‘At school with the body’, or why it is (still) necessary to reintegrate the body-mind dichotomy in formal educational settings
‘A scuola con il corpo’, o del perché è (ancora) necessario ricomporre la frattura corpo-mente nei contesti educativi formali
Chiara Borelli
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Alma Mater Studiorum Università di Bologna (Italy) – chiara.borelli4@unibo.it
https://orcid.org/0000-0002-1043-5425
Although numerous examples of good practices and didactic innovations exist, the Italian school system is still often characterized by a rigid separation between mind and body—where the latter is rendered almost entirely invisible—as well as between learning and movement, serious time and play time. This fragmentation deprives students of essential experiences for harmonious development, which integrates knowledge, self-expression, and interpersonal relationships. It is necessary to deconstruct the idea of school as a Panopticon of disembodied minds, and to recompose the dichotomous fractures that run through it. In this regard, outdoor education—among other approaches—offers meaningful insights, revealing itself in a Bertinian sense as “inattuale”, while promoting psycho-physical well-being, authentic learning, and meaningful relationships. However, for this shift in perspective—one that re-centers the body and experiential dimension within education—to be effective and systemic, it cannot rely solely on the efforts of individual teachers. Substantial financial investment, redesign of educational spaces and materials, targeted policy interventions, and a renewal of university-level teacher training are all required.
Sebbene esistano numerosi esempi di buone pratiche e innovazioni didattiche, la scuola italiana è ancora spesso segnata da una rigida separazione tra mente e corpo – con una quasi totale invisibilità di quest’ultimo – nonché tra apprendimento e movimento, tempo serio e tempo ludico. Tale frammentazione priva studenti e studentesse di esperienze fondamentali per una crescita armonica, che integri conoscenze, espressione di sé e relazioni interpersonali. Occorre decostruire l’idea della scuola come un Panopticon di menti disincarnate, ricomponendo le fratture dicotomiche che la attraversano. In tal senso, l’educazione all’aperto – tra altri approcci – offre spunti significativi, rivelandosi bertinianamente inattuale e favorendo benessere psicofisico, apprendimenti autentici e relazioni interpersonali. Tuttavia, affinché questo ribaltamento di prospettiva che rimette corpo e dimensione esperienziale al centro della scena educativa risulti effettivo e sistemico, non può gravare solo sugli insegnanti: sono necessari ingenti investimenti economici, riprogettazione di spazi e materiali, politiche mirate e un rinnovamento della formazione universitaria.
School, Body, Emotion, Relation, Outdoor
Scuola, Corpo, Emozione, Relazione, Outdoor
The Author declares no conflicts of interest.
March 5, 2025
April 15, 2025
April 30, 2025
“Noi teniamo gli scolari in iscuola compressi tra quegli strumenti degradanti il corpo e lo spirito che sono: il banco, e il premio e i castighi esteriori, al fine di ridurli alla disciplina dell’immobilità e del silenzio, per condurli dove? Purtroppo, per condurli senza scopo. Si tratta di travasare meccanicamente il contenuto di programmi nella loro intelligenza. [...] Veramente oggi s’impone come bisogno urgente il rinnovamento di metodi per l’educazione e per l’istruzione: chi lotta per questo, lotta per la rigenerazione umana” (Montessori, 1909/1970, p. 19).
“Il primo incontro con la scuola elementare rappresenta per quasi tutti i bambini […] una specie di trauma” (Colombo, 1974, p. 41)[1].
A sorprendere nelle due citazioni riportate non è il contenuto, quanto piuttosto la datazione delle opere: si tratta di riflessioni elaborate rispettivamente più di cento e più di cinquanta anni fa. Eppure, all’alba del 2025 risuonano ancora così attuali che sorge spontaneo concludere che in tutti questi anni non molto sia cambiato nel modo di fare scuola.
Non sono pochi gli esempi di buone pratiche, di insegnanti in costante messa in discussione e miglioramento, di rinnovamenti di varia natura, di scuole che si impegnano ad applicare le direzioni suggerite dalle ricerche scientifiche e dalle teorie pedagogiche, come dimostrano, a titolo meramente esemplificativo, le molteplici esperienze raccolte dal progetto di ricerca-azione Avanguardie Educative di INDIRE. Eppure, prendendo in considerazione la maggioranza dei contesti scolastici italiani, non sembra vi sia stato un cambiamento sufficientemente radicale e diffuso nelle pratiche didattiche quotidiane.
In molti casi le aule scolastiche e le modalità con cui vengono gestite ancora ricordano la tanto nota quanto inquietante immagine del Panopticon di Bentham descritto da Foucault (1975/2014), nella misura in cui la finalità principale sembra essere quella di esercitare il potere e il controllo sugli/sulle alunni/e, calando ordini dall’alto, ostacolando le relazioni tra pari e sorvegliando (Orsi, 2017), piuttosto che favorire gli apprendimenti e lo sviluppo di competenze personali e sociali per la vita (Sala et al., 2020).
Nella maggior parte dei casi gli edifici scolastici sono caratterizzati da limiti materiali legati a spazi e arredi inadeguati, che disincentivano eventuali spinte a organizzare diversamente l’esperienza educativa, anche a causa di possibili questioni di sicurezza, intesa sia come rischio reale che come vincolo burocratico-istituzionale: per quanto non si possa e non si debba “morire di sicurezza” (Farné, 2014, p. 15), si tratta di elementi che condizionano le possibilità materiali delle/degli insegnanti.
Questi ostacoli e limiti concreti e istituzionali, allo stesso tempo, non sembrano sufficienti a spiegare la tanto diffusa abitudine a immobilizzare, ignorare, controllare e disciplinare i corpi a scuola: quali sono gli assunti pedagogici sottostanti a tali pratiche? Quali impliciti risiedono nel curricolo nascosto (Kentli, 2009) della maggior parte dei/delle docenti e dei contesti scolastici? Quale idea di istruzione, di educazione, di alunno/a e di insegnante guida queste scelte?
Se, infatti, si concepisce il processo di insegnamento-apprendimento come un mero trasferimento di conoscenze da parte di un soggetto più esperto – al centro del percorso didattico in quanto figura attiva e responsabile della dinamica di insegnamento – verso un discente-vaso-vuoto in atteggiamento di passiva ricezione, non si potrà che strutturare il contesto in modo da immobilizzare i corpi per direzionare l’attenzione sul(l’unico) detentore del sapere. Se si pensa alla scuola come a un luogo dedicato esclusivamente all’insegnamento (da in-signo, cioè “imprimere segni”) e non anche e soprattutto all’educazione (da e-duco, ossia “tirar fuori”), l’organizzazione della giornata scolastica si limiterà a concretizzarsi in un susseguirsi di nozioni riversate sugli studenti, senza considerare la globalità dell’alunno/a in quanto essere umano. Se si considera l’istruzione solamente come trasmissione di conoscenze, difficilmente si riuscirà a dare valore al ricco e prezioso bagaglio di esperienze e vissuti degli/delle studenti come punto di partenza su cui costruire nuovi apprendimenti, e raramente si presterà attenzione allo sviluppo globale dei giovani essere umani che frequentano le scuole, ai loro bisogni emotivi, relazionali, sociali.

Figura 1. Storica vignetta di F. Tonucci per il Movimento di Cooperazione Educativa (Alfieri, 1974, p. 10).
Come ben evidenziato dalla storica vignetta di Tonucci (Figura 1) per il Movimento di Cooperazione Educativa (Alfieri, 1974, p. 10) si è a lungo ritenuto – e ancora si pensa – che a scuola il corpo non serva. La poca considerazione della dimensione corporea all’interno di quella che rimane l’istituzione educativa per eccellenza è basata sull’idea che corpo e mente siano entità separate.
L’ottica disgiuntiva all’interno della scuola è ben sintetizzate anche dalla famosa poesia di Loris Malaguzzi, che è anche una dura critica all’istituzione e alla visione adultocentrica dell’educazione:
“Il bambino è fatto di cento. / Il bambino ha cento lingue, cento mani, cento pensieri, cento modi di pensare, di giocare e di parlare cento sempre cento, modi di ascoltare, di stupire di amare, cento allegrie per cantare e capire, cento mondi da scoprire, cento mondi da inventare, cento mondi da sognare. / Il bambino ha cento lingue (e poi cento cento cento) ma gliene rubano novantanove. La scuola e la cultura gli separano la testa dal corpo. / Gli dicono: di pensare senza mani, di fare senza testa, di ascoltare e di non parlare, di capire senza allegrie, di amare e di stupirsi solo a Pasqua e a Natale. / Gli dicono: di scoprire il mondo che già c’è e di cento gliene rubano novantanove. / Gli dicono: che il gioco e il lavoro, la realtà e la fantasia, la scienza e l’immaginazione il cielo e la terra, la ragione e il sogno sono cose che non stanno insieme. / Gli dicono insomma che il cento non c’è. Il bambino dice: invece il cento c’è” (Malaguzzi, 1993).
Questa visione – che non riguarda dunque solo il dualismo gerarchico mente-corpo, ma anche diversi altri elementi come cultura-natura, uomo-donna, essere umano-animale non umano… – è profondamente radicata nella cultura cosiddetta occidentale. Come noto, tuttavia, non è sempre stato così: nei testi omerici, ad esempio, soma e psiche non sono posti in opposizione. È con Platone che emerge una svalutazione del corpo, visto in contrasto con la mente e ridotto a un mero meccanismo, a una prigione. Successivamente, Cartesio accentua questa frattura separando nettamente res cogitans da res extensa: con il suo “Cogito ergo sum”, sancisce in modo netto e indiscutibile la divisione tra mente e corpo, tra cognitivo ed emotivo, tra ragione e sentimento, tra cultura e natura (Manuzzi, 2002).
La spaccatura cartesiana, secondo Capra (2005), “può essere vista come la causa fondamentale di tutte le crisi attuali, sociali, ecologiche e culturali” (Capra, 2005, p. 25).
Nonostante pensatori come Nietzsche, che ritiene che la ragione risieda nel corpo, o come Merleau-Ponty, che afferma di essere il suo corpo (considerandolo, pertanto, non come qualcosa di esterno, ma parte integrante dell’essere umano), abbiano cercato di scardinare questa prospettiva, gran parte del pensiero occidentale è rimasto profondamente ancorato alla visione dualista introdotta da Platone e Cartesio, che ha posto la mente in posizione di supremazia rispetto al corpo (Manuzzi, 2002).
Il nostro sistema scolastico, pertanto, non ha fatto altro che rispecchiare e applicare questa visione disgiuntiva; in particolare, la riforma Gentile ha contribuito a radicare una distinzione tra saperi teorici e competenze pratiche, una dicotomia che ancora oggi fatichiamo a superare e che ha
“relegato l’attenzione alla dimensione corporea all’ora di educazione fisica […]. Si è consolidata un’idea di educazione del corpo da praticare nelle ore di ginnastica, in palestre che non sembrano prevedere più di tanto l’uso del pensiero riflessivo (a qualcuno mai in palestra è stato chiesto di scrivere, ripensare e connettere corpo e mente, azione e emozione, gesto e pensiero?) accanto a un’idea della mente da coltivare nelle aule, in spazi in cui i corpi sembrano diventare superflui e ingombranti, poiché rumorosi e disturbanti l’aula silenziosa e composta del pensiero” (Manuzzi, 2002, p. 62).
D’altra parte, fino qualche decennio fa, la sedentarietà e la staticità vissute all’interno della scuola erano controbilanciate dalla presenza di attività extrascolastiche intrise di movimento, relazioni tra pari non vigilate dall’adulto, possibilità di gestire tempi e spazi in modo autonomo e flessibile. Ultimamente, invece, a causa dei cambiamenti avvenuti nel quadro di macro-processi quali l’industrializzazione, il sopravvento dell’economia capitalista, l’urbanizzazione e le relative conseguenze a livello di organizzazione sociale e culturale che hanno caratterizzato le società occidentali, l’infanzia subisce sia nello spazio scolastico sia in quello domestico e sociale una pressoché totale impossibilità di movimento, con una conseguente deprivazione esperienziale dal punto di vista della motricità, della sensorialità e della socialità (Farné, 2018).
Sul piano educativo e didattico, la separazione tra corpo e mente risulta fuorviante, poiché genera false convinzioni, quali l’idea che il corpo non abbia un ruolo significativo – o addirittura centrale, specie in certe fasi dello sviluppo – nei processi di apprendimento, o la concezione secondo cui la mente sia confinata esclusivamente nella testa (Contini et al., 2006). Manuzzi (2002, 2006) lo spiega in modo puntuale:
“‘La mente non è nella testa’ scrive Varela. […] Ogni attività mentale è necessariamente incorporata e implicata nel mondo, ogni processo di pensiero è diffuso in tutto il corpo e i tessuti neuronali presentano i segni di tali esperienze vissute […]. Il processo cognitivo è incarnato nell’azione corporea e i processi mentali e corporei emergono insieme” (Manuzzi, 2006, pp. 77–85).
Il fondamentale e centrale concetto di esperienza in Dewey (1938), il ciclo dell’apprendimento esperienziale teorizzato da Dewey e successivamente ampliato da Kolb (1984), l’interconnessione tra movimento e cognizione già compresa da Montessori (1949/2023) e ampliamente confermata dai recenti studi neuroscientifici (Politi, 2023; Fabri & Fortuna, 2020), le articolate riflessioni portate avanti dalle correnti delle scuole nuove e dell’attivismo pedagogico (cfr. Makarenko, Decroly, Cousinet, Freinet, Carolina e Rosa Agazzi, Ferrière, Claparède)… sono solo alcune delle numerosissime teorie e ricerche in ambito pedagogico e psicologico che da più di un secolo ribadiscono la centralità della dimensione corporea ed esperienziale nell’apprendimento.
L’etimologia stessa del termine “apprendere” suggerisce un’azione dinamica, un’interazione attiva con l’ambiente, piuttosto che una condizione passiva e ricettiva. Eppure, nella maggior parte dei contesti educativi persiste l’erronea convinzione che si impari utilizzando esclusivamente il cervello e, al più, un paio di sensi per ricevere le informazioni: l’udito per ascoltare l’esperto/a insegnante e la vista per osservare non certo il mondo attorno, ma solamente la lavagna e il libro di testo.
Questa mancata comprensione del ruolo fondamentale del corpo nell’apprendimento ha portato, tra le altre conseguenze, a una netta separazione tra apprendimento e svago, con la creazione di una distinzione rigida tra tempo serio e tempo ludico (Manuzzi, 2002). Il tempo serio richiede corpi disciplinati, controllati, immobili, silenziosi, composti, affinché la mente possa concentrarsi sui contenuti da assorbire, come se l’attenzione dipendesse dalla staticità fisica e non dal benessere o dal piacere di imparare. Di conseguenza, il tempo di lavoro diventa un momento di totale immobilità, contrapposto a un tempo di svago-sfogo in cui, dopo essere stati repressi, i corpi sono autorizzati a liberare l’energia accumulata. Questo sfogo rischia, tuttavia, di trasformarsi in una sorta di esplosione incontrollata; altre volte, invece, la libertà concessa è fortemente limitata da regole con scopo contenitivo come “non correre”, “non sudare”, “fai attenzione”, “vai più piano”. A causa della repressione prolungata del gesto motorio, rischiano di emergere comportamenti eccessivi o disordinati che possono portare anche a conseguenze pericolose, rendendo il tentativo di controllo un vero e proprio boomerang: paradossalmente, la ricerca di ordine e sicurezza attraverso l’immobilizzazione dei corpi durante le ore di lezione può avere l’effetto opposto, da un lato rivelandosi inefficace nel disciplinamento dei corpi e dall’altro privando l’esperienza di apprendimento della parte ludica ed esperienziale.
“Questo movimento perpetuo mediante il quale il bambino s’esprime, in una ricerca permanente di relazione con gli oggetti e con gli altri, questo bisogno irrefrenabile deve pur avere un significato, una ragione d’essere, una finalità nella sua evoluzione. [...] Perché i bambini hanno bisogno di ‘ricrearsi’? È perché li si distrugge? ... Noi sogniamo una scuola ove il bambino non ha più bisogno di ricreazione...” (Aucouturier & Lapierre, 1978, p. 6).
Occorre, pertanto, superare una visione di corpo e movimento come ostacoli all’apprendimento, come problematici elementi di distrazione che devono essere disciplinati e repressi, e invece riconoscerli come fonti vitali per il processo di crescita e per il benessere complessivo. È fondamentale riconoscere e valorizzare il legame di interdipendenza positiva tra corpo e apprendimento.
Come già intuiva Socrate, che era solito insegnare peregrinando, e come confermano oggi gli studi neuroscientifici sull’embodied cognition (Wilson et al., 2021), non è vero che la mente apprende in modo statico e passivo, separata dal corpo: l’apprendimento avviene attraverso il corpo stesso e l’esplorazione attiva che esso rende possibile; corpo e movimento non ostacolano il processo di apprendimento, ma al contrario lo arricchiscono.
In questa prospettiva, insegnare significa creare ambienti di apprendimento che mettano al centro il/la discente e il suo corpo in movimento, un corpo che apprende esplorando, interagendo, relazionandosi con il mondo che lo/la circonda. Non solo: nel predisporre contesti di apprendimento, occorre anche riconoscere l’importanza degli aspetti emotivi e relazionali che si esprimono attraverso il corpo e il suo movimento (o in esso rimangono repressi in assenza di condizioni adeguate).
“‘State fermi, state zitti!’, quante volte lo si sente ripetere a scuola, ma perché i bambini hanno questa forte spinta al movimento, che cosa fanno, facendolo? Perché uno scarto così forte tra questa loro propensione e una relazione educativa tanto impegnata a trattenere? Che cosa tratteniamo? Che cosa gli stessi adulti educatori dovrebbero mettere in movimento? Come funziona questo movimento? Che nesso tra questo e le emozioni? Tra questo e gli apprendimenti e le padronanze? Che c’è dietro una abilità motoria, dietro una schiena curva, una inibizione al gioco o una iperattività?” (Manuzzi, 2002, pp. 51–52).
L’importanza delle emozioni nei processi di apprendimento è oggi ampiamente riconosciuta, anche grazie al supporto dei risultati di ricerca nell’ambito della cosiddetta warm cognition, che offrono prove concrete di questa connessione profonda (Lucangeli, 2019):
“Le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni: se un bambino impara con curiosità e gioia, la lezione si inciderà nella memoria insieme alla curiosità e alla gioia. Se impara con noia, paura, ansia, si attiverà l’alert: la risposta della mente trasmetterà il messaggio ‘Scappa da qui, perché ti fa male’” (Lucangeli, 2019, p. 19).
Non è, tuttavia, sufficiente limitarsi a riconoscere l’importanza delle emozioni come funzionali all’apprendimento: il mondo emotivo degli studenti/esse merita attenzione in sé e per sé. “I corpi sempre più urlano nel silenzio e dicono di sé attraverso sintomi, voci, gesti, divenuti violenti” (Manuzzi, 2006, p. 65): il malessere di alunni e alunne si manifesta attraverso segnali corporei più o meno evidenti.
“Un bambino ‘aggressivo’, ‘intollerante’, ‘invadente’, ‘che non rispetta le regole’, ‘strano’, ‘perso’, ‘disordinato’, ‘che rifiuta le consegne didattiche’, ‘che rifiuta la comunicazione’, ‘che non vuole diventare autonomo’, ‘inibito’ […] crea naturalmente una situazione di rigetto e di insofferenza in chi lo riceve. […] Di fronte a un bambino che ‘sta male’ […] anche l’adulto sta male a sua volta, perché questo è il normale modo di comunicare a livello umano quando sono in ballo dei contenuti di ordine emotivo” (Nicolodi, 2008, pp. 20–21).
Spesso, ciò che è manifestato attraverso la via corporea comportamentale non viene interpretato come indicatore di bisogni più profondi, anche a causa della visione dualista che separa corpo e mente e che porta a considerare il secondo come un semplice contenitore, un involucro, una struttura marginale (Nicolodi, 2008). Pertanto, a scuola il corpo è spesso ignorato, in quanto non viene visto come un corpo vissuto, nel senso husserliano di Leib: il corpo vivente, che rappresenta l’essere, intrecciato con la vita (Leben) e l’amore (Liebe). Invece, il corpo degli/delle studenti è percepito come Körper, un organismo oggettivato, qualcosa da incasellare e immobilizzare nei banchi per lasciare spazio esclusivamente alle funzioni considerate alte. È urgente riconoscere e valorizzare i Leib degli studenti e delle studentesse, i loro corpi vivi, emotivi, portatori di identità e possibilità di relazione: lo sviluppo e l’apprendimento non possono avvenire nella frammentazione tra mente, corpo ed emozioni, ma richiedono l’integrazione delle diverse parti di sé.
I corpi seduti in quei banchi non sono involucri, sono corpi vissuti e come tali vanno trattati, ed è con essi che è necessario relazionarsi. In termini concreti, ciò significa offrire agli/alle studenti l’opportunità di vivere il proprio corpo, di muoverlo e usarlo nell’ambiente di apprendimento, trovando un equilibrio personale, un benessere autentico, e costruendo relazioni con gli altri.
“I fanciulli sono soffocati nelle espressioni spontanee della loro personalità come esseri morti e stanno fissi al posto rispettivo, sul banco, come farfalle infilate in uno spillo” (Montessori, 1909, p. 10). La staticità influisce profondamente sulle possibilità espressive degli studenti. Se si considera l’alunno non come un vaso vuoto da riempire, ma come un fuoco da accendere, non lo si può posare su una mensola immobile: è indispensabile offrire spazio e ossigeno per muoversi, esprimersi e crescere. L’idea prevalente di scuola come luogo di trasmissione di contenuti, unita a una visione dell’apprendimento come ricezione passiva, lascia poco o nessuno spazio per l’espressione individuale. Occorre riconoscere che il processo di apprendimento è strettamente connesso alla rielaborazione attiva e personale delle esperienze e dei contenuti didattici, che passa anche attraverso la possibilità di esprimersi.
Come suggerito da Vygotskij (1978) e dalle teorie di stampo sociocostruttivista, l’apprendimento maggiormente efficace non avviene in solitudine, ma nella relazione, attraverso lo scambio, il confronto, la dissonanza cognitiva e il supporto reciproco (scaffolding). Oltre ad essere funzionale all’apprendimento, la relazione ha chiaramente un valore intrinseco, fondamentale per la vita stessa. Ma come si possono instaurare relazioni autentiche in ambienti rigidi, dove i corpi sono confinati nei banchi e dove l’interazione tra pari è scoraggiata? La lezione frontale prevede la sola interazione con l’adulto e limita drasticamente lo scambio tra studenti; l’impossibilità di movimento, che impedisce di modulare lo spazio tra sé e l’altro/a, ostacola la spontaneità relazionale e limita la costruzione di rapporti significativi.
Purtroppo, sembra che non si riesca a mettere in pratica una visione di scuola alternativa a quella che tiene gli studenti inchiodati ai banchi, come farfalle fissate con uno spillo. Anche le rare occasioni dedicate alla creatività e al movimento – come l’ora di arte o di educazione motoria – rischiano di ridursi a esercizi di mera riproduzione di opere o schemi motori, perdendo la possibilità di divenire autentici spazi espressivi. Inquadrare ogni attività didattica in schemi rigidi e preconfezionati obbliga gli alunni e le alunne a percorrere l’unica strada del pensiero convergente, inibendo la ricerca e la creazione di altri modi di interpretare la realtà e di relazionarvisi, soffocando la creatività e l’espressività di ciascuno/a.
Sono molteplici e diversificate le proposte educativo-didattiche che possono contribuire a (ri)mettere il corpo al centro del processo di educazione formale: dalle strategie di riorganizzazione del contesto scolastico e della didattica come Scuola senza zaino (Orsi, 2017), all’utilizzo intelligente e interattivo delle tecnologie dell’informazione; dalle varie tecniche di narrazione, alla didattica laboratoriale figlia dell’attivismo pedagogico (che il Movimento di Cooperazione Educativa continua a mantenere vivo e attuale); dalla Pedagogia del corpo (Gamelli, 2011), all’educazione all’aperto.
Senza la presunzione di offrire soluzioni definitive e con piena consapevolezza della complessità legata alla trasformazione e alla messa in discussione delle abitudini didattiche, si intende concludere la presente riflessione evidenziando in particolare le potenzialità dell’educazione all’aperto[2], un approccio esperienziale che – attraverso la delocalizzazione dell’insegnamento rispetto al tradizionale contesto dell’aula scolastica – invita a rivedere (a volte ribaltandole) le strategie didattiche, e offre occasioni per usare il corpo, apprendere in modo attivo, esprimersi, relazionarsi ed emozionarsi.
L’educazione fuori dall’aula è considerabile “inattuale” (Bertin, 1977, p. 5) a diversi livelli: se l’attuale è frenetico, tecnocratico, antropocentrico, iper-urbanizzato, individualista… l’educazione esperienziale outdoor (e soprattutto nature-based) rappresenta un antidoto a tutto ciò (Borelli, 2021a).
“L’attuale è dominio del pensiero sulla corporeità, è figlio del cogito ergo sum e della separazione netta tra corpo e mente che vede la prima in una posizione dominante. L’educazione in natura è corpo. È sperimentare i propri limiti attraverso il corpo, è sentire il caldo e il freddo e le intemperie e il bel tempo sulla propria pelle e nelle ossa, è fare fatica e sentire i muscoli e i tendini e come questi reagiscono ai vari sforzi a cui li si sottopone, è la terra sotto le unghie, è sentire il corpo dell’altro. Il corpo in natura è un corpo attivo, vivo, che sperimenta, prova, impara, percepisce, suda, trema, tocca, si relaziona, si sporca le mani (in tutti i sensi)” (Borelli, 2021a, p. 122).
I primi esempi di scuola all’aperto si riscontrano in Europa già nell’Ottocento e poco dopo anche in Italia (D’Ascenzo, 2018), e avevano inizialmente finalità igienico-mediche, che progressivamente si sono modificate in direzione di istanze sempre più pedagogiche. L’idea alla base dell’approccio definito come Outdoor Education o, più recentemente, Learning Outside the Classroom LOtC (Beames & Higgins, 2011) o Education Outside the Classroom EOtC (Barfod & Bentsen, 2018), è che fuori dall’aula si possano attuare apprendimenti più autentici, coinvolgenti ed efficaci.
Decenni di ricerche scientifiche a livello internazionale hanno mostrato gli effetti positivi dell’educazione all’aperto in contesti sia scolastici che extrascolastici[3] su:
· Salute fisica, benessere e stili di vita;
· Salute psicologica;
· Competenze personali, responsabilizzazione e leadership;
· Competenze relazionali e sociali;
· Connessione con la natura e sensibilità ecologica;
· Risultati scolastici (Coventry et al., 2021; Fang et al., 2021; Fiennes et al., 2015; Mygind et al., 2019; Nguyen et al., 2022; Peng, Lau, 2023; Prince, 2020; Wicks et al., 2022).
L’ambiente esterno (naturale e/o urbano), infatti, offre ampi spazi per il movimento, facilita apprendimenti concreti in ambienti autentici (che prevedono, ad esempio, situazioni di problem solving, di rischio controllato…), favorisce le relazioni grazie ad una minore strutturazione degli spazi e dei tempi, stimola il pensiero divergente e creativo.
Inoltre, prendendo in considerazione soprattutto le esperienze didattiche nature-based, si può riscontrare anche un miglioramento della concentrazione: secondo l’Attention Restoration Theory (Kaplan, 1995), l’affaticamento mentale e la capacità di concentrazione possono migliorare immergendosi in ambienti naturali. Nei contesti scolastici viene solitamente richiesta un tipo di attenzione focalizzata, che richiede al cervello di inibire costantemente gli stimoli distrattivi, portando ad uno stato di affaticamento cognitivo. Gli ambienti naturali, essendo intrinsecamente stimolanti, favoriscono invece un tipo di attenzione che si può definire diffusa, e per questo facilitano il ripristino delle energie cognitive. L’esposizione ad ambienti naturali favorisce, dunque, un funzionamento cerebrale più spontaneo e meno dispendioso in termini energetici, permettendo così al cervello di recuperare e di ristabilire la propria capacità di attenzione focalizzata.
Negli ultimi anni di crisi economiche, sociali, sanitarie e ambientali, l’educazione esperienziale fuori dall’aula, e in particolare in ambienti naturali, è stata individuata – insieme ad altre strategie educative e didattiche – come un importante “anticorpo pedagogico” (Borelli, 2021b, p. 212) durante la pandemia da COVID-19, e come un dispositivo efficace anche in contesti emergenziali (Gigli et al., 2022).
Riconoscere il valore dell’ambiente esterno, allo stesso tempo, non significa trascurare la necessità di ripensare gli spazi interni, che restano centrali nel processo di apprendimento. L’attenzione verso l’esterno dovrebbe, piuttosto, stimolare una riorganizzazione dell’aula affinché studenti e studentesse abbiano la possibilità di muoversi, apprendere e interagire in modo maggiormente spontaneo. Se il modello panottico si è dimostrato nocivo persino nei contesti carcerari, diventa imprescindibile ripensare l’ambiente educativo in modo che il corpo – Leib – non sia ignorato, ma valorizzato come elemento centrale del processo formativo. L’obiettivo dovrebbe essere quello di creare una continuità dinamica tra l’interno e l’esterno: spazi in cui i corpi si muovono liberamente, interagiscono e apprendono senza soluzione di continuità.
Le esperienze fuori dall’aula, insieme a una revisione dell’idea di scuola, di studente e di apprendimento, possono contribuire a ricucire la frattura tra corpo e mente che nega l’unitarietà dell’essere umano. Questa trasformazione è possibile solamente se implementata a livello sistemico: la responsabilità del cambio di paradigma auspicato in queste pagine non può e non deve ricadere esclusivamente sul corpo docente. Occorre una rivoluzione contemporaneamente dall’alto e dal basso, che da una parte preveda politiche, investimenti economici e linee guida che permettano una reale riorganizzazione dei contesti, e dall’altra parte veda l’entusiasmo e il desiderio di cambiamento di docenti che credono che scuola e dimensione esperienziale, apprendimenti e corpo, indoor e outdoor non siano elementi incompatibili (ma che fanno esplodere le potenzialità proprio nella loro integrazione).
Un aspetto centrale è quello della formazione dei professionisti e delle professioniste della scuola, che spesso sembra ancora perpetrare modelli educativi e didattici basati su un’idea di mente che sta nella testa, su poco spazio da dedicare alle emozioni e all’espressività, e su ambienti di apprendimento rigidi:
“La preparazione delle figure professionali in campo educativo, interamente passata alle università, avviene dentro un contesto culturale e strutturale ancora poco sensibile alla molteplicità dei linguaggi, a una didattica capace di accogliere, già solo nella predisposizione degli spazi e dei tempi, prima ancora che nei programmi, una domanda di formazione corporea capace di mettere in gioco concretamente le emozioni e i sensi di tutti” (Gamelli, 2011, p. x).
È, pertanto, necessario e urgente riconoscere la responsabilità delle università e degli enti di formazione, così come del sistema di welfare e delle scelte politiche ed economiche, sia nel promuovere determinate visioni di scuola, sia nel predisporre le condizioni materiali che permettano di attuarle.
Se il problema è sistemico, la soluzione deve essere collettiva.
Alfieri, F. (Ed.). (1974). A scuola con il corpo: Quaderni di Cooperazione Educativa 8. La Nuova Italia.
Antonietti, M. (2020). Il potenziale inclusivo dell’educazione in natura. In D. Ianes & H. Demo (Eds.), Non uno di meno. Didattica e inclusione scolastica (pp. 44–53). FrancoAngeli.
Antonietti, M., Bertolino, F., Guerra, M., & Schenetti, M. (Eds.). (2022). Educazione e natura: Fondamenti, prospettive, possibilità. FrancoAngeli.
Aucouturier, B., & Lapierre, A. (1978). La simbologia del movimento. Edipsicologiche.
Barfod, K., & Bentsen, P. (2018). Don’t ask how outdoor education can be integrated into the school curriculum; ask how the school curriculum can be taught outside the classroom. Curriculum Perspectives, 38, 151–156. https://doi.org/10.1007/s41297-018-0055-9
Beames, S., Higgins, P., & Nicol, R. (2011). Learning outside the classroom. Routledge.
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[1] Questa seconda citazione è tratta da un saggio all’interno del volume denominato “A scuola con il corpo” (Alfieri, 1974) – richiamato nel titolo del presente contributo – elaborato dal Movimento di Cooperazione Educativa negli anni Settanta.
[2] Non è questa la sede per approfondire dettagliatamente le caratteristiche e le potenzialità di un ambito di studio e di pratiche tanto ampio e diversificato come quello dell’educazione all’aperto, ma si rimanda ai testi dei principali autori e autrici che se ne sono occupati negli ultimi anni in Italia, tra cui, a titolo esemplificativo e non esaustivo: Antonietti, 2020; Antonietti et al., 2022; Bertolino & Guerra, 2020; Bortolotti, 2019; Farné et al., 2018; Farné & Agostini, 2014; Guerra, 2015, 2020; Schenetti, 2022; Schenetti et al., 2015.
[3] Per approfondire i possibili ambiti di intervento, si vedano: Gigli et al., 2020; Gigli & Borelli, 2024.