Educating for Pedagogical Competence Today
Educare alla competenza pedagogica, oggi
Alessandra Gargiulo Labriola
Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, Italy) – alessandra.gargiulolabriola@unicatt.it
https://orcid.org/0000-0002-3128-0709
The issue of competencies goes beyond the practices of teaching aimed at academic performance, extending past a pedagogical culture aligned with the instrumental certification of knowledge, skills, and attitudes. It implies the ability to engage with the contexts of educational policy, where competencies can be framed as a paradigm for the pedagogical elaboration of educational responsibility. In this sense, a competence may be qualified as pedagogical when it is capable of integrating knowledge and participation, serving to outline heuristic perspectives of research with and for the people involved—perspectives that highlight the richness of the axiological dimensions of our constitutional and European values, such as citizenship and the common good. Its approach toward unexplored territories and spaces makes competence a frontier construct of the post-modern, one that never translates into a notion of possession but rather of development, framed in terms of existential proximity and attuned to possible futures. This contribution draws on a critical pedagogy towards an epistemic future of competence, invoking—through a metaphorical image—the journey of the pilgrim: one who not only undertakes a voyage to reach the place of meaning, but also, in a rare and precious act, enters into a relationship and existential proximity with real people and real things, thus initiating a genuine experience of transformation and the maturation of a responsible consciousness. This journey, within the perspective of the capability approach, situates itself within an analysis of the educational needs linked to social vulnerability, inequality, and poverty. It calls for a pedagogical effort and commitment to move away from dominant visions of history (individualism, distorted anthropocentrism, utilitarianism, extreme consumerism), in order to build a new understanding of historical, personal, professional, and social events grounded in human rights and the principles of justice, equity, equality, and an ethic not of judgment but of compassionate understanding of human dignity.
La questione delle competenze va oltre le prassi dell’insegnamento applicato al rendimento scolastico per estendersi al di là di una cultura pedagogica omologata alla certificazione strumentale delle conoscenze, capacità e attitudini. Essa implica la capacità di guardare ai contesti delle politiche educative in cui può configurarsi come un paradigma di elaborazione pedagogica della responsabilità educativa. In tal senso, la competenza può qualificarsi come ‘pedagogica’ quando può integrare saperi e partecipazione, utile a delineare prospettive euristiche della ricerca, con e per le persone interessate a mettere in luce la ricchezza delle dimensioni assiologiche dei nostri valori costituzionali ed europei come quelli della cittadinanza e del bene comune. Il suo approssimarsi a territori e luoghi ancora inesplorati, rende la competenza un costrutto di frontiera del post-moderno, che non si traduce mai in un significato di possesso, ma di sviluppo nell’ottica di una prossimità esistenziale, calibrata su futuri possibili. Il presente contributo, prende le mosse da una pedagogia critica nei confronti di un futuro epistemico della competenza, riprendendo l’idea del cammino del pellegrino, per usare un’immagine metaforica, come di colui che non solo intraprende il viaggio per giungere al luogo del suo senso, ma anche, cosa rara e preziosa, per entrare in relazione ed in prossimità esistenziale con le cose e le persone in carne e ossa, preludio di una vera e propria esperienza di mutamento e di maturazione di una coscienza responsabile. Si tratta di un cammino che, nella prospettiva del capability approach, si colloca sul piano dell’analisi dei bisogni educativi delle fragilità sociali, delle disuguaglianze e delle povertà, richiamando allo sforzo e all’impegno pedagogico di allontanarsi dalle visioni dominanti della storia (individualismo, antropocentrismo deviato, utilitarismo, consumismo esasperato) per costruire una nuova comprensione degli eventi storici, personali, professionali e sociali che fanno capo ai diritti umani fondati sui principi di giustizia, di equità, di uguaglianza, di un’etica non del giudizio ma della comprensione amorevole della dignità umana.
Dignity, Active Citizenship, Youth Distress, Hope, Life
Dignità, Cittadinanza Attiva, Disagio Giovanile, Speranza, Vita
The Author declares no conflicts of interest.
April 6, 2025
April 28, 2025
April 30, 2025
Le competenze hanno conosciuto grandi cambiamenti negli ultimi decenni, a cominciare dal tentativo delle più grandi organizzazioni intergovernative a vocazione universale come l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) di offrire, alla fine del secolo scorso, progetti per combattere la dipendenza da sostanze psicotrope, delineando un quadro ermeneutico che ponesse al centro dell’attenzione politica l’importanza di prevenire e di contrastare i danni procurati dalla dipendenza, promuovendo l’equilibrio psicofisico della persona lungo tutto l’arco della vita. Il riferimento al progetto ‘Life Skills education in school’ del 1993 mostrava chiaramente l’intenzione dell’OMS di proporre un catalogo delle competenze per la vita al fine di promuovere una cultura democratica della salute attenta ai bisogni delle persone e nell’ottica della promozione dell’intelligenza, del contrasto alle forme di bullismo nelle scuole. In questo progetto traspariva chiaramente l’importanza della prevenzione, che si traduceva nella capacità di comprendere il mondo dell’educazione alla salute situando le ‘dieci’ abilità per la vita nei contesti dell’apprendimento continuo: conoscenza di sé empatia, comunicazione assertiva, relazioni interpersonali, processo decisionale, risoluzione dei problemi e soluzione dei conflitti, pensiero creativo, gestione delle emozioni e delle sensazioni, gestione dello stress. Ulteriori tendenze, alla fine del secolo scorso, spingevano l’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, a considerare le implicazioni educative della competenza, sorrette dall’affermarsi delle teorie dell’apprendimento continuo, che suggerivano di considerare la competenza oltre le prospettive della valutazione educativa o delle prestazioni applicate alla performance dei comportamenti virtuosi dello studio nei contesti della scuola e del mondo del lavoro. In pratica, si poneva l’accento sulla necessità di risignificare la competenza alla luce di qualcosa di diverso che esortasse la comunità scientifica internazionale a pensare a un’educazione allo sviluppo (UNESCO, 2000, pp. 86–92). Di fatto, dai progetti Pisa (Programme for International Student Assessment) e dal Progetto DeSeCo (Definizione e selezione delle competenze) entrambi promossi nel 1997, emergevano i tratti pedagogici della competenza visti alla luce non solo di un’indagine semantica, ma di prospettive ermeneutiche capaci di coglierne i risvolti educativi all’interno dei contesti delle attività dei verifica triennale degli apprendimenti degli studenti quindicenni, relativamente al possesso delle loro competenze in ambito linguistico, matematico e scientifico. Inoltre, dalla lettura dei numerosi documenti prodotti dalla Commissione Europea, si può evincere che la rassegna storica evidenzia l’attenzione degli Stati sulla funzione educativa della competenza strutturalmente aderente alla formazione ai valori democratici dello Stato oltre che allo sviluppo dei temi della cittadinanza attiva delle persone nel contesto dei Paesi dell’Unione Europea (Commissione UE Gli obiettivi futuri e concreti dei sistemi d’istruzione, 14.2.2001). Senza indugiare su una considerazione delle diverse proposte, basti dire che, già agli inizi del 2000, in Europa, l’educazione alle competenze, sembrava orientarsi verso una cultura dello sviluppo umano. Una cultura che andava progressivamente affrancandosi da una concezione burocratica della democrazia nei paesi membri dell’UE, consentendo ai cittadini e alle imprese di fruire dei benefici derivanti dai progetti di cooperazione internazionale, con l’obiettivo di supportare il loro percorso di crescita e, allo stesso tempo, lo sviluppo dei diritti di giustizia, di pace, di salute e di fraternità tra tutti i popoli. Non ci dimentichiamo poi che dagli anni Novanta in poi sono stati siglati gli accordi per definire e selezionare le principali competenze da promuovere a livello politico (Global Citizenship Education: Topics and Learning Objectives, 2015). Accordi che hanno visto la caduta del Muro di Berlino (1989) e la fine dell’Unione Sovietica. Fatti storici che, coincidono con la rapida ascesa delle democrazie ma anche con una loro rapida battuta di arresto (Cavadini, 2023, pp. 42–43). A distanza di più di un quarto di secolo dal Consiglio europeo di Lisbona 24 Marzo 2000, l’idea comunitaria di una educazione alle competenze, specialmente di quelle per una educazione alla vita democratica e improntata sui valori dello Stato, permane ancora indiscussa. Oggi, per così dire, gli assunti relativi al valore dell’apprendimento permanente di tutte le fasce della popolazione e a quello che richiama alla centralità della persona intesa come “la risorsa più importante dell’Europa” (Parlamento Europeo e Consiglio, 2006), si sono talmente radicati nel tessuto culturale europeo da non essere avvertiti come un limite ma come una risorsa imprescindibile per l’identità europea. Anzi sono giunti a innervare il piano delle politiche comunitarie e, allo stesso tempo, la nostra coscienza educativa: comunitaria, economica, ecologica e civile. Tale processo, tuttavia, ancora permane nonostante il momento storico in cui gli assetti politico-ambientali dell’Unione Europea sembrano essere entrati in crisi a causa delle congiunture derivanti dagli impatti economici prima della Brexit (2016), poi della pandemia di COVID-19 (2020) e infine del conflitto russo-ucraino (2022). La dimensione educativa della competenza, quella che ha preso avvio all’interno dei contesti educativi di studio e di ricerca finanziati dal più grande pacchetto d’incentivi mai adottato dall’Unione Europea (nell’ambito del progetto NextGenerationEU) (European Union, 2025), ha comunque colmato il vuoto di un’assenza di politiche d’intervento educativo, riaffermando il valore di una riflessione pedagogica sulla certificazione delle competenze in chiave europea per l’apprendimento permanente (European Commission, 2019). Su queste esperienze esistono indicazioni alquanto significative. Alcuni esempi emblematici sono espressione di una capacità progettuale della ricerca educativa volta a indagare, ad esempio, la competenza imprenditoriale: una delle competenze chiave per l’apprendimento permanente per la piena occupazione, la cittadinanza e l’inclusione. Queste esperienze poste all’interno della scuola e del mondo universitario, hanno utilizzato i framework europei EntreComp, EQF ed EBSCO, i cui dati hanno fornito spunti di riflessione pedagogica sia sull’importanza dell’autovalutazione nei processi di certificazione (Morselli, 2025, p. 368). sia su un’interpretazione più ampia del costrutto di imprenditorialità “non più legato solo alla creazione d’impresa ma visto in un’ottica trasversale e capacitante”(Michelotti, 2021, pp. 12–28). E, dunque, la transizione da un’idea di competenza performativa di derivazione comportamentista ad una di stampo umanista ha visto poi un nuovo ingresso negli studi pedagogici dell’educazione continua (Gargiulo Labriola, 2023, pp. 73–103). Ci riferiamo al paradigma del capability approach, i cui promotori sono due figure di spicco nel panorama culturale odierno: Sen (1999) e Nussbaum (2011). Tale approccio ha condotto la riflessione pedagogica a interrogarsi su un piano euristico diverso da quello del comportamentismo per cercare di declinare la competenza dal punto di vista di un approccio allo sviluppo umano delle capacità del soggetto di combinare potenzialità [capability], di portarle a compimento nei processi educativi [functioning], sulla base delle opportunità [agency] e degli obiettivi da trasferire alle dieci capacitazioni (vita, salute…) (Alessandrini, 2014).
Questo approccio che, peraltro, Sen aveva già sviluppato negli anni Ottanta e Novanta, ha spostato la pretesa di restringere il valore educativo della competenza all’unica possibilità di educare attraverso il calcolo sedimentato della conoscenza: da un lato rispetto al valore del rendimento connesso all’insegnamento e dall’altro, dei profitti economici derivanti dell’apprendimento, tipico di una certa cultura educativa e formativa di stampo cognitivista e procedurale che ricorreva, nell’orchestrazione degli schemi complessi della conoscenza e del sapere, al raggiungimento di obiettivi educativi – come nell’opera di Bloom – con l’applicazione delle tassonomie di apprendimento di Gagnè (Gargiulo Labriola, 2023 p. 88). Addentraci nella spiegazione di queste differenze di pensiero, non porterebbe però alla scoperta che un nuovo modo d’intendere le competenze è possibile. In questa sede preme sottolineare, richiamando la prospettiva umanista del capability approach, quello che riguarda la tendenza degli ultimi anni a considerare la competenza oltre l’orizzonte scolastico e a prendere atto delle sue innumerevoli applicazioni ai fini della crescita della cultura umanista nei contesti educativi non solo formali ma anche non formali e informali.
In pratica, come scrive Margiotta, l’approccio d’ispirazione aristotelica della Nussbaum non trova il suo unico presupposto nella possibilità di spiegare la competenza negli aspetti più importanti della vita umana che riguardano la parte del profitto e dell’agire economico. Tutt’altro. Esso ha cercato di individuare questi aspetti nel riconoscimento fondamentale della capacità di realizzazione della persona in qualsiasi tipo di cultura “esortandola a superare la nozione convenzionale di expertise, nel convincimento che fosse necessario non solo imparare a pensare bene ma anche in modo equilibrato e responsabile; dunque, in modo saggio” (Margiotta, 2014, p. 57). E, dunque, vista sotto il profilo del contesto scolastico, la questione della competenza va oltre le prassi dell’insegnamento applicato al rendimento scolastico per estendersi, invece, al di là della cultura pedagogica omologata. Tale questione, si potrebbe dire, oggi si estende anche all’esplorazione delle traiettorie dell’apprendimento adulto oltrepassano le frontiere della conoscenza per riportare l’attenzione sui più ampi orizzonti dell’educazione e della ricerca in cui è implicato lo sviluppo umano: emozioni, coscienza, anima. Qui la competenza trova valore nella persona e nella sua dignità. Dunque, già solo per questo, nella dimensione valoriale del personalismo cristiano (Gargiulo Labriola, 2023, pp. 30–37), la competenza ha assunto un diverso significato, non più mercificato. In altri termini, non più al centro delle questioni di merito rispetto a una certificazione delle abilità di uno studente, ma, si potrebbe dire, di quelle di metodo avulse da un’asettica prospettiva strutturalista e funzionalistica delle sue connotazioni epistemologiche. Inoltre, quello che oggi entra in gioco, rispetto alle connotazioni scientifiche della competenza, riguarda la possibilità di considerare l’apprendimento umano all’interno di un più ampio orizzonte nel quale la competenza possa confrontarsi con il nuovo che avanza e per uscire dalla propria autoreferenzialità: nuove tecnologie, IA intelligenza artificiale, DI derivative intelligence (Derinaldis, 2025). Ciò induce a ritenere che la competenza possa delineare i suoi contesti di applicazione, fatta salva la capacità di avviare processi educativi che non intendono discostarsi dagli approcci umanistici dell’educazione, e che intendono salvaguardare l’unicità della persona sia nelle sue inedite curvature ed espressioni esistenziali sia nella sua irripetibilità di esistere per sé e per l’altro da sé anche e non solo nell’incontro con il sapere, nozionisticamente inteso. Anzi, tale visione sembra maggiormente trovare un terreno fertile e uno spazio teorico e pratico quando poniamo al centro dell’idea di una competenza pedagogica, la capacità di fare educazione come bene comune e come garanzia di dignità personale. Un modo che “presuppone processi partecipativi e generativi fondamentali per la governance democratica dell’educazione in una società in rapida trasformazione” (Unesco, 2019, p. 4).
Fin qui risulta chiaramente che il capability approach ha segnato un passo decisivo nella riconfigurazione epistemica della competenza. Nella specificità dei contesti di apprendimento della pedagogica, a cui concorrono la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro, l’associazionismo, la chiesa, i territori, tale passo ha trovato una sponda all’interno di un orizzonte che ha visto accrescere gli spazi del pensiero creativo dai quali sono emerse intenzionalmente le libere scelte dell’educando e dell’educatore innanzi ai grandi temi della vita, e sedimentati nei principi del diritto all’integrità fisica, alle emozioni, ai sentimenti, alla ragion partica, all’appartenenza, al vivere con il mondo della natura, al controllo del proprio ambiente politico e materiale (Alessandrini, 2022, p. 67). Oggi, dunque, il nostro approdo culturale riguarda puntualmente gli orizzonti educativi che vanno oltre la competenza dove ormai risulta esplicitamente che “le capacità acquisite non costituiscono soltanto un’utilità personale da scambiare sul mercato, ma un bene per la società” (Sandrini, 2021, p. 4). Qui si aprono gli spazi di una pedagogia critica che non rinuncia a intraprendere un cammino educativo e riflessivo fatto di persone in carne e ossa, bambini, giovani, adulti e anziani competenti e consapevoli della propria dignità umana. Un cammino che, sul piano dell’analisi dei loro bisogni educativi, non dimentica lo sforzo di allontanarsi dalle visioni dominanti della storia per costruire una nuova comprensione degli eventi storici, personali, professionali e sociali che fanno capo ai diritti umani. In questo senso, possiamo allora considerare le parole di Bernard Williams il quale, commentando le lezioni tenute da Sen in onore di Tanner nel 1987, ha detto che nell’arco della storia contemporanea, abbiamo tutti potuto accedere a quei saperi che nel capability approach trovano espressione in una precisa prospettiva educativa. Ovvero, una prospettiva che non lascia spazi a dubbi sulle scelte dell’individuo, quelle deliberatamente concepite nell’alveo dell’irrinunciabile prospettiva dello sviluppo umano e che riguardano il dibattito sui diritti umani. Dalle sue affermazioni possiamo comprendere effettivamente che lo spazio educativo della competenza non è liminale rispetto ai contesti standardizzati della conoscenza. Esso, piuttosto, si afferma attraverso l’espressione della libertà della ricerca educativa sui diritti umani, anche se la nozione dei diritti umani fondamentali sembra abbastanza oscura per la Nussbaum, troppo complessa da restringersi al piano globale del consenso filosofico istituzionale e che ella preferisce affrontare partendo dalle prospettive delle capacità umane fondamentali (Nussbaum, 2000, p. 113). In altri termini, un modo con il quale si può scegliere di salvaguardare la competenza, attingendo a un linguaggio appropriato a partire dalle capacità umane piuttosto che dalle prospettive dei diritti. Il modo migliore, forse, per pensare ai diritti e per vederli come capacità combinate ossia “capacità interne combinate con condizioni esterne adatte a esercitare quel particolare funzionamento” (Nussbaum, 2000, p. 115).
Ad affrancarci da un’idea performativa della competenza che a scuola non solo ci fa dimenticare l’importanza che la pedagogia e la didattica devono avere a che fare con bambini e ragazzi in carne ed anima e non con stereotipi e con i cataloghi di competenze, il capability approach è dunque servito a rimarcare il diritto non solo ad apprendere lungo tutto l’arco della vita, ma anche a non contrapporre questo importante assunto della cultura educativa allo ‘stato di salute’ dell’educazione alle competenze. Questo discorso ci induce poi ad aggiungere che, dal punto di vista della pedagogia implicita del capability approach, mettere in pratica conoscenze e abilità significa chiamare in causa la capacità di distinguere una pedagogia performativa, tutta orientata al risultato, da una pedagogia critica che ci aiuta a procedere nelle vita imparando non solo da ciò che si apprende a scuola ma da tutte le esperienze che toccano le problematiche educative della vita quotidiana e che, quindi, fanno riferimento ai propri errori, alla propria storia, alle proprie emozioni. In definitiva, alle condizioni e alle opportunità che hanno contribuito alla propria crescita per esercitare dignitosamente la soggettiva autonomia di governo innanzi alle proprie scelte di vita. E, perciò, nonostante la fase politica oggi stia portando ad una più marcata contrazione della democrazia, peraltro nelle regioni in cui il suo livello è maggiore (Cavadini, 2023, p. 43), il nostro ragionamento ci induce a considerare la competenza oltre i meri steccati dell’efficientismo educativo per guardare ai contesti delle politiche educative in cui essa possa configurarsi come un paradigma di elaborazione pedagogica della responsabilità educativa. In tal senso, la competenza si può qualificare come competenza pedagogica quando può integrare saperi e partecipazione, utili a delineare prospettive euristiche della ricerca, con e per le persone interessate a mettere in luce la ricchezza delle dimensioni assiologiche dei nostri valori costituzionali ed europei come quelli della cittadinanza e del bene comune. Nel contesto della formazione degli adulti, essa allora può essere delineata come strumento di elaborazione educativa, riflessiva e trasformativa, all’interno di un corredo di saperi e conoscenze che arricchiscono l’esperienza dell’insegnamento, un’esperienza che può essere considerata oltre la direzione dello scopo di certificare l’apprendimento degli studenti, ma più nello specifico, nell’interesse di una progettazione educativa rispettosa dell’uomo e dell’ambiente, la quale applica agli scopi di una promozione umanista, la coltivazione del capitale umano (Malavasi, 2008, p. 28).
Alla luce di queste premesse concettuali, nella profonda convinzione che non si possa affrontare il tema delle competenze senza perlustrare il terreno della ricerca educativa, si rende opportuno, nella prospettiva dell’educazione degli adulti, restituire alla competenza futuri possibili, facendo in modo che vengano alla luce fonti e temi che designano l’intenzione di adottare un approccio strategico all’educazione e alla responsabilità sociale della pedagogia. Tra tutti i possibili temi che costellano il panorama della pedagogia sociale, la nostra attenzione ricade sui seguenti: un’efficace cittadinanza attiva e una cura educativa per il disagio giovanile.
L’approccio personalistico per lo sviluppo di una corretta competenza pedagogica che vada oltre le mire di una pedagogia selettiva, quella che tende a esercitare il proprio predominio sui soggetti più fragili, non può prescindere dal porre come ambito di discussione il tema della formazione per l’integrazione delle esperienze di una cittadinanza attiva. Nell’era della post-verità, si tratta di esperienze formative che abilitano a integrare i principi democratici dello Stato rispetto a una concezione culturale dello sviluppo di un agire autonomo e riflessivo dell’essere umano e che promuovono spazi intellettuali nella vita sociale della persona di cui sono segno i diritti, i bisogni, le opportunità, i limiti e le responsabilità (Santerini, 2020, pp. 253–263). Una società che crede nei principi democratici è una società in grado di valorizzare tutti i contesti dell’educazione: famiglia, scuola, chiesa, ambiente e territori. Si tratta di contesti degni di rispetto da parte dei cittadini e dei loro corrispondenti doveri nei confronti del rispetto dei valori della cittadinanza: la persona, il lavoro, la dignità, la libertà e l’uguaglianza, la democrazia, l’etica, la legalità. Con riferimento ad essi si usa fare alcune distinzioni tra una educazione alla cittadinanza, che significa “educare intorno […] fornire conoscenze e comprensione del funzionamento della società dal punto di vista sociale, civico e politico”, attraverso la cittadinanza e per la cittadinanza che vuol dire promuovere “l’apprendimento e le abilità necessarie per partecipare alla vita della scuola e della comunità locale e per assumersi costruttivamente le relative responsabilità” (Santerini, 2020, p. 35). Tali differenze tra le diverse forme di educazione civica, presuppongono una particolare attenzione rivolta allo sviluppo del senso di iniziativa e di agency, poiché aiutano ogni soggetto a comprendere che senza una riflessione intorno al bisogno di conoscere e di educarci nei contesti dove si apprende dall’educazione alla cittadinanza tutto il resto dell’educazione è destinato a fallire. Un cittadino ideale che conosce tutte le leggi ma che non le rispetta e non le converte in norme di partecipazione “attiva” per lo sviluppo di una società più giusta, più pacifica, più solidale è un cittadino che non solo non saprà concentrarsi sulla propria maturazione personale (Mezirow, in Santerini, 2020), ma non sarà neppure in grado di stupirsi di fronte alla presa di coscienza di sé e dei propri bisogni culturali e formativi sì da saperli trasformare in forme di libera autoprogettazione dello sviluppo personale e quindi in domande consapevoli intenzionalmente rivolte alla comunità ed agli organismi in grado di produrre liberamente risposte personalizzate adatte agli adulti (Bocca, 2023, p. 34). Rimanendo “estraneo” alla vita democratica, un cittadino che non evolve culturalmente non diventerà un cittadino generativo capace di imparare ad imparare e sarà inconsapevole dell’importanza della propria partecipazione alla costruzione del bene comune. Se la cittadinanza è invece vissuta come un diritto e, soprattutto, un diritto ad apprendere, appare chiaro come una cultura della partecipazione alla vita pubblica animerà il dovere di un cittadino ideale a prendersi cura di sé e degli altri cittadini. In un sistema cosiddetto democratico, il cittadino ideale sarà quindi colui il quale si impegnerà a partecipare volontariamente allo sviluppo della comunità sociale sulla base di valori condivisi per il bene comune. Da questo impegno potranno scaturire processi virtuosi di riduzione delle diseguaglianze, atteggiamenti reali di solidarietà sociale, misure educative in alto grado per la fruibilità dei diritti e per l’impegno civico. Nota Malavasi in proposito:
“Una rinnovata semantica del civile designa la ricerca di un’autentica razionalità valoriale: i tre registri del sociale, interattivo, organizzativo e societario, non possono essere ricondotti a concezioni strumentali, ad esigenze e interessi di spartizione del potere politico ed economico. Su tutti e tre i piani, il civile è quella specifica relazione che produce nuova identità attraverso una ‘eccedenza’ che diventa condizione e oggetto di formazione umana e ricchezza economica” (Malavasi, 2020, p. 42).
In pratica, in una società nella quale il rischio di vedere diminuire la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e alla difesa del bene comune è direttamente proporzionale all’impoverimento del potenziale umano. Su questi temi e su queste fonti di studio, la competenza pedagogica diventa non solo un indispensabile strumento di elaborazione pedagogica ma anche una condizione di contesto per lo sviluppo delle capacità di educare, nell’anno del Giubileo 2025, al rispetto della dignità di ogni persona e della sostenibilità educativa, del dialogo e della partecipazione a un comune cammino sinodale (Conferenza Episcopale Italiana, 2024).
Il disagio, come termine di confronto pedagogico, è sovente rappresentato in modo confuso proprio perché, comunemente, si fa fatica a prendere confidenza con le parole e con i loro significati. Una specificazione necessaria non riguarda solo i termini afferenti al disagio evolutivo e al disagio sociale, ma concerne le categorie linguistiche con le quali, senza un’interpretazione pedagogica adeguata, il fenomeno del pregiudizio finisce per imporsi su un modo di parlare dei “ragazzi difficili”. Questa elocuzione che venne utilizzata nel 1965 da Piero Bertolini, allora direttore dell’istituto penale Cesare Beccaria di Milano, entrò a far parte della cultura educativa per identificare quei ragazzi minorenni i cui comportamenti venivano percepiti dalla società come dissonanti rispetto ad un certo modello condiviso di competenza sociale è tuttora in uso per indicare coloro che entrano in contatto con il circuito penale. All’interno di questa macrocategoria, i ragazzi possono essere considerati a rischio, devianti, disadattati, delinquenti. Per “ragazzi a rischio” si intendono tutti quei giovani che vivono in situazioni caratterizzate da carenza di ordine materiale e/o relazionale. Ragazzi che sperimentano nella loro quotidianità esperienze di insicurezza economica, di disagio abitativo insieme a forme di rifiuto o di abbandono più o meno consapevole, dovuto spesso alla presenza di figure di riferimento poco adeguate. Queste condizioni, vissute durante l’esperienza adolescenziale, in genere trovano i loro effetti nel futuro, dove l’immagine del ragazzo viene non solo percepita dallo stesso come un continuo inevitabile della sua condizione presente e passata, ma come la risposta ad un nesso causale tra determinate caratteristiche ambientali e il tasso di criminalità, una considerazione sociale che rischia in realtà di costruire percorsi delinquenziali in cui i ragazzi altro non fanno che vivere in ambienti deprivati. La cruda realtà del disagio giovanile diventa oggi fonte di un’interrogazione educativa che interpella i decisori politici a restituire valore e dignità ad ogni ragazzo e a ogni ragazza. La difficile situazione del disagio giovanile non deve più attendere. Piuttosto, deve mutuare dalla fiducia educativa quella doverosa capacità degli adulti di ristabilire i contesti di una cultura della legalità. È allora giunto il tempo di apprendere dalla sofferenza perché è più facile imparare a convivere con un disagio giovanile dilagante nella nostra società, piuttosto che, come dice Simeone,
“acquisire la capacità di includere la sofferenza e, più in generale, il limite, nel proprio disegno di vita […]. La sofferenza, infatti “è un accadimento che chiede alla persona di ridare significato alla propria esistenza e attende dagli operatori che hanno responsabilità educative la capacità di ‘so-stare’ nella sofferenza e di dare senso all’esperienza” (Simeone, 2021, p. 149).
In pratica, in nome della possibilità di distinguere ogni genere di sofferenza nel mondo giovanile, abbiamo non solo la possibilità di declinare le competenze ‘grammaticali’ della cultura dello scarto, quelle che descrivono dati e numeri dei danni alle singole vite dei nostri giovani, ma senza prendere altri provvedimenti al di fuori del mero caso che assurge alle cronache della stampa. Adottando un linguaggio che invece intende rovesciare questo ingiustificato e asettico tipo di adattamento alla sofferenza giovanile, occorre pronunciare ed evocare il Kairos di chi non rinuncerà mai a prendersi cura dei ragazzi e delle ragazze che vivono ai margini della nostra società mettendoci in cammino con loro e facendoci ‘pellegrini di speranza’ per accompagnarli lungo i sentieri della coscienza quelli che aiutano a fare silenzio e a guardarsi dentro , per ritrovare la strada della vera gioia e della felicità, non smettendo mai di imparare a sentirsi amati e non abbandonati, desiderati e non dimenticati, rispettati e non violati, rialzati e non piegati, ascoltati e non ignorati, rieducati e non giudicati.
La teoresi e la ricerca pedagogica devono avere l’ambizione di costruire una nuova e più corretta narrazione delle competenze su tutti gli aspetti di realtà, sottraendoli alle logiche dell’antropocentrismo deviato, quello che, come dice Papa Francesco, considera la persona umana solo come “un essere in più tra gli altri” (Francesco, 2015, p. 94).
Grazie al lavoro degli educatori la società ha la possibilità di crescere e di cooperare per una generatività sociale ovvero per una nuova concezione della vita umana sulla terra in cui l’opportunità di cooperare e di confrontare idee, opinioni, iniziative e modalità di intervento non sia una fonte che va ad alimentare le occasioni che fanno crescere l’idea del nemico tra le Nazioni, ma un luogo in cui potere sperimentare la ripartenza per delineare progetti educativi rivolti al dialogo fraterno, all’ascolto fraterno, all’incontro fraterno anche rielaborando l’esperienza del perdono per tutti i danni che l’uomo ha inferto al cosmo e a tutti gli esseri viventi sulla nostra terra. Mettere in pratica conoscenze e abilità significa allora chiamare in causa la capacità di distinguere una pedagogia performativa, tutta orientata al risultato, da una pedagogia critica che ci aiuta a procedere nella vita imparando non solo da ciò che si apprende a scuola, ma da tutte le esperienze che toccano le problematiche educative della vita quotidiana e che, quindi, fanno riferimento ai propri errori, alla propria storia, alle proprie emozioni. In definitiva, alle condizioni e alle opportunità che hanno contribuito alla propria crescita per esercitare dignitosamente la soggettiva autonomia di governo innanzi alle proprie scelte di vita.
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