interno di un discorso sulla creazione e sul perché delle azioni umane in una chiave di disattivazione della potenza e potenza-di-non Aristotelica.

  4. Le tre classi presentano un numero di alunni che oscilla tra i 18 e i 22 alunni, con un rapporto tra maschi e femmine pressoché paritario. Le classi sono perlopiù eterogenee e composte sia da alunni italofoni che non-italofoni, ma con un buon livello di integrazione.

  5. Auto-etnograficamente, ciò è esemplificato da un conflitto emerso tra autore e colleghi: costui, infatti, durante una fase strutturata del processo istituzionale, ha promosso un ‘non-programma’ allo scopo di sollecitare l’attenzione dei colleghi sulle competenze anziché sulla lista dei singoli contenuti trattati; tuttavia, ciò ha destato forti reazioni da parte di alcuni di loro.