The sports dialectic between inclusion and exclusion
La dialettica sportiva tra inclusione ed esclusione
Amedeo Giani
Università degli Studi di Torino (Turin, Italy) – amedeo.giani@unito.it
https://orcid.org/0000-0001-9511-995X
The contemporary educational and social debate is fuelled by reflection on inclusive dynamics: while schools have long been recognized as one of the main “laboratories of inclusive strategies,” sports and physical activity emerge for their intrinsic inclusive thrust and their focus on civil and social rights. Historically, sport has been involved in the construction of democratic values, but its competitive nature seems to generate an apparent paradox: inclusion and exclusion characterize sports practice, creating a dynamic that risks compromising its educational reach. The aim of this contribution is to analyse the ambivalent role of sport in inclusion, dwelling on the competitive dialectic. Through the analysis of elements such as ambition, opponent, barriers and merit, it highlights how the sports experience can offer new perspectives to rethink competition, in an attempt to imagine a particular nuance of sports inclusion.
Il dibattito educativo e sociale contemporaneo è alimentato dalla riflessione sulle dinamiche inclusive: se da un lato si riconosce da tempo nella scuola uno dei principali “laboratori di strategie inclusive”, dall’altro lo sport e l’attività fisica emergono per la loro intrinseca spinta inclusiva e per la loro attenzione ai diritti civili e sociali. Storicamente, lo sport è stato coinvolto nella costruzione dei valori democratici, ma la sua natura competitiva sembra generare un apparente paradosso: inclusione ed esclusione caratterizzano la pratica sportiva creando una dinamica che rischia di comprometterne la portata educativa. Attraverso questo elaborato si vuole analizzare il ruolo ambivalente dello sport nell’inclusione, soffermandosi sulla dialettica competitiva. Attraverso l’analisi di elementi come ambizione, avversario, barriere e merito, si evidenzia come l’esperienza sportiva possa offrire nuove prospettive per ripensare la competizione, nel tentativo di immaginare una particolare sfumatura di inclusione sportiva.
Competition, Sports inclusion, Performance, Victory, Sport
Competizione, Inclusione sportiva, Performance, Vittoria, Sport
CONFLICTS OF INTEREST
The Author declares no conflicts of interest.
RECEIVED
March 17, 2025
ACCEPTED
April 14, 2025
PUBLISHED
April 30, 2025
L’inclusione rappresenta uno dei temi più urgenti del dibattito contemporaneo. Non si tratta di certo di un tema inedito: ormai quindici anni fa Maura Striano chiariva quanto “il tema dell’inclusione” rappresentasse “un problema di significativo interesse pedagogico per una serie di implicazioni”, al punto da diventare una vera e propria “emergenza educativa” (Striano, 2010, p. 7). In quanto emergenza da affrontare con urgenza l’inclusione richiede – da parte delle diverse agenzie educative – una postura particolare: una postura, quella inclusiva, a cui è chiesto di essere attenta ai veloci cambiamenti del contesto sociale in cui viviamo.
L’attenzione sulle dinamiche inclusive si traduce in “strategie” (Gandolfi, 2010, p. 193) volte a migliorare la nostra società, a renderla più equa, più giusta e più democratica. Sicuramente, la scuola ha rappresentato e rappresenta tutt’ora un vero e proprio laboratorio (Passoni & Lorenzoni, 2023) nel quale rispondere ad una simile emergenza, disegnando strade capaci di estendere i confini dell’inclusione attuale. Tuttavia, se priva di un sostegno esterno, l’istituzione scolastica rischia di perdere quella spinta e quella capacità di agire sul cambiamento in una direzione positiva (Arpinati & Tasso, 2019). Occorre rinforzare l’educazione formale in questa sfida, e per farlo è necessario pensare a dei validi sostegni.
Tra le diverse possibilità che possano aiutare l’istituzione scolastica a promuovere una postura sempre più inclusiva vi è, senza dubbio, lo sport e l’attività fisica.
Lo sport possiede, storicamente (Bianchi, 2022), forti radici inclusive: come evidenziato dagli studi di Allen Guttmann (1978) e quelli di Elias e Dunning (1990), l’evoluzione dello sport ha giocato un ruolo chiave nel primo processo di civilizzazione. In primis, come occasione per imparare a conoscere il proprio corpo e le proprie potenzialità; poi come strumento per proporre codici comportamentali e regolamenti da seguire; infine, come pratica di autodisciplina e palestra di democrazia: lo sport ha seguito l’evoluzione della società moderna, arrivando spesso per primo a interrogarsi sui grandi temi del dibattito contemporaneo.
Tra i diversi temi, l’inclusione è sicuramente un chiaro esempio: Luca Bianchi evidenzia quanto da più di trent’anni ormai lo sport abbia previsto – in parallelo alla sua vocazione agonistica e prestazionale – una sua espressione più accessibile e inclusiva, definibile con l’espressione “Sport per tutti” (Bianchi, 2022, pp. 209-210). Il desiderio di prevedere un ulteriore sfumatura di sport, che superi le logiche prestazionali ma possa invece essere accessibile a quante più persone, è prova di quanto il movimento sia profondamente e naturalmente pensato come strumento per includere attraverso e grazie all’esperienza sportiva.
Tuttavia, lo sport è per sua natura una esperienza esclusiva. Ciò che da lontano è visto come uno strumento – in ogni modo positivo – per sostenere lo sviluppo di una postura inclusiva, da vicino sembra tradire delle contraddizioni e delle criticità: mettendo maggiormente a fuoco le dinamiche proprie dello sport, infatti, sembra emergere con forza la sua natura agonistica: lo stesso Guttmann evidenzia il ruolo del record, icona del moderno olimpismo decubertiano, che traccia una direzione chiara da seguire per ogni atleta e ogni sportivo contemporaneo.
La direzione è quella dell’eccellenza, che nello sport necessita di essere “ontologicamente” esclusiva: proprio il barone De Coubertin affermava, nelle sue Memorie Olimpiche, che “perché cento si dedichino alla cultura fisica, bisogna che cinquanta facciano sport. Perché cinquanta facciano sport bisogna che venti si specializzino. Perché venti si specializzino bisogna che cinque si mostrino capaci di grandi prodezze” (de Coubertin, 2014, p. 207).
La natura bifronte dello sport è allo stesso inclusiva ed esclusiva. Se da un lato lo sport apre possibilità inedite, grazie all’esperienza vissuta spesso sotto forma ludica (Fink, 1969), dall’altro le limita, prevedendo graduatorie e classifiche: I migliori, nello sport, sono espressione di ἀρετή, di quell’eccellenza che incarnava i valori olimpici presenti nell’antica Grecia. Un’eccellenza che si traduceva nello sport ma nasceva dall’imitazione dei grandi eroi: nel XXIII libro dell’Iliade, in occasione dei giochi funebri di Patroclo, Agamennone vince la gara del lancio del giavellotto senza effettuare alcun lancio, ma la sua superiorità atletica è data per scontata solamente in merito del suo status di eroe. La concezione omerica di ἀρετή - o, più precisamente, di ἀριστεία - è chiaramente agonistica e può essere ben sintetizzata in un’espressione che ricorre frequentemente in Omero: “aien aristeuein kai upeirochon emmenai allon” - ossia “essere il migliore e superare gli altri” – concetto che viene ripetuto due volte nell’Iliade: ai passi 6, 208 e 11, 784.
Questa apparente contraddizione potrebbe alimentare un qual senso di disorientamento: da un lato le attività sportive potrebbero non risultare pienamente inclusive; dall’altro il rischio potrebbe essere quello di non voler nemmeno provare ad allestire dinamiche sportive pensate per favorire l’inclusione.
Da che cosa potrebbe essere dato questo disorientamento? Tra i vari elementi caratteristici dello sport, ad essere quello maggiormente in grado di generare e alimentare una simile sensazione di disorientamento potrebbe essere la competizione: l’agonismo è il cuore della pratica sportiva; la competizione, infatti, sembra avere la capacità di compromettere la portata inclusiva dello sport (Pellai & Pellai, 1998).
L’aspetto competitivo svela quella che sembra essere la criticità maggiore dell’attività sportiva: includere e allo stesso tempo selezionare; stabilire una graduatoria finale ma garantire egual dignità ad ogni partecipante. Giocare e quindi fare sport non possono non fare i conti con l’idea di vittoria: seguendo il pensiero di Stefano Bartezzaghi, nel gioco e nello sport “l’oggetto di valore è la vittoria in sé”, ed è pertanto richiesto ai giocatori di “realizzare” la loro “volontà di vincere”, pensata come anima dell’intera scena agonistica (Bartezzaghi, 2024, pp. 32–35). In che modo può quindi realizzarsi una dinamica realmente inclusiva?
Di fronte ad una simile criticità, diventa necessario mettere maggiormente a fuoco i tratti della competizione e la loro relazione con gli aspetti legati all’inclusione, nel tentativo di chiarire se lo sport possa essere un’esperienza effettivamente inclusiva.
In questa direzione, si potrebbe tentare di ricostruire la competizione in una particolare chiave di lettura: la competizione potrebbe nascere da una condizione scandita dall’ambizione personale; potrebbe trovare compimento e vivere attraverso una relazione tra due elementi particolari, l’avversario e la barriera; in ultimo, potrebbe muoversi verso una direzione definita, che potrebbe essere rappresentata dal concetto di merito.
L’ambizione, quale forza propulsiva primaria, rappresenta la condizione di possibilità dalla quale potrebbe nascere una competizione.
Competere diventa quindi, per certi versi, necessario: la scelta di mettersi in gioco riflette una spinta naturale e insita nell’essere umano a sfidarsi, a misurarsi con gli altri e con sé stesso, nel tentativo di migliorare la propria posizione e di affermare la propria identità in un contesto che riconosca e valorizzi tale impegno. In questo senso, la competizione nasce in seguito al riconoscimento del bisogno profondo di autoaffermazione, di confronto e di verità (Isidori, 2020), che trova nello sport un terreno strutturato e regolato in cui misurarsi.
L’indole competitiva non si manifesta in quanto scelta imposta dall’esterno; non descrive una risposta predeterminata ad uno stimolo; non nasce in seguito a una caratteristica o un comportamento altrui. Si tratta bensì di una necessità intrinseca che accompagna l’individuo nella ricerca di un equilibrio tra desiderio di crescita personale e riconoscimento sociale. La necessità di competere, quindi, è espressione di una tensione che si inscrive in un processo di continua ridefinizione del sé e delle proprie capacità in un contesto che ne confermi il valore (Bartezzaghi, 2024). In quest’ottica, l’essere umano è ontologicamente chiamato a migliorarsi, ad eccellere, o – in termini freiriani – ad “essere di più” (Freire, 2022, p. 48).
L’ambizione, infatti, rappresenta la traduzione di una simile vocazione in un progetto di vita. L’ambizione nasce dal riconoscimento della propria natura competitiva, ma è impegnata ad allestire le condizioni per permettere alla propria identità di avere la possibilità di raggiungere una condizione sempre migliore.
La competizione si articola, grazie alla tensione data dall’ambizione, tanto nel piano della significatività dei fini quanto in quello dell’efficacia degli obiettivi: la competizione data da una progettualità che preveda obiettivi da raggiungere (che siano tanto raggiungibili quanto sfidanti), si colloca in una direzione di senso data una finalità pensata come causa per la quale valga la pena vivere. L’atleta ambizioso non si confronta con gli altri solo per ottenere un riconoscimento, ma per costruire una traiettoria personale che testimoni la sua crescita, in cui ogni sfida rappresenta un tassello di un progetto più ampio. L’ambizione si nutre quindi della dimensione del sogno, quella visione ideale che trascende la realtà e offre uno scopo ultimo.
L’ambizione trova compimento nella scena competitiva grazie alla relazione tra due elementi fondamentali: l’avversario e la barriera.
Che sia concreto o metaforico, l’avversario allestisce il terreno della scena competitiva. Lo sport abitua al confronto: si può dire di avere vinto unicamente dopo aver battuto qualcuno o qualcosa. È possibile mettersi alla prova attraverso la relazione con un avversario, inteso non solo come rivale da superare, ma anche come un’occasione per migliorarsi, per crescere, per scoprire nuove capacità e per trovare nuovi traguardi. L’avversario diventa risorsa nel momento in cui, grazie alla sua semplice presenza, ogni atleta è chiamato a uscire dalla propria zona di comfort, a impegnarsi in modo serio nella speranza di non rimanere mai indietro rispetto a nessuno. In questo modo, egli non solo rende la competizione possibile, ma la arricchisce, offrendo all’atleta un punto di confronto costante che accende la motivazione e spinge a ridefinire continuamente i propri obiettivi e i propri limiti. Eppure, la stessa figura assume allo stesso tempo una valenza diametralmente opposta: l’avversario è, in ogni esperienza sportiva, il principale ostacolo che si frappone tra l’atleta e il raggiungimento del suo obiettivo. L’avversario, infatti, non è solo il mezzo attraverso cui si realizza la sfida: egli rappresenta anche la minaccia di una possibile sconfitta, la possibilità concreta che il percorso di crescita e di autodeterminazione possa misurarsi con un limite. Di fronte a un avversario più forte o meglio preparato, l’atleta può trovarsi a confrontarsi con un proprio fallimento, con la delusione di non aver raggiunto gli obiettivi prefissati, e questo può far vacillare la sua motivazione, portandolo persino a mettere in dubbio il senso della propria esperienza sportiva.
La figura dell’avversario diventa così un confine tra successo e fallimento, tra spinta alla crescita e possibile disillusione. La sua presenza, mentre offre una via di confronto e miglioramento, rappresenta anche un costante promemoria dei limiti e delle fragilità personali, costringendo l’atleta a rivedere continuamente la propria identità in una logica dettata dal binomio vittoria-sconfitta. Senza un avversario non vi sarebbe competizione, ma grazie ad esso ogni sfida diventa anche un’opportunità per riconsiderare sé stessi e il proprio percorso.
La figura dell’avversario allestisce la scena competitiva attraverso la relazione con il secondo elemento, ossia la barriera: lo sport è al contempo aperto e limitato da barriere che ne definiscono i confini, rendendolo un’esperienza intrinsecamente inclusiva ed esclusiva. Tra queste barriere, si possono individuare tre principali categorie: fisiche, sociali e culturali, ciascuna delle quali influenza direttamente l’accesso, la pratica e il successo all’interno del mondo sportivo.
Le barriere fisiche sono quelle legate al corpo e alla sua capacità di rispondere alle esigenze richieste da una specifica disciplina. Ogni sport prevede determinati requisiti di prestanza, resistenza o abilità fisica che non tutti possono possedere allo stesso livello. Pensati in quanto requisiti, tali valori immaginano suddivisioni volte ad includere quanti più atleti all’interno di categorie uniformi e omogenee; tuttavia, proprio gli aspetti fisici delineano spesso una linea di accesso che, di fatto, esclude chi non possiede tali caratteristiche, per genetica o disabilità. In questo senso, la barriera fisica diviene una sorta di filtro, che favorisce alcuni individui mentre ne limita altri, creando una forma di selezione intrinseca dettata già da fattori antropometrici.
A queste barriere si aggiunge poi la dimensione sociale. Il contesto economico può influenzare profondamente l’accesso allo sport, poiché l’allenamento, l’attrezzatura e la partecipazione a competizioni richiedono risorse non sempre alla portata di tutti. L’esperienza sportiva ci restituisce la definizione, avvenuta progressivamente nel corso degli anni, di sport più accessibili e sport sempre più elitari: spesso coinvolti in prima linea in progetti rivolti ad una massima inclusione possibile, i primi, nel tentativo di sfruttare la facilità di accesso e di fruizione della propria disciplina; i secondi, cercando soluzioni per limitare l’impatto della barriera economica sulla possibilità di accedere all’attività sportiva. Inoltre, la possibilità di emergere nello sport è spesso vincolata all’accesso a strutture adeguate, allenatori qualificati e supporto economico che permettano di dedicare tempo e impegno a una disciplina. In molti casi, l’ambiente sociale e le opportunità economiche determinano la possibilità di dedicarsi allo sport in modo professionale o anche solo di riservargli una parte significativa della propria vita.
Infine, esiste una barriera culturale che riflette norme, valori e aspettative sociali intorno allo sport. In alcuni ambienti socioculturali, la pratica sportiva è incoraggiata sin dall’infanzia e sostenuta dalla comunità come un valore fondamentale (Svennson, 2023); in altre, invece, può essere percepita come secondaria rispetto ad altre attività considerate più rilevanti. Anche le aspettative legate al genere, all’età e alla tradizione influenzano chi ha l’opportunità di intraprendere un percorso sportivo. In alcuni casi, pregiudizi culturali quali stereotipi possono escludere individui o interi gruppi dall’accesso a determinate discipline, limitando così la partecipazione a una fascia ristretta di persone. In riferimento al genere, per esempio, la riflessione su quanti e quali cambiamenti sono stati possibili nel mondo dello sport è ricostruita chiaramente da Maria Canella e Sergio Giuntini, che sottolineano la trazione al maschile già nel primo disegno decoubertiano, caratterizzato da “una misoginia che, durante tutta la sua permanenza ai vertici del Comitato internazionale olimpico (CIO), sino al 1925, fece sì che la presenza femminile ai Giochi fluttuasse da un minimo dello 0,94% (1904) a un massimo del 4,39% (1924)” (Canella & Giuntini, 2019, p.11).
Proprio nelle ambivalenze di avversario e barriera, che oscillano tra essere tanto risorse quanto ostacoli, viene definita l’essenza più profonda della competizione sportiva: un’esperienza che, paradossalmente, non può che essere inclusiva ed esclusiva allo stesso tempo.
Se la competizione nasce in risposta ad uno spirito ambizioso e vive nella relazione dei concetti di avversario e barriera, una possibile direzione potrebbe essere rappresentata dalla soddisfazione del merito. Il merito è un ulteriore concetto in grado di esaltare l’ambivalenza dello sport come fenomeno inclusivo ed esclusivo, e potrebbe essere pensato come espressione del valore attribuito al talento, all’impegno e al successo, stabilendo così una gerarchia basata sui risultati.
Il talento individuale tende spesso a rappresentare il punto di partenza sul quale si costruisce la narrazione sul merito sportivo: un insieme di capacità – spesso considerate innate – che rende alcuni individui particolarmente predisposti per una determinata disciplina. Questo aspetto intrinseco fa sì che il talento diventi un elemento naturalmente selettivo: la competizione sportiva viene narrata spesso nella sua crudeltà, quasi ontologica (Margiotta, 2018). Nonostante allenamento e dedizione, lo sport disvela spesso quanto i grandi campioni riescano a superare limiti grazie a qualcosa fuori scripta, separando inevitabilmente chi sembra essere destinato[1] all’eccellenza da chi, pur volenteroso, si trova a confrontarsi con un divario spesso incolmabile. Il talento, in tal senso, sembra essere una forza che allo stesso tempo attrae e dall’altro respinge: apre le porte a coloro che possiedono qualità eccezionali, consentendo loro di distinguersi e affermarsi, ma chiude le stesse porte a chi, nonostante la forza di volontà, non riesce a esprimere lo stesso livello di capacità.
Accanto al talento, l’impegno rappresenta una componente essenziale del merito sportivo, una forza che trasforma le potenzialità in realtà attraverso la disciplina, il sacrificio e la perseveranza (Olivieri, 2019). Come risposta attiva al talento, l’impegno rappresenta la volontà dell’atleta di superare i propri limiti e di migliorarsi costantemente. A differenza del talento, l’impegno sembra invece narrare di uno sport accessibile a chiunque sia disposto a investire energie e tempo nella propria crescita. Grazie all’impegno l’attività sportiva diventa realmente aperta a tutti coloro che scelgono di dedicarsi con passione e costanza. Anche l’impegno può rivelarsi una forza selettiva, dal momento che elementi come la pazienza, la dedizione e il sacrificio possono non essere alla portata di tutti. Tuttavia, resta fortemente la percezione di quanto sia possibile un’educazione all’impegno e alla costanza che possa riguardare l’attività sportiva; motivo per cui vi è la possibilità di estendere l’orizzonte e includere quindi nel percorso la presenza di sportivi meritevoli – perché impegnati! – a prescindere dalle loro condizioni di partenza.
Infine, il successo rappresenta l’eventuale coronamento del merito sportivo, la concretizzazione degli sforzi e delle capacità che si manifestano in un risultato tangibile e verificabile. Il successo è incarnato dalla vittoria, come obiettivo di ogni atleta impegnato in una competizione. Una vittoria non priva di fallimenti, ma intesa come il segno distintivo di chi ha saputo combinare talento, impegno e competenze individuali per emergere e affermarsi (Crepaz, 2022). Proprio la natura della vittoria, tuttavia, sembra avanzare ulteriori componenti di esclusività volti a separare nuovamente i partecipanti coinvolti nell’attività sportiva: nello sport la vittoria non è garantita a tutti, qualora quest’ultima fosse intesa come un risultato numerico o un’unità di misura. Per permettere di mantenere quella spinta pedagogica propria della competizione, occorre lavorare sulle diverse sfumature che possano aprire il successo a significati diversi (Bartezzaghi, 2024): sperimentare nuove forme di successo, tramite una vittoria che possa basarsi su parametri individuali, intimi e misurati sulle proprie capacità potrebbe essere la chiave per rendere il merito davvero inclusivo. La sfida è immaginarsi, nell’uscita da una competizione, uno sportivo sempre di successo: per quanto la vittoria sia effettivamente esclusiva se pensata in termini di classifica finale, gli aspetti pedagogici della competizione emergono nel momento in cui il successo possa essere misurato attraverso la prospettiva del singolo individuo coinvolto, nella possibilità data a chiunque di sperimentare la vittoria.
Non a caso, infatti, si è parlato di soddisfazione del merito: la soddisfazione rappresenta il piacere intrinseco derivante dall’esperienza stessa del confronto. Questa forza si radica nell’esperienza, nella gratificazione che scaturisce dal mettersi in gioco e dall’esprimere il proprio potenziale, ma senza mai dimenticare il risultato come traguardo che conferisce senso alla sfida.
La competizione, in questo caso, assume una dimensione appagante, in cui il valore risiede tanto nel raggiungimento di risultati o vittorie, quanto nella testimonianza del percorso. In ambito sportivo, infatti, la soddisfazione in una competizione è sicuramente data dall’energia vitale di ottenere una vittoria; a questa forma di piacere, tuttavia, si aggiunge anche la gioia di poter testimoniare in un singolo gesto tecnico l’incessante impegno, l’infinita fatica e gli innumerevoli sacrifici fatti prima di quel momento. È conferma di essersi allenati correttamente, di aver intrapreso intenzionalmente una strada che necessita di essere, usando termini arendtiani (Guarcello, 2020), gustata fino in fondo.
La competizione così ricostruita – nata dall’ambizione, vissuta tra avversario e barriera e rivolta a godere pienamente del merito – evidenzia quanto la dialettica tra inclusione ed esclusione sia una delle dinamiche proprie dell’esperienza sportiva.
Proprio a partire dal riconoscimento di questa dialettica, sembra emergere una particolare sfumatura del significato di inclusione che riguarda nello specifico l’attività sportiva; lo sport non sembra essere infatti realmente e pienamente inclusivo, laddove si faccia riferimento ad un concetto di inclusione pensato nella sua interezza. D’altro canto, lo sport potrebbe rappresentare un’importante possibilità inclusiva laddove fosse immaginata una particolare forma di inclusione.
Tale configurazione di inclusione rimanda allo sport immaginato come una possibile garanzia verso tutti coloro che lo praticano. Questa garanzia è la dinamica che esplicita la dialettica tra inclusione ed esclusione che caratterizza la scena sportiva; che cosa viene garantito dallo sport, grazie alla sua particolare struttura competitiva?
In primo luogo, tale garanzia non è da intendersi come una garanzia di successo: se infatti si fa riferimento unicamente a questo particolare della competizione, appare evidente quanto non vi possa essere davvero inclusione nello sport. La vittoria finale non è garantita a tutti i partecipanti. La garanzia, in questo caso, sembra essere paradossalmente il contrario: solamente il primo è il vincitore, lasciando ai restanti partecipanti la divisione di una sconfitta. Seguendo il pensiero di Bruno Ballardini (2016, p. 9), “beati i primi perché saranno i primi”.
In secondo luogo, lo sport non può garantire a tutti i partecipanti di misurarsi esattamente alla pari: nonostante possa sembrare quasi una contraddizione, appare illusorio pensare uno sport che possa essere inclusivo perché davvero in grado di limitare le disuguaglianze e porre tutti i partecipanti di fronte alle medesime barriere. La garanzia, in questo caso, appare nuovamente in senso contrario; vi sarà sempre qualcuno con più risorse, fisiche, economiche o sociali, a competere con qualcuno più svantaggiato già in partenza.
L’inclusione sportiva è garanzia di poter trovare e frequentare uno spazio esperienziale preciso: tale spazio, lo sport appunto, permette a tutti i partecipanti di sperimentare una particolare forma di uguaglianza. In questa direzione si esprime l’inclusione nello sport: è possibile, infatti, allenare una particolare postura, che è garantita dalla natura stessa dell’attività sportiva. Questa postura “mette alla pari” attraverso due azioni garantite a tutti: rilanciare continuamente ed esercitare interesse verso sé stesso.
Lo sport permette di allenare una postura che impegni la persona in un’attività di rilancio continuo. La garanzia propria dell’inclusione sportiva fa riferimento alla capacità propria dello sport di fare entrare i partecipanti di una competizione in un mondo con caratteristiche proprie e particolari, caratterizzato da una spinta particolare: la spinta a migliorarsi, a essere di più, a rilanciare. Tale particolare postura è garantita dalla dinamica sportiva: essa pone sullo stesso piano i diversi giocatori, siano essi dilettanti o professionisti, principianti o esperti, disabili o normodotati. Lo sport include tutte le diverse volontà di rilanciare, di sfidarsi, di mettersi alla prova in attività nelle quali la posta in gioco possa essere più o meno evidente. Questa spinta al rilancio è il manifesto della cultura sportiva: ricercare con forza il piacere non solo di vivere un’esperienza, ma di viverla al meglio.
Inoltre, l’inclusione sportiva è garanzia di una postura che sia attenta a non essere una postura qualsiasi: non si tratta unicamente di prendere parte ad una gara, un campionato o un allenamento, seguendo le tracce del famoso motto olimpico. Lo sport garantisce una partecipazione che eserciti costantemente interesse verso la formazione di sé, della propria identità e del proprio carattere. La passione per una particolare disciplina sportiva è testimonianza della natura animativa dello sport; il carattere più profondo del potenziale umano viene esercitato da un’attività sportiva che non lascia indifferenti perché impegnati in qualcosa che interessa intimamente. L’interesse promosso dallo sport guarda alla sfera personale, intima, privata, nonostante necessiti della dinamica competitiva e di confronto per venire alla luce ed essere messo a fuoco.
La postura garantita dall’inclusione sportiva guarda al rilancio e all’interesse in una dimensione che non sembra appartenere alla vita ordinaria: lo sportivo ha la possibilità di esercitare questa postura in una prospettiva permanente, che non preveda un unico tentativo o un’unica occasione ma che possa contare sulla possibilità di esercitarsi continuamente senza timore di poter fallire.
Chiarisce a tal proposito Roberto Farné:
“Lo sport ci insegna un altro concetto interessante sul tema della selezione, cioè che non è mai definitiva: puoi essere il migliore quest’anno, ma non è detto che lo tu lo sia l’anno prossimo. Se osserviamo i bambini che competono in un gioco, e ricordiamo quando noi giocavamo da bambini, succede a chi perde di chiedere al vincitore “mi dai la rivincita?”. Il significato di questa richiesta e io riconosco che tu hai vinto, che sei stato più bravo di me, ma tu hai vinto perché io ho giocato con te. E allora “mi dai la rivincita” vuol dire “dammi un’altra possibilità”. Se un bambino chiede la rivincita, normalmente l’altro la concede, sia perché gli piace giocare, sia perché ha vinto e quindi si sente forte. Quando ci si ritrova per un’altra partita, può succedere che il bambino che prima aveva perso, ora vinca e allora sarà il suo avversario a chiedergli la rivincita, e poiché lui l’ha concessa la volta precedente, ora si aspetta che il suo avversario faccia altrettanto. Questo procedimento, che ha le caratteristiche di un rituale ludico, insegna un concetto molto importante di etica sportiva: che non esiste mai l’ultimo gioco, quello definitivo, per cui il gioco è sempre all’insegna della “leggerezza”. E insegna a non tirarsi mai indietro, ad accettare la sfida come confronto aperto, basato sulla reciprocità” (Farné, 2022, p. 65).
Lo sport si configura, dunque, come l’esperienza umana dove esiste la possibilità di esprimersi grazie alla competizione: non per annullare le differenze o livellare i risultati, ma per offrire a ciascuno una prospettiva di trasformazione. La sua inclusività non si misura nella garanzia di un successo universale, ma nella possibilità di esercitare una particolare postura che eserciti al rilancio e all’interesse verso di sé. La competizione sportiva si rivela quindi come un processo di scoperta e ridefinizione del sé, in cui ogni passo – vittoria o sconfitta – contribuisce a costruire una narrazione personale ricca di significato.
Garantire la possibilità di partecipare, di fallire e quindi di rilanciare testimonia un’immagine di inclusione che tenta di rispondere alla vocazione ontologica propria dell’essere umano, che Paulo Freire restituisce nell’imperativo di “essere di più”. In questa tensione tra il già dato e il possibile, lo sport svolge una funzione emancipatrice, invitando ciascun individuo a vivere ogni esperienza come un’occasione per ridisegnare costantemente il proprio orizzonte.
Questa garanzia di rilancio può permettere alla competizione sportiva non solo di essere percepita come davvero inclusiva, ma di essere ripensata quale importante strumento educativo, in grado di misurarsi con la complessità del nostro tempo e di essere coinvolta nel processo di definizione delle singole identità umane.
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[1] In questo senso, proprio la narrazione ricopre un ruolo fondamentale: per sottolineare le qualità, di natura quasi divina, di alcuni atleti eccezionali, non è raro il collegamento tra destino e capacità soprannaturali. Così, uno dei più grandi giocatori di pallacanestro della storia, LeBron James, è universalmente riconosciuto come the Chosen One, il prescelto. Carlo Vanzini, nota voce italiana dell’automobilismo, ha coniato un soprannome simile per quello che a suo avviso poteva essere uno dei piloti di Formula Uno più iconici dei nostri giorni: Charles Leclerc è Il Predestinato, a sottolineare la possibilità che esista un disegno tra le stelle a certificarne le qualità sopraffine.