Knowledge at the Intersection of Economy and Culture: University Facing the Challenge of Transdisciplinarity

 

Il sapere tra economia e cultura: L’università e la sfida della transdisciplinarità

 

Manuele De Conti

Università degli Studi Carlo Cattaneo (Varese, Italy) mdeconti@liuc.it

https://orcid.org/0000-0003-4777-732X

 

ABSTRACT

In recent decades, Italian and European educational policies have progressively prioritized technical and scientific disciplines over the humanities, in response to economic and employment-driven logics. This orientation is reflected in greater funding allocated to scientific fields and in the limited integration of the humanities within technical curricula. Such disciplinary separation contributes to the fragmentation of knowledge, hindering the understanding of a complex reality. This article examines the evolution of educational policies and the gradual marginalization of the humanities, offering a critical reflection on the transdisciplinary academic model. This model, grounded in the overcoming of compartmentalized knowledge, calls upon the university to enhance the connection between science and the humanities, with the aim of fostering a critical and holistic education – one capable of addressing contemporary challenges and of reclaiming the university’s role as an educational, cultural, and social institution.

 

Negli ultimi decenni, le politiche educative italiane ed europee hanno progressivamente favorito le discipline tecnico-scientifiche rispetto a quelle umanistiche, rispondendo a logiche economiche e occupazionali. Questo orientamento si riflette in finanziamenti maggiori per i settori scientifici e nell’integrazione limitata delle discipline umanistiche nei curricula tecnici. Tale separazione disciplinare contribuisce alla frammentazione del sapere ostacolando la comprensione di una realtà complessa. Questo articolo analizza l’evoluzione delle politiche educative e la progressiva marginalizzazione delle discipline umanistiche soffermandosi, anche in modo critico, sul modello accademico transdisciplinare. Tale modello, fondato sul superamento della compartimentazione del sapere, invita l’Università a valorizzare la connessione tra scienza e umanesimo, con l’obiettivo di promuovere una formazione critica e globale, capace di affrontare le sfide contemporanee e di riscoprire il proprio ruolo di istituzione educativa, culturale e sociale.

 

KEYWORDS

Fragmentation of knowledge, Transdisciplinarity, Complexity, University, Humanities

Frammentazione del sapere, Transdisciplinarità, Complessità, Università, Discipline umanistiche

 

CONFLICTS OF INTEREST

The Author declares no conflicts of interest.

 

RECEIVED

January 22, 2025

 

ACCEPTED

April 6, 2025

 

PUBLISHED

April 30, 2025

 


 

1. I finanziamenti alle discipline tecno-scientifiche

 

Le politiche scolastiche europee negli ultimi decenni sono state sempre più orientate a promuovere le materie scientifiche sopra quelle umanistiche in tutti i cicli di istruzione. Ad esempio, le Linee guida, per le discipline STEM, ossia Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica, promuovono il rafforzamento di tali discipline, a partire dai servizi educativi. Esse, infatti, sono finalizzate ad introdurre:

 

“Nel piano triennale dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche dell’infanzia, del primo e del secondo ciclo di istruzione e nella programmazione educativa dei servizi educativi per l’infanzia, azioni dedicate a rafforzare nei curricoli lo sviluppo delle competenze matematico-scientifico-tecnologiche e digitali legate agli specifici campi di esperienza e l’apprendimento delle discipline STEM, anche attraverso metodologie didattiche innovative” (MIM, 2023).

 

Tale traguardo era già presente in nuce nel documento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 2015 Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile che ha l’obiettivo di aumentare considerevolmente, entro il 2030, il numero di giovani e adulti con competenze specifiche, anche tecniche e professionali, per l’occupazione (ONU, 2015, Target 4.4).

Sul versante universitario i progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale (PRIN) vedono allocati finanziamenti complessivamente più che doppi per i macrosettori delle Scienze della vita (LS) e Scienze fisiche, chimiche e ingegneristiche (PE) rispetto alle Scienze sociali e umanistiche (SH). A titolo esemplificativo, il Decreto Direttoriale n. 1409 del 14/09/2022 mette complessivamente a disposizione dei macrosettori LS e PS, per la linea di intervento principale, l’importo di € 117.600.000,00 mentre € 50.400.000,00 è l’importo disposto per i progetti afferenti alle Scienze sociali e umanistiche (MUR, 2022).

Ai molteplici enti, finanziamenti e impulsi dedicati alla ricerca nelle materie scientifiche, o all’incentivazione delle immatricolazioni in lauree scientifiche (Cf. MUR, 2023, August 8), e che non è obiettivo della presente riflessione elencare, si aggiungono le proposte di sensibilizzazione e orientamento delle ragazze nelle materie STEM. Scuole, università e fondazioni, almeno fin dal 2016 e in misura sempre più significativa, attualizzano questo orientamento con corsi di formazione o con l’assegnazione di borse di studio anche in collaborazione con il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri e in accordo con il Piano d’azione per l’istruzione digitale, azione 13 (European Commission, 2023a).

Benché si possa argomentare a favore dell’utilità dei percorsi scientifici per la formazione e educazione della persona e del suo inserimento sociale, le motivazioni grazie alle quali viene promossa l’educazione scientifica sono, a livello istituzionale, quasi esclusivamente di carattere economico. L’iniziativa European Education Area (EEA), che si propone di aiutare gli Stati membri dell’Unione Europea a collaborare per costruire sistemi di istruzione e formazione più resilienti e inclusivi, specifica questo concetto chiaramente:

 

“L’Unione europea (UE) deve far fronte a una carenza di qualifiche, soprattutto nelle discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In particolare le donne sono sottorappresentate in questi settori. Inoltre, stanno emergendo nuovi fabbisogni in termini di competenze a seguito delle transizioni verde e digitale attualmente in corso. L’UE deve intervenire per garantire uno sviluppo costante delle competenze in modo da poter rimanere economicamente competitiva a livello mondiale” (European Commission, 2023b).

 

L’EEA prosegue, in riferimento all’espressione «economicamente competitiva», dichiarando che “L’UE ha bisogno di una forza lavoro qualificata per raggiungere la massima produttività e garantire una costante innovazione nell’odierna economia sempre più globalizzata.” (European Commission, 2022).

Non raramente l’attenzione alle discipline tecnico-scientifiche è motivata sulla base della carenza di competenze che gli studenti italiani manifesterebbero in tale area. Ad esempio, i risultati del Programma PISA del 2018 – Programme for International Student Assessment –, ossia la più estesa indagine educativa a livello internazionale a cui partecipano gli studenti provenienti da più di 80 diversi Paesi, evidenziano che gli studenti italiani hanno ottenuto un punteggio medio nelle prove di scienze al di sotto della media dei paesi OCSE (OECD, 2018). E tale risultato si ripresenta anche nella rilevazione PISA 2022 (OECD, 2022). Tale ragionamento però merita degli approfondimenti e risulta in parte circolare. Infatti, l’indagine TIMMS 2019 – Trends in International Mathematics and Science Study –, che monitora l’efficacia educativa in Matematica e Scienze in più di 60 Paesi, dichiara che gli studenti italiani hanno ottenuto in scienze un punteggio in linea con quello medio internazionale (IEA, 2019) e sia queste stesse indagini, così come le indagini PISA citate, mostrano come i risultati in matematica non si discostino dalla media dei paesi soggetti alle indagini. Anzi, il recente estratto delle prove INVALSI 2024 sottolinea il ragguardevole aumento degli studenti che raggiungono almeno il livello base in matematica (INVALSI, 2024). La circolarità emerge nelle Linee guida, per le discipline STEM: non è il presunto difetto in queste competenze ad aver condotto, e a condurre, a incentivare tali percorsi, come viene dichiarato, ma è la loro utilità per il mondo economico e lavorativo, sempre più complesso e competitivo, a configurarsi come il presupposto della valorizzazione di queste stesse competenze (Cf. MIM, 2023). Una scelta politico-economica, quindi, più che pedagogica. Ulteriore dimostrazione di questo assunto, se ce ne fosse ancora bisogno, la offre l’indagine PIAAC – Programme for the International Assessment of Adult Competencies che, ideato proprio dall’OCSE per valutare le competenze della popolazione adulta, analizza i dati per fornire informazioni “sullo stock di capitale umano dei diversi Paesi, sul legame esistente tra competenze, istruzione e lavoro e sul ruolo svolto dalle competenze nel miglioramento delle prospettive occupazionali e di vita della popolazione adulta” (INAPP, 2023).

A poco sembra contribuire il nuovo approccio STEAM, dove la A sta per arte come sintesi delle discipline umanistiche, funzionale a collegare l’istruzione STEM e le tecnologie informatiche alle arti, alle discipline umanistiche e alle scienze sociali in modo da favorire il trasferimento di conoscenze tra i settori STEM e non STEM e agevolare una migliore contestualizzazione delle discipline STEM in termini politici, ambientali, socioeconomici e culturali. Tale approccio si presenta infatti sempre all’interno della medesima cornice economicistico-occupazionale piegando a tal fine le discipline artistiche (European Commission, 2023b).

Inoltre, anche l’opportunità di un approccio umanistico che avrebbe potuto offerire l’insegnamento dell’educazione civica è in parte disatteso, considerando che dei tre nuclei concettuali che compongono le linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica (MIM, 2024a) due sono dedicati allo sviluppo economico e sostenibilità, e alla cittadinanza digitale. Mentre riguardo al nucleo tematico dello sviluppo economico e sostenibilità le riflessioni sulla salute e sulla protezione della biodiversità e degli ecosistemi sono subordinate allo sviluppo economico (MIM, 2024a, pp. 4-5), il tema della cittadinanza digitale è promosso con uno slancio etico, pena ritenere utile strumento di lavoro per informarne la didattica il Quadro delle Competenze Digitali per i Cittadini – DigComp2.2 che rappresenta principalmente un approccio tecnico ed esercitativo (Vourikari et al., 2022). Poco oltre, nello stesso testo, ciò viene confermato indicando che le tematiche connesse alla cittadinanza digitale afferiscono in particolare all’italiano, ma anche alla matematica, alla tecnologia e all’informatica (MIM, 2024a, p. 6).

La marginalizzazione delle discipline e dei percorsi umanistici è quindi prospetticamente in estensione considerando anche che: è stata recentemente approvata una riduzione del finanziamento ordinario delle università e la modifica delle loro regole di reclutamento e di governance (Redazione ROARS, 2024, October 14); nel secondo ciclo di istruzione sono stati attivati i percorsi sperimentali della filiera formativa tecnologico-professionale 4+2 (MIM, 2025a), ossia una riforma strutturata per migliorare l’allineamento tra l’istruzione e il mondo del lavoro; vi è in progetto di assegnare anche agli istituti tecnici e professionali il titolo di “Liceo” (GRL, 2023); le iscrizioni ai licei classici sono in calo, diversamente dagli istituti tecnici, dai licei scientifici e dagli ITS, perché spesso percepiti come poco utili per il futuro lavorativo e per i tempi formativi troppo lunghi (Orizzonte scuola, 2025, January 5); vi è una sempre maggiore attenzione allo sviluppo delle competenze STEM, tendenza rappresentata anche attraverso le Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025 (MIM, 2025b), documento nel quale l’educazione tecnico-scientifica è considerata una risorsa fondamentale per formare i cittadini, fin dalla scuola dell’infanzia.

Dai sistemi educativi mancano non solo le materie umanistiche ma anche un più ampio approccio umanistico, ad iniziare dalla valutazione. Da Lettera a una professoressa, di don Lorenzo Milani e degli studenti della scuola di Barbiana (1967), a La riproduzione. Elementi per una teoria del sistema scolastico di Pierre Bourdieu e Jean Claude Passeron (1972), fino almeno a Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola di Alessandro Cavalli e Gianluca Argentin (2010), per citarne solo alcuni, la valutazione scolastica non è neutra ma spesso riproduce le disuguaglianze sociali. Le modalità di valutazione possano infatti influenzare le disuguaglianze educative, penalizzando spesso gli studenti provenienti da contesti socio-economici svantaggiati. E questa assenza di umanesimo nella scuola è riflessa anche dai dati di un fenomeno che, sebbene risulti in calo in questi ultimi anni (MIM, 2024b), è ancora preoccupante: l’abbandono scolastico. Infatti, l’Italia rimane tra i paesi europei con il tasso di abbandono scolastico più elevato, posizionandosi al quinto posto tra i 27 Stati membri e registrando un’incidenza ancora superiore alla media UE del 9,5%. Il fenomeno colpisce in misura maggiore i ragazzi (13,6%) rispetto alle ragazze (9,1%) e risulta particolarmente critico tra i giovani non nati in Italia, il cui tasso di abbandono scolastico (25,5%) è quasi il triplo rispetto a quello dei loro coetanei italiani (European Commission, 2024). Oltre alle forti disuguaglianze territoriali, con Sardegna e Sicilia che registrano un’incidenza superiore al 17% (Openpolis, 2024), le disparità socioeconomiche continuano a influenzare il rendimento scolastico: gli studenti provenienti da contesti più svantaggiati ottengono in media punteggi inferiori in matematica, e il divario si riduce solo considerando il livello socioeconomico e la lingua parlata in casa (OECD, 2022).

Stante queste condizioni appare difficile intravvedere prospettive rosee per un’istruzione che si proponga “almeno” obiettivi emancipativi come, ad esempio, quelli proposti da Franco Cambi e Franca Pinto Minerva nei confronti della tecnologia:

 

“In tal senso, l’immagine di scuola a cui ci riferiamo è quella di una scuola, di saperi diffusi, in grado di mobilitare l’esercizio del pensiero critico, per mettere in crisi verità dogmatiche e per sostenere la formazione di soggetti attivi, protagonisti della costruzione di un “nuovo Mondo”. Soggetti dotati degli strumenti scientifici e critici delle tecnoscienze e sostenuti dall’apporto creativo dei saperi delle scienze umane.” (Cambi & Pinto Minerva, 2023, p. 126).

 

2. La lunga, ma non troppo, assenza delle discipline umanistiche nei percorsi universitari scientifici

 

Oltre al significativo finanziamento delle discipline e percorsi universitari scientifici al di sopra di quelli umanistici, l’assenza delle discipline umanistiche in percorsi scientifici si è palesata come un’ulteriore problematica, eredità di una lontana, ma non troppo, tradizione. Il dialogo tra le due diverse culture, quella umanistica e quella scientifica, non è mai stato semplice. Da entrambe le parti recriminazioni e svalutazioni non sono state infrequenti (Cf. Sansavini, 2015, April 20). Il filosofo, psicologo e pedagogista italiano Roberto Ardigò, padre assieme a Herbart della scienza dell’educazione di stampo positivista, a seguito di una “illuminazione” che lo avrebbe portato ad abbracciare la scienza positiva, sosteneva che l’unica conoscenza valida fosse quella scientifica:

 

“Le palpebre, chiuse per sonno, si aprono al chiaro del giorno ed alla verità delle esistenze concrete, se un raggio di sole le offende e le irrita. Nello stesso modo la luce della scienza moderna punge e molesta lo spirito addormentato nelle piacevoli fantasie delle passate età; e lo sforza a risvegliarsi. Le false immagini del sogno si dileguano e sotterrano quelle della veglia. Ma di quanto maggiore bellezza e valore! […] La scienza nuova ci ha fatto aprire gli occhi alla realtà: ed ora ci accorgiamo, essere ciò che si conosce il solo fenomeno di cui siamo veramente in possesso, e che costituisce un dato di cognizione solido, e non dipendente dalla nostra volontà; che non può, come nella scienza passata, o ritenerlo o ripudiarlo a piacimento, secondo che si accordi o meno con un sistema prestabilito” (Ardigò, 1908, pp. 82‍–‍83).

 

Diversamente, e in opposizione, il filosofo Benedetto Croce e il pedagogista Giovanni Gentile furono in disaccordo su molte tematiche, ma sul primato della cultura umanistica sopra quella tecno-scientifica non avevano alcun dubbio (Accardi, 1994, May). Giovanni Gentile, ad esempio, nel suo Sommario di pedagogia come scienza filosofica Vol. I Pedagogia generale, considera la scienza alla stregua della religione, ossia distaccata dal processo vivente dello spirito e orientata a presentare i suoi risultati come immutabili, come un lavoro definitivo tradendo, in questo modo una gran pigrizia intellettuale.

 

“La difficoltà, voglio dire, da cui è arrivato tutto il meccanismo, sempre più complicato, dei sistemi pedagogici, si può definire come un difetto spirituale più che come un falso concetto. Perché essa consiste sopra tutto in certa pigrizia intellettuale, per cui ogni cosa che si conosca, si crede si sia conosciuta una volta per sempre: perché quella cosa è sempre quella cosa, e a tornare a guardarla e studiarla, non ci guadagnerebbe più altro. Onde si va in cerca sempre del lavoro definitivo sull’argomento, come si frequenta un corso di studi per prendere l’esame o fornirsi d’una licenza, che licenzii infatti a non pensarci più.” (Gentile, 1954, p. 132).

 

Tuttavia, il concetto di “integrazione disciplinare” è ben noto fin dall’antica Grecia. La scuola pitagorica univa lo studio delle scienze naturali e della matematica con la metafisica, l’etica e la musica (Cardini et al. 2010); la Paideia greca, ossia il modello educativo formatosi in Grecia dall’età periclea, prevedeva una formazione integrale: corporea, intellettuale e culturale (Pancera, 2006) ampliata negli studi accademici e liceali; anche il periodo basso medievale che vide l’avvento delle Università prevedeva due gradi di insegnamento, il Trivio e il Quadrivio, che integravano materie umanistiche e scientifiche (Cambi, 2003). È con il rafforzarsi della fiducia nella matematica o del matematicismo, che la retorica iniziò ad essere guardata con sospetto ed espunta, assieme alle discipline non positive, dal novero delle discipline utili alla conoscenza (Mari, 2019) conducendo alla frattura tra le due culture che ora si dovrebbe ricomporre.

L’integrazione a livello internazionale di discipline umanistiche in facoltà tecno-scientifiche inizia a ricomparire successivamente al 1970 (Dubreta, 2014; Frolov, 2020, July). Ad esempio, nel curriculum della Facoltà di Ingegneria Meccanica e Architettura Navale dell’Università di Zagabria, un’analisi dei piani di studio ha messo in evidenza come le scienze sociali e le discipline umanistiche siano state integrate dal 1980 (Dubreta, 2014); altro esempio di integrazione lo offre la scuola di medicina dell’Università di San Paolo, in Brasile, nella quale il processo di “umanizzazione”, ossia del recupero dei valori umanistici e lo sviluppo di pratiche che integrano alla competenza tecnica lo sguardo umano sulla totalità degli eventi che coinvolgono la malattia e il suo esito, ha trovato sviluppo dal 2004. E ciò nella consapevolezza che il medico con formazione generalista, umanista, critica e riflessiva è capace di operare basandosi su principi etici e con senso di responsabilità sociale e impegno verso la cittadinanza, come promotore della salute integrale dell’essere umano (Rios et al., 2008).

L’inserimento dei contenuti umanistici nell’istruzione americana ed europea, benché tema lungamente dibattuto, sembra ancora non standardizzato e privo di linee guida, di valori e di norme capaci di favorire una loro interiorizzazione e una loro forte integrazione. Così il curriculum delle facoltà scientifiche e tecniche continua a trascurare le discipline umanistiche (Assing Hvidt, 2022; Isaac, 2023; Kollmer Horton, 2019). Ciononostante, la consapevolezza dell’importanza di un’integrazione tra discipline umanistiche e tecniche sta emergendo sempre più evidente anche in Italia. Ad esempio, l’Università Cattaneo – LIUC di Castellanza (VA) ha attivato, per i corsi di laurea in ingegneria gestionale, il percorso trasversale in Scienza, Tecnologia e Società che orienta a un approccio innovativo volto a superare una visione frammentata della conoscenza, promuovendo un dialogo costruttivo tra discipline apparentemente diverse come il diritto, l’etica, la psicologia sociale, la sostenibilità ambientale e discipline tecnico scientifiche  (Università Cattaneo – LIUC, 2021, October 12). Anche il Politecnico di Torino ha costituito il Gruppo di Lavoro SUSST (Scienze Umane e Sociali per le Scienze e la Tecnologia) sulla consapevolezza che la cultura politecnica necessita, per articolare adeguate risposte alle attuali sfide etiche, politiche e sociali, di una maggiore interazione con le scienze umane e sociali (Politecnico di Torino, 2022, October 24).

 

3. Università e complessità: verso una riconfigurazione epistemologica e pedagogica del sapere

 

Le motivazioni per le quali l’università dovrebbe valorizzare le discipline umanistiche sono molteplici e spaziano tra motivazioni più o meno economicistiche o utilitaristiche e quelle pedagogico culturali: le discipline umanistiche vengono infatti promosse per le competenze che sviluppano, come il pensiero critico, la capacità di risolvere problemi e la comunicazione efficace, utili in qualsiasi ambito lavorativo; quando non depurate dai loro elementi culturali a vantaggio solo dei loro aspetti tecnici, e quando non esclusivamente asservite alle industrie culturali, offrono una prospettiva critica e umana alle innovazioni scientifiche (Cfr. D’haen, 2018); sono strumenti indispensabili per riflettere sui limiti etici delle innovazioni tecnologiche e sulle implicazioni per l’umanità e l’ambiente (European Commission, 2023b). In quest’ultima ampia prospettiva le discipline umanistiche sviluppano una cittadinanza critica, empatica e responsabile, indispensabile per le società democratiche (D’haen, 2018), e favoriscono la costruzione di un senso di appartenenza, sia nazionale che globale (D’haen, 2012), contribuendo alla comprensione e al miglioramento della condizione umana (Busl, 2015, October 19). È forse questo il senso più trans-storico, ed epistemologico del valore delle discipline umanistiche, intese non solo come complementari alle discipline scientifiche o critico correttive del sapere elaborato da quest’ultime, ma addirittura linfa rivitalizzatrice di un sapere che senza di esse sarebbe frammentato, o svuotato d’umanità, come indica Edgar Morin (Morin, 1993). Addirittura, con Orefice, questa funzione delle discipline umanistiche si radicherebbe nella struttura stessa del sapere umano, che nasce dall’intreccio di sensorialità, emozione e ragione. L’elaborazione della conoscenza non è solo un atto razionale, ma un processo complesso in cui le emozioni e i sentimenti hanno un ruolo fondamentale nella costruzione di significato. Il sapere, infatti, si costituisce come prodotto della relazione tra potenziale sensomotorio ed emozionale, processo cognitivo e prodotto di significato (Orefice, 2020). Questa visione integrata rafforza la necessità di una cultura che non separi scienza e umanesimo, ma che sappia articolare il sapere in modo complesso e situato. Inoltre, i saperi umanistici agiscono come collante delle identità individuali e collettive. Il “sentire/pensare collettivo” sarebbe all’origine del senso di appartenenza che struttura le società e ne orienta lo sviluppo culturale. Pertanto, l’educazione alle discipline umanistiche diventa così un veicolo per la costruzione di appartenenze consapevoli e per la generazione di legami sociali e culturali profondi (Orefice, 2020, pp. 32‍–‍33).

Ma secondo Morin l’umanità vive ancora nella preistoria dello spirito umano, caratterizzata da una frammentazione del sapere e da una visione semplificata della conoscenza (Morin, 1993). Tale frammentazione può essere superata con una riforma del pensiero basata sul concetto di pensiero complesso, capace di superare le barriere tra le scienze umane e naturali, tra cultura scientifica e umanistica, e di integrare le discipline per affrontare problemi globali e complessi. Non si tratta, secondo il filosofo e sociologo francese, di sostituire l’idea del progresso con quella della regressione, vale a dire di sostituire una semplificazione mutilante ad un’altra, ma al contrario di considerare l’idea di progresso come complessità (Morin, 2010). Questo superamento deve avvenire a partire dal pensiero che frammenta, ossia l’attuale condizione, in direzione di uno che connette e associa (Hessel & Morin, 2012), un sapere solidale e relazionale (Gramigna, 2024; Gramigna & Righetti, 2006), capace di abbracciare l’incertezza e la complessità e di unire discipline scientifiche, umanistiche e tecniche in un approccio transdisciplinare. Solo il pensiero complesso ci permetterà di civilizzare la nostra conoscenza (Morin, 1993). Come sottolinea anche Franco Cambi, il paradigma della complessità può imporre una svolta epistemologica e pedagogica capace di attraversare tutte le scienze, sfidando la visione semplificata e compartimentata del sapere. È un nuovo modello di comprensione che non si limita a spiegare la realtà secondo logiche riduzioniste, ma promuove un'interpretazione sistemica, transdisciplinare e pluralistica, dove le diverse forme di conoscenza si incrociano e si fecondano reciprocamente. (Cambi, 2016) Sono necessari percorsi cognitivi capaci di attraversare le barriere disciplinari. Le cosiddette “scienze diagonali”, così denominate da Mario Ceruti, hanno il compito di collegare ambiti del sapere che appaiono distanti, rivelando corrispondenze sotterranee e relazioni trasversali. Solo un sapere polivalente può accedere a queste connessioni e decifrare i percorsi invisibili della realtà complessa, inaccessibili a uno sguardo specialistico e frammentato.(Ceruti, 2016)

Contrariamente, la frammentazione del pensiero, radicata nella compartimentazione disciplinare tipica del paradigma scientifico e universitario moderno, si manifesta come una tendenza alla disgiunzione e alla riduzione, e limita la capacità di comprendere la complessità del reale (Morin, 2017). La separazione tra le discipline – fisica, biologia, scienze umane – crea un isolamento che, pur favorendo l’approfondimento specialistico, ostacola una visione olistica e integrata (Morin, 1993); una iperspecializzazione strumentale in contrasto con la globalità dei problemi che dovrebbe aiutarci a risolvere e che separa il mezzo dal fine, il processo dal metodo, l’etica dalla deontologia (Gramigna, 2015). E tali frammentazione e iperspecializzazione si estenderebbero oltre l’ambito scientifico, influenzando il contesto sociale e culturale dove la razionalizzazione tecnocratica e la parcellizzazione del sapere riducono l’umano a schemi semplificati. Questo approccio ignora la “particolarità dell’oggetto situato” e le condizioni culturali ed economiche che ne determinano l’esistenza, impoverendo la conoscenza e limitandone la riflessività e la passionalità (Morin, 2015a). Secondo Horkheimer e Adorno questa cultura della modernità ha trascurato il soggetto a favore dell’oggetto e ha innescato un dominio sulla natura che si è ritorto contro l’umano perché diventato repressivo della stessa natura umana (Horkheimer & Adorno, 1966).

La separazione tra i saperi disciplinari, tipica del paradigma moderno, ha accentuato una visione disgiunta della realtà, isolando i campi del sapere e riducendo il complesso al semplice. E forse le nostre tradizioni scolastiche risentono di una scienza che già i Greci concepivano distaccata dall’esperienza pratica, puramente analitica, tesa a studiare secondo una successione di stretta consequenzialità logica (Gramigna, 2015). Questa frammentazione ha prodotto una conoscenza che spesso rimane incompleta e incapace di cogliere la multidimensionalità e la complessità dell’umano. Anche le scienze umane spesso, sebbene dedite allo studio dell’uomo, trattano i fenomeni umani come oggetti, trascurando soggettività, emozioni e contraddizioni che caratterizzano l’esperienza umana (Morin, 2015a). Tuttavia, strumenti come il romanzo, la poesia, il teatro e il cinema rappresentano modalità uniche per accedere alla complessità dell’umano, mostrando ciò che la compartimentazione disciplinare fatica a illuminare. Anche la filosofia, la storia e la letteratura, insieme alle arti, rivestono un ruolo cruciale nel ripristinare il dialogo tra scienze naturali e scienze umane (Morin, 2001), un dialogo indispensabile per perseguire una comprensione più profonda e olistica, capace di superare i limiti di un approccio puramente analitico (Gramigna, 2023). L’ecologia, ad esempio, offre un modello innovativo per connettere dimensioni fisiche, biologiche, sociologiche e morali, proponendosi come scienza delle interdipendenze e delle interazioni. Solo attraverso un riaccorpamento delle conoscenze, come indica Morin, sarà possibile sviluppare un pensiero complesso, in grado di riconoscere e valorizzare la molteplicità e l’interconnessione dei fenomeni umani e naturali e di contribuire anche a una rigenerazione della cultura umanistica e scientifica, necessaria per situare la condizione umana in un mondo sempre più interdipendente e complesso (Morin, 2007).

La disgiunzione tra sapere scientifico e umanistico ha condotto a questa crisi dell’insegnamento, e della cultura più in generale, e ha vincolato l’istruzione a conformarsi alle esigenze tecno-economiche del nostro tempo, contribuendo a un progressivo predominio delle conoscenze quantitative e a scapito di quelle riflessive e qualitative. L’università, più di altre istituzioni educative, ha subito il peso di una retorica che ne chiede la redditività secondo parametri economici, rischiando di smarrire la sua missione più profonda e trans-secolare. L’università, tuttavia, non può e non deve limitarsi ad adattarsi al presente. Deve, al contrario, svolgere un ruolo attivo nell’adattare il presente alla sua funzione storica e culturale di trasmissione e di rinnovamento e connessione dei saperi, delle idee e dei valori. Questo implica la necessità di promuovere il dialogo e la fecondazione reciproca tra la cultura umanistica e quella scientifica, superando le barriere disciplinari e istituzionali che impoveriscono la comprensione complessiva della realtà (Morin, 2015b).

 

In questa direzione, anche Cambi propone che la complessità diventi il nuovo principio educativo, capace di fornire agli studenti non solo competenze tecniche ma una visione critica e globale della realtà. Tale principio si configura come forma mentis del presente, fondamento per la formazione di soggetti consapevoli, capaci di abitare il mondo contemporaneo e di affrontare le sue sfide etiche, politiche e cognitive. (Cambi, 2016). Questo compito dell’università implica la capacità di farsi “intelligenza educativa della complessità”, andando oltre la mera formazione specialistica per diventare spazio di elaborazione critica e progettuale. Solo così l’università può assolvere alla propria missione di rigenerare il pensiero e formare soggetti responsabili, capaci di affrontare le sfide della contemporaneità con consapevolezza planetaria e coscienza storica (Cambi et al., 2016).

In tale prospettiva, l’università deve assumersi una doppia missione. Da un lato, adattarsi alla modernità scientifica e sociale, integrandola nei suoi curricula attraverso insegnamenti professionali che rispondano alle esigenze del mondo contemporaneo e dall’altro, fornire una cultura metaprofessionale capace di attraversare i secoli, fondata sull’autonomia della coscienza, sulla problematizzazione critica, sul primato della verità, sull’utilità, e su un’etica della conoscenza che promuova una visione globale e contestualizzata dei saperi (Hessel & Morin, 2012).

Ciò comporta, tra le altre cose, l’istituzione di centri di ricerca dedicati allo studio della complessità e della transdisciplinarità, capaci di proporre modelli innovativi di pensiero e di formazione, centri che non solo contribuirebbero a una riforma epistemologica, ma offrirebbero strumenti concreti per affrontare le sfide del presente in una prospettiva globale, interconnessa e sostenibile. Una complessità che rappresenta un nuovo paradigma e un metodo, una sfida e un manifesto, una via e un cammino (Cf. Mariani, 2021).

In questa prospettiva, Orefice invita a educare al “sapere del vivere”, un sapere incarnato e situato che integra conoscenze, etica e responsabilità. La pedagogia della complessità non si esaurisce nel pensiero astratto, ma diventa forma di esistenza e pratica trasformativa, capace di orientare l’agire umano in una società interdipendente e fragile (Cambi, et al., 2016). In questa visione, nasce un nuovo paradigma dalle ceneri delle discipline dimostrative separate: l’intelligenza complessa del “pensiero relazionale della ragione che sente” (Orefice, 2020), che integra ragione ed emozione, scienza e umanesimo, conoscenza e vita.

 

4. Il paradigma della complessità: una prospettiva ancora eurocentrica?

 

Secondo la prospettiva moriniana, affinché le università possano rispondere adeguatamente alle esigenze del presente, è necessario che intraprendano una profonda riforma epistemologica e strutturale, orientata alla creazione di ambienti accademici transdisciplinari e alla promozione di una cultura metaprofessionale, capace di superare la semplice formazione specialistica, di valorizzare la connessione tra i saperi e di favorire una prospettiva globale e contestualizzata. Ma davvero la proposta moriniana è in grado di favorire questa apertura al globale e un superamento dell’attuale compartimentazione dei saperi quando nei termini dell’epistemologia decoloniale sottolinea l’importanza della valorizzazione del locale e l’allontanamento da un modello di conoscenza regolativo, razionalista?

Boaventura de Sousa Santos propone una conoscenza “contro-egemonica”, fondata su un cosmopolitismo insorgente e sulla valorizzazione della diversità epistemica (Santos, 2021) dove l’obiettivo è evitare l’assimilazione forzata e promuovere un’interazione tra epistemologie che mantengano la loro specificità (Santos, 2018). La proposta di Santos rappresenta un tentativo di costruire un nuovo paradigma epistemico, in cui il sapere non sia strumento di dominio, ma di emancipazione sociale capace di opporsi alla tendenza occidentale a ridurre la realtà a un’unica logica dominante, escludendo tutte le altre forme di conoscenza. Una decolonizzazione del sapere che vede la colonizzazione non solo come fenomeno storico-politico ma anche come dispositivo epistemico che ha relegato le conoscenze indigene, popolari e comunitarie ai margini del sapere legittimo determinando un “epistemicidio” (Santos, 2021). La decolonizzazione della conoscenza richiede un superamento dell’idea di modernità come unico orizzonte possibile, che ha collegato inscindibilmente la razionalità moderna al concetto di progresso, per aprire la strada a un “pluriverso epistemico” in cui molteplici forme di sapere possano coesistere senza gerarchie imposte (Quijano, 2007). Da questo punto di vista, il paradigma della complessità avrebbe introdotto una prospettiva più articolata rispetto al riduzionismo cartesiano, e non sarebbe effettivamente capace di superare l’epistemologia dominante. Per Santos, nonostante l’apparente apertura, le teorie della complessità continuano a essere ancorate a una visione occidentale della conoscenza, che mantiene intatte le strutture gerarchiche del sapere come, ad esempio, il concetto di progresso lineare e inevitabile, benché le scienze della complessità abbiano problematizzato il determinismo scientifico attraverso i concetti di caos e imprevedibilità (Santos, 2021). Juan Camilo Cajigas-Rotundo considera invece l’approccio della complessità integrato in un contesto epistemico post-occidentale, in cui il sapere scientifico non prettamente eurocentrico può co-evolvere con forme di conoscenza indigene ed ecosofiche aprendosi alla possibilità di una scienza transmoderna, fondata sulla connettività, sull’olismo e sulla reciprocità tra saperi diversi (Cajigas-Rotundo, 2017).

Nel contesto dell’istruzione superiore, anche l’università sarebbe uno strumento di riproduzione delle gerarchie epistemiche occidentali. In Decolonising the University: The Challenge of Deep Cognitive Justice (2017), egli sottolinea come l’università moderna sia stata storicamente uno strumento della modernità occidentale per diffondere un’epistemologia dominante basata sulla razionalità scientifica, escludendo altre forme di sapere. Con la globalizzazione e la mercificazione della conoscenza, le università sono diventate aziende cher iducono l’istruzione a un prodotto da vendere, anziché a uno spazio di trasformazione sociale.

Santos propone due modelli epistemologici alternativi:

 

 

Anche Quijano (2007) sostiene che la produzione della conoscenza nelle istituzioni accademiche debba essere decolonizzata, permettendo il recupero delle epistemologie marginalizzate e il superamento della supremazia eurocentrica. La sfida, quindi, è trasformare l’università in uno spazio di resistenza contro il colonialismo epistemico, garantendo la costruzione di un sapere realmente universale e democratico.

L’epistemologia decoloniale di Santos e Quijano, dunque, non rigetta completamente le scienze della complessità o la razionalità occidentale, ma le invita a un radicale ripensamento di alcuni loro presupposti epistemologici per superare l’imperialismo epistemico e costruire un sapere che non sia solo inclusivo, ma effettivamente plurale e dialogico.

 

5. Conclusione

 

La riflessione condotta evidenzia come le politiche educative e di ricerca italiane ed europee siano fortemente orientate al potenziamento delle discipline tecnico-scientifiche, spesso a discapito di quelle umanistiche. Tale orientamento, guidato principalmente da logiche economiche e occupazionali, riflette una concezione strumentale del sapere che rischia di marginalizzare le dimensioni critiche, etiche e riflessive proprie della cultura umanistica. La frammentazione dei saperi e la rigida compartimentazione disciplinare – in particolare nell’università – ostacolano la possibilità di sviluppare una comprensione profonda dei fenomeni complessi e impediscono il dialogo tra ambiti di conoscenza che, invece, dovrebbero contaminarsi reciprocamente per affrontare le sfide globali del nostro tempo.

In questo scenario, il paradigma della complessità rappresenta una proposta epistemologica e pedagogica centrale. Come sostenuto da Edgar Morin, il pensiero complesso si oppone alla semplificazione e alla specializzazione estrema, proponendo un’intelligenza che sappia connettere ciò che è separato, articolare i diversi livelli del sapere e pensare insieme le parti e il tutto. La complessità non è solo un contenuto da insegnare, ma una forma mentis da coltivare, capace di integrare la dimensione logica e quella affettiva, la razionalità e la sensibilità, la scienza e l’umanesimo. È questo tipo di intelligenza che può favorire un sapere non riduttivo, situato, sensibile all’interdipendenza e alle implicazioni etiche e politiche della conoscenza.

L’università, se vuole ritrovare la sua funzione storica e culturale, non può limitarsi alla preparazione di una forza lavoro specializzata né subordinare le sue finalità alla mera logica dell’impiego. Deve invece assumere un ruolo trasformativo, coltivando una cultura metaprofessionale e contribuendo alla formazione di cittadini consapevoli, capaci di abitare criticamente la complessità del mondo contemporaneo. In questa prospettiva, l’integrazione tra scienze umane, sociali, naturali e tecniche non è solo auspicabile, ma necessaria. Percorsi come quelli promossi da alcune università italiane – che sperimentano l’inclusione delle scienze umane nei curricula ingegneristici, medici o tecnologici – mostrano che è possibile avviare una riorganizzazione dei saperi capace di superare la separazione tra le due culture.

Sebbene alcune critiche, provenienti da approcci pedagogici critici e decoloniali, abbiano messo in luce il rischio che anche il paradigma della complessità resti inscritto in coordinate eurocentriche, ciò non riduce il valore trasformativo della sua proposta. Al contrario, indica la necessità di renderla ancora più aperta, riflessiva e consapevole dei propri presupposti. In tal senso, la complessità può e deve divenire uno spazio di dialogo anche con altre forme di sapere, senza rinunciare al proprio impianto teorico, ma aprendosi a una visione più plurale e interconnessa della conoscenza.

Solo un’università capace di promuovere il pensiero complesso – come metodo, come paradigma e come pratica educativa – può configurarsi come un autentico centro di cultura e contribuire a rigenerare il legame tra conoscenza e vita, tra sapere e responsabilità. Come ricorda la Carta della Transdisciplinarità, senza uno sguardo globale e integrato che sappia attraversare le barriere disciplinari, la frammentazione del sapere rischia di tradursi in una crescente disuguaglianza cognitiva e in una crisi di senso (Lima de Freitas, Morin & Nicolescu, 1994). Ricostruire questo sguardo è il compito essenziale del pensiero complesso e dell’università che voglia essere, ancora, motore di emancipazione e di trasformazione sociale.

 

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