Social Media for Dissemination and Science Education: Reality or Fabrication?
I social media per la comunicazione e l’educazione scientifica: Realtà o invenzione?
Laura Corazza
Dipartimento di Chimica Industriale “Toso Montanari”, Alma Mater Studiorum Università di Bologna – laura.corazza@unibo.it
https://orcid.org/0000-0002-0351-3771
Gabriele Martinucci
Naturalista, divulgatore scientifico, consulente ambientale; Alma Mater Studiorum Università di Bologna (Italy) – gabriele.martinucci8@gmail.com
Is it possible to achieve high-quality science communication? If so, what are its objectives? How do digital media environments impact the achievement of these objectives? What are the limitations of online science communication? A collaboration between the Botanical Garden and Herbarium of the University of Bologna and a science communicator sought to address these questions through a communication project that produced nine short vertical videos for Instagram and Facebook. The analysis of the results highlighted success in terms of online appreciation and engagement, although it remains challenging to draw conclusions about the actual scope of this success and its potential impact on learning and real-world behaviour.
È possibile ottenere una divulgazione scientifica di qualità? Se sì, quali sono i suoi obiettivi? Come incidono gli ambienti mediali digitali nella realizzazione di questi obiettivi? Quali sono i limiti della divulgazione nella Rete? Una collaborazione fra l’Orto botanico ed Erbario dell’Università di Bologna e un divulgatore scientifico ha cercato di dare alcune risposte a questi interrogativi, attraverso un progetto comunicativo che ha prodotto nove brevi video verticali per Instagram e Facebook. L’analisi dei risultati ha evidenziato un successo in termini di gradimento ed engagement in rete, mentre risulta molto difficile poter trarre conclusioni circa l’effettiva portata di questo successo e le eventuali ricadute sull’apprendimento e sul comportamento reale delle persone.
Science communication, Instagram, Facebook, Science and Society, Plant-Blindness
Divulgazione scientifica, Instagram, Facebook, Scienza e Società, Plant-Blindness
The Authors declare no conflicts of interest.
Section 1 (L. Corazza), Section 2, 3, and 4 (G. Martinucci), Section 5 (L. Corazza), Section 6 (G. Martinucci), Section 7 (L. Corazza).
This work is the result of the internship undertaken by the Author Gabriele Martinucci at the Botanical Garden and Herbarium of the University of Bologna under the tutorship of Dr. Umberto Mossetti. Part of the work conducted during the internship was subsequently included in Gabriele Martinucci’s dissertation.
November 25, 2024
December 30, 2024
December 31, 2024
La divulgazione scientifica è una trasmissione efficace di informazioni scientifiche con un linguaggio non specialistico e per situazioni di educazione informale o non formale. Ne sono un esempio i festival della scienza, una certa editoria, documentari e programmi televisivi, la comunicazione scientifica attraverso i social media. Il concetto alla base della divulgazione può sembrare semplice: rendere fruibile la scienza a persone che, in quanto non dotate di una formazione sufficientemente approfondita o specialistica, potrebbero non comprendere un linguaggio troppo tecnico. Nella pratica però le cose si complicano, perché intervengono alcuni fattori disturbanti: il semplificare comporta spesso il rischio di banalizzazione; l’uso di mass media richiede spettacolarizzazione; il pubblico porta con sé preconoscenze che orientano la comprensione e influenzano l’esito della comunicazione. Negli ultimi anni, i media sono diventati anche digitali e la divulgazione scientifica avviene spesso online attraverso siti web e social media; in connessione a ciò, si registra anche una diminuzione dei tempi medi di attenzione del singolo individuo nei confronti di un contenuto comunicativo, con fondamentali ricadute sui formati di fruizione, da un lato, e di creazione, dall’altro (Gastil, 2017). A questo, si aggiunge la tendenza alla frammentazione dei media e un aumento dei mezzi di informazione ideologicamente orientati (Bubela et al., 2009), il che ha reso ancora più urgente e complicata la “buona” divulgazione scientifica. Nonostante permangano una certa riluttanza e timore da parte degli scienziati nei confronti di queste realtà virtuali (Rowlands et al., 2011), i social media si sono ormai affermati come parte integrante della quotidianità. Dato estremamente interessante, tratto dall’analisi di Blogmeter (RT&IP, 2022), è che il 26% degli utenti italiani con accesso ad Internet utilizza i social per informarsi e, di essi, circa un quarto ammette di utilizzarli per imparare cose nuove.
I divulgatori e comunicatori della scienza con i social media incontrano diversi problemi, come i limiti temporali di alcuni formati, spesso di durata massima troppo ristretta, e l’instabilità degli algoritmi che regolano la visibilità dei contenuti. Si può affermare che il buon esito della comunicazione attraverso un social media sia il risultato dell’armonizzazione di tre fattori:
· l’interazione del pubblico con i contenuti;
· il lavoro del content creator;
· il tipo di algoritmo deciso dal social media stesso, che detta le regole del gioco nella programmazione strategica del contenuto e della sua forma di diffusione.
La compresenza di queste tre azioni ha alcune conseguenze sulle logiche della divulgazione in rete: se l’algoritmo del social media utilizza likes, condivisioni, commenti, salvataggi e visualizzazioni per personalizzare la proposta di nuovi contenuti, il content creator, riuscendo a comprendere attraverso i feedback immediati quali tipologie comunicative abbiano più efficacia, può scegliere contenuti e strategie per aumentare la sua community. Pertanto, ci muoviamo con due prospettive differenti: da un lato, la possibilità di documentarsi da parte del pubblico contribuisce a modificare il rapporto potere-sapere nella relazione cittadino-scienziato e a innescare processi virtuosi di partecipazione attiva dei cittadini alla vita sociale e culturale del paese (Corazza 2008; 2021); dall’altro, la logica della gestione dei social media essendo principalmente commerciale, con lo scopo di incrementare accessi e gradimento, plasma la comunicazione scientifica per ottenere i suoi obiettivi di successo economico.
Con un documento pubblicato nel 1985, la Royal Society ha di fatto formalizzato il concetto di Public Understanding of Science, un modello comunicativo che rispecchia una filosofia di comunicazione della scienza top-down, in cui il rapporto tra esperto e pubblico è unidirezionale e basato sull’idea di deficit model: con tale modello si assume che il pubblico non abbia conoscenze, percezioni o idee, mentre lo scienziato ha il compito di colmare questa lacuna. Con il tempo è emersa sempre di più la fragilità di questo modo di intendere la comunicazione, che funziona solo quando la fiducia nella scienza e negli scienziati che la diffondono è molto alta nel pubblico. Questa fiducia nel corso del tempo è venuta meno, soprattutto dopo il coinvolgimento della scienza e degli scienziati in disastri ambientali e umanitari (bomba atomica, mucca pazza, corruzioni di scienziati da parte di multinazionali, ecc.). Oggi, il modello unidirezionale basato sull’idea di deficit rischia di risultare paternalistico e viene percepito dalla popolazione come una forma di propaganda della scienza o del singolo scienziato, che di fatto finisce per pubblicizzare sé stesso (Pitrelli, 2003). Nonostante ciò, è sempre utilizzata dai media tradizionali che nascono per un ascolto passivo da parte pubblico, come succede con i programmi culturali televisivi o radiofonici.
Il modello PEST, acronimo di Public Engagement in Science and Technology, tenta di rivedere il rapporto che esiste tra i comunicatori della scienza e il pubblico. Il PEST viene per la prima volta messo a fuoco all’interno del paradigma Science and society, nel VI Framework Programme, che poi diviene Science in Society nel VII (2007) e, in Horizon 2020, Science with and for Society. Il fulcro di questo modello è il public engagement (Maasen & Weingart, 2000; Weingart & Connoway, 2021). Il modello PEST supera il concetto di deficit e con esso la differenziazione funzionale dei sistemi sociali, in particolar modo tra cittadini e esperti ma anche fra decisori politici e scienziati, attribuendo importanza al coinvolgimento di tutti e favorendo la partecipazione attiva ai dibattiti e alle decisioni politiche di tutti i cittadini (Weingart & Connoway, 2021). Questi sono coinvolti nella raccolta dati su larga scala spaziale e temporale, con la citizen science, nell’innovazione effettiva attraverso lo scambio di informazioni (Lewenstein, 2016; Hulbert et al., 2019) e nella creazione di conoscenza scientifica (Weingart & Connoway, 2021; Schrögel & Kolleck, 2019).
Nonostante ciò, ancora oggi non è chiaro che cosa significhi engagement. Alcuni autori lo considerano un termine generico, una parola d’ordine politica (Jensen & Buckley, 2014; Bensaude, 2014), altri lo definiscono come un concetto non semplice da descrivere a causa delle molteplici possibili applicazioni (Rowe et al., 2008); quello che è certo è che anche i singoli scienziati hanno in mente molte idee di engagement e la definizione del termine è un dibattito ancora aperto (Wilkinson et al., 2011). Qui riportiamo quattro significati tra i più diffusi in letteratura:
1. engagement in relazione agli obiettivi: maggiore visibilità e trasparenza del lavoro accademico (Perié et al., 2014; Watermeyer, 2012); inclusività, trasparenza, creatività nel processo di ricerca e formazione (Brondi & Sarrica, 2016); cercare le opinioni dei laici sulle innovazioni tecnico-scientifiche (Schwarz-Plaschg, 2018); ridurre i conflitti tra società e scienziati; creare fiducia; portare i pubblici a sostenere gli obiettivi del progetto e ad attuare le decisioni a lungo termine (Nava & Hofman, 2018);
2. engagement in relazione al tipo di pubblico: individui che non sono associati a nessuna disciplina scientifica o area di indagine nell’ambito della loro attività professionale (Kouper, 2010), voci difficili da raggiungere che comunemente sono escluse dai dibattiti sociali (Macnaghten & Guivant, 2011) o bambini (Bou-Vinals & Prock, 2013);
3. engagement in relazione a un nuovo rapporto tra scienza e pubblico: dall’inizio degli anni gli studi si sono concentrati sulla natura dialogica e interattiva dello stesso engagement (Palmer & Schibeci, 2014). In questo senso, il public engagement è conversazione e dialogo significativo su questioni scientifiche (Kouper I. 2010) che dovrebbe poi comportare un impegno reale e interattivo tra scienziati, parti sociali interessate e individuo non esperto (Peterson et al., 2009). Per fare è necessario trovare le giuste strategie per strutturare una conversazione tra esperto e pubblico in modo da riconoscere e rispettare tutte le differenze di conoscenza, di valori, esperienza, di prospettive e obiettivi (Jia et al., 2017). In altre parole, occorre costruire ponti, superare i divari, creare connessioni, collaborare, favorire vantaggi reciproci, facilitare le relazioni e abbattere le barriere (Davies, 2013; De Vasto & Creighton, 2018);
4. engagement come quantità di interazioni: questa prospettiva è tipica dei social media dove per engagement si fa riferimento a come e a quanto gli utenti interagiscano con un determinato contenuto. Questa interazione in genere è la dimostrazione del gradimento del contenuto stesso o un supporto all’attività, che molto spesso si traduce in fidelizzazione dei follower che diventano potenziali clienti nel caso di pianificazioni di marketing.
Tra le varie questioni aperte tra i divulgatori scientifici c’è sicuramente la definizione di una divulgazione di qualità. Cosa determina la qualità di un prodotto audiovisivo divulgativo? Come si può riconoscere la divulgazione di qualità rispetto a quella scadente? Esiste un modo per determinare la qualità di una comunicazione? La qualità di un prodotto divulgativo oggi è un concetto abbastanza sfuggente. Se nell’epoca dei mass media tradizionali bastava il nome autorevole di una rivista o di un programma d’informazione (es. telegiornale) a legittimare l’informazione, oggi questa correlazione sembra sempre meno stretta. Purtroppo, non sono rari i casi in cui riviste scientifiche importanti hanno pubblicato articoli che successivamente sono risultati fraudolenti o non corretti. Nel 2016 la rivista Science pubblicò un articolo di alcuni ricercatori svedesi che sostenevano come alcuni pesci in età giovanile (avannotti) preferissero mangiare polistirene al posto delle prede naturali se esposti ad alte concentrazioni di tale prodotto polimerico. La notizia ha fatto rapidamente il giro del Globo e la BBC News riportò la scoperta; poco dopo, l’articolo fu ritirato dalla rivista con l’accusa di falsificazione dei dati. (Schneider, 2017). Uno dei pilastri della qualità nella divulgazione potrebbe essere l’accuratezza nel senso di comunicare in modo preciso il significato e i dati delle scoperte scientifiche, ma questo non basta. Probabilmente la qualità nella divulgazione ha molteplici volti come l’apertura alla discussione, al controllo, l’indipendenza da fattori di conflitto di interessi e la necessità di specificarli, nel caso fossero presenti, da parte del comunicatore a priori (Bucchi, 2019).
Oggi il dibattito sulla qualità nella divulgazione è ancora aperto ma si concentra prevalentemente su un’unica dimensione, quella dell’informazione, dimenticandosi che l’atto divulgativo è un atto comunicativo e, in quanto tale, deve essere considerato nella sua multidimensionalità relazionale. La divulgazione degli ultimi vent’anni, quella attraverso i social media e dal vivo, è forse molto più simile a un’azione didattica che non a un’azione di stampo giornalistico. Nel dibattito interno al mondo dei divulgatori della rete, la divulgazione è rappresentata con un triangolo equilatero, nel quale il divulgatore, a seconda dei propri obiettivi e del proprio stile si colloca spostandosi da un vertice all’altro: “intrattenimento”, “educazione”, “informazione”. Ciascun divulgatore può inquadrare la propria posizione in base alle motivazioni e allo stile che accompagnano la propria attività e la posizione in cui si inserisce fa variare il concetto di qualità. Per esempio, la redazione dell’ANSA si potrebbe far coincidere con il vertice dell’informazione dato che l’obiettivo di tale ente è proprio dare la notizia; al contrario, una conferenza si colloca a metà strada tra il vertice dell’educazione e dell’informazione, mentre l’attività sui social media si può posizionare internamente all’area del triangolo, dove educazione e informazione sono i caratteri principali che però prevedono anche elementi d’intrattenimento (Figura 1).
Figura 1. Triangolo della divulgazione scientifica: in blu la posizione di una redazione a stampo giornalistico (es. ANSA); in viola una conferenza culturale e in verde l’attività di un divulgatore scientifico della rete.
A questo punto ci si potrebbe chiedere che cosa sia il prodotto di un’azione divulgativa. Proprio come per l’insegnamento, il prodotto della divulgazione è una mediazione operata dal divulgatore per promuovere un apprendimento culturale alle persone, regolando la distanza tra i contenuti (scientifici in questo caso) e i soggetti in apprendimento, ossia mediando tra la struttura logica dei contenuti e la struttura psicologica dei soggetti che apprendono. In altre parole, la mediazione è la trasformazione di determinati contenuti culturali in contenuti accessibili all’apprendimento di un gruppo di persone in funzione di un determinato obiettivo (Castoldi, 2019). Poiché l’apprendimento è significativo quando il nuovo contenuto culturale riesce a mettersi in relazione con le conoscenze pregresse del soggetto in apprendimento per rimodellare la matrice cognitiva delle persone (Ausubel, 1978), ciò risulta complicato in un contesto informale, per la mancanza di sistematicità dell’esposizione del pubblico al lavoro del divulgatore; da ciò nasce l’esigenza di sviluppare engagement, inteso sia come rapporto società-scienza, sia come fidelizzazione delle persone.
Uno dei bias cognitivi più comuni legati alle tematiche naturali è il plant-blindness, ossia l’incapacità umana di vedere o notare le piante nella vita di tutti i giorni, di sottovalutarne il ruolo sulla Terra, percependole come mero supporto agli animali e la convinzione che le piante siano in qualche modo inferiori e meno interessanti degli animali (Wandersee & ). Questo bias attira la ricerca da circa 20 anni, almeno nella nostra società occidentale, e si pensa che l’origine sia un complesso di motivazioni biologico-cognitive e culturali. Una parte di letteratura sull’argomento suggerisce che alcune caratteristiche vegetali quali il colore verde uniforme, la tendenza a fondersi visivamente tra loro, la mancanza di un volto e di movimento percettibile abbiano un effetto sul modo in cui elaboriamo le informazioni visive. Si è dimostrato infatti che le piante catturino, in media, meno attenzione umana rispetto agli animali e che tale bias abbia origine in alcune funzioni cognitive come l’attenzione o la memoria (Schussler & Olzak, 2008). Inoltre, la condivisione di caratteri morfologici e cromatici rendono le piante più omogenee tra loro e di conseguenza meno distinguibili ed evidenti rispetto agli animali (Prokopy & Owens 1983; Givnish, 1979).
La plant-blindness, nonostante abbia dei fondamenti biologici, può essere esacerbata o ridotta ai minimi termini dalla cultura in cui un individuo è inserito. Sono noti vari studi etnografici interculturali che dimostrano come in alcune culture il bias della cecità alle piante non esiste o è molto limitato; questa condizione la ritroviamo particolarmente nelle società indigene del Nord America, dell’Australia e dell’Asia (Kimmerer, 2013) in cui la cultura permette alle persone di sviluppare una relazione significativa e diretta con le piante. Questo fattore è particolarmente significativo perché ci consente di comprendere che nonostante il bias del plant-blindness sia diffuso a livello quasi globale, è un qualcosa di realmente mutevole che può ridursi d’intensità e portata e può potenzialmente sparire del tutto dalle società in cui oggi è una costante. Per contrastare il suddetto bias è necessario quindi agire sulla comunicazione e sull’educazione (Balding & , 2016).
Qui vale la pena ricordare uno dei problemi principali legati all’antropocentrismo del modello sociale occidentale che, nel tempo, si è espresso nella famosa scala naturae che vede l’essere umano in cima ad una scala gerarchica (sotto solo agli angeli e a Dio), con un maggior grado di importanza e complessità rispetto agli altri organismi viventi (non è un caso che sotto l’Homo sapiens siano presenti in questa raffigurazione tutti gli altri esseri naturali, per primi gli animali e solo successivamente, più in basso, le piante).
Uno dei principali effetti della plant-blindness sono proprio dei pregiudizi diffusi e quasi inconsapevoli, ma ben visibili, nei confronti delle piante soprattutto in termini di sforzi di ricerca e di flusso di finanziamenti per la conservazione (Havens, & Kramer, 2013; Martin-Lopez et al., 2009). Al momento entrambi gli sforzi sono concentrati sulla megafauna carismatica tralasciando buona parte delle altre forme di vita (Sitas, & 2009; Smith et al., 2012) e sia i dibattiti politici che la lotta al commercio illegale internazionale di specie selvatiche si concentrano quasi solo su elefanti, rinoceronti, tigri e pangolini (World Bank, 2018). Le piante sono sottorappresentate e molto spesso ricevono poche attenzioni, per fare un esempio solo l’8% del totale delle piante conosciute valutate nella Lista Rossa IUCN rispetto ad un abbondante 68% dei vertebrati conosciuti (International Union for Conservation of Nature, 2018), questo nonostante le piante ricoprano tre dei cinque gruppi tassonomici più minacciati di estinzione all’interno della sopracitata Lista Rossa IUCN (Brummit et al., 2015; Cousins & 2017).
La sperimentazione nasce dalla collaborazione fra la Laurea Magistrale in Didattica e comunicazione delle Scienze naturali dell’Università di Bologna, l’Orto Botanico ed Erbario dell’Università di Bologna e il divulgatore scientifico Gabriele Martinucci. Di seguito riportiamo il piano editoriale e la struttura dell’attività:
- Obiettivo finale: valutare l’efficacia dell’uso dei social media per l’informazione scientifica di un Orto botanico ed Erbario, in termini di gradimento e di engagement;
- Risultati attesi: la realizzazione di nove brevi video divulgativi per la comunicazione dell’Orto e delle sue rarità;
- Target di riferimento: pubblico eterogeneo, mediamente già interessato alla botanica;
- Formato narrativo: breve video verticale (massimo 1 minuto e mezzo);
- Ambienti mediali per la pubblicazione: Facebook e Instagram del divulgatore; alcuni video sono usciti in contemporanea nel canale Instagram del Sistema Museale d’Ateneo dell’Università di Bologna e uno anche in collaborazione con la pagina Instagram della Società Felsinea di Orchidofilia APS;
- Pubblicazione: una pubblicazione ogni 14 giorni, tra novembre 2023 e gennaio 2024, di norma il martedì alle ore 13.00 o alle ore 18.00, gli orari di maggiore attività per i profili coinvolti; Dopo circa sei settimane dall’ultimo video sono stati raccolti i primi dati. Questo lasso temporale ha permesso a tutti i video di crescere in modo organico;
- Format: riprese in loco, testo non scritto in precedenza per garantire fluidità e spontaneità;
- Analisi dei dati quantitativi: le metriche per ogni singolo video e per il profilo nella finestra temporale coincidente con la pubblicazione. Il recupero di tali informazioni viene effettuato per ogni video attraverso l’opzione “visualizza insight” e andando a recuperare la copertura, il tempo di visualizzazione (tempo totale di riproduzione del reel, anche il tempo trascorso a riprodurre il reel), i follower guadagnati; mentre per le metriche del profilo viene effettuato con la “Dashboard per professionisti”, si inserisce la finestra temporale che ci interessa analizzare e si valutano gli Account raggiunti, il numero totale di follower e di questi si analizza la copertura come la percentuale di follower e non follower. Purtroppo, questa possibilità di analisi dei dati quantitativi non può essere effettuata su Facebook;
- Analisi dei dati qualitativi: le tipologie di commenti e messaggi diretti (dm) suscitati relativi ai video del progetto, andando a catalogare i principali focus argomentativi per analizzarne l’engagement.
Le riprese sono state effettuate con il comparto fotografico dello smartphone Honor 70 dotato di lenti Sony collegato ad un microfono lavallier BOYA, l’inquadratura verticale per adattarsi ai formati dei reel di Instagram. Nell’arco di qualche giorno, e con l’aiuto dei giardinieri dell’Orto, abbiamo raccolto tutte le riprese necessarie in formato mp4 a 1080x1920 px a 50 fps per un totale di 37 specie di piante. Le registrazioni sono state scelte e verificate insieme con gli esperti dell’Orto. L’editing video è stato effettuato esclusivamente tramite smartphone con l’applicazione CapCut. Di seguito l’elenco dei video.
1. L’Orto Botanico ed Erbario per la conservazione vegetale.
2. La serra tropicale dall’alto: la papaya.
3. La serra tropicale: il cacao.
4. Le piante-pietra: i Lithops.
5. I fusti delle caudiciformi: una strategia vegetale per vivere nel deserto.
6. I semi “trivella”.
7. Chiloschista: la minuscola orchidea.
8. Il fiore che puzza di cadavere.
9. Una colonia riproduttiva di tritoni: un’oasi naturale in centro città.
Analizzando la copertura troviamo un impression (numero di volte in cui è stato visto il reel indipendentemente dal fatto che uno stesso utente abbia visualizzato più volte) pari a 641.868, un aumento significativo di circa il 124% rispetto alla stessa fascia temporale dei 90 giorni precedenti (12 settembre–21 novembre). Anche la copertura risulta in netta crescita, con circa 339.737 account reali raggiunti e di questi solo 11.000 sono follower del canale, registrando così un aumento positivo del 7,1%, mentre i rimanenti 328.000 sono non follower, registrando così un tasso di crescita pari al 251% (foto 1). Il contenuto più virale è il reel con circa 340 mila views accumulate nella fascia temporale sopracitata. Interessante notare che dei sei reel più popolari di quel periodo, due sono interni al progetto e ritroviamo al terzo posto il video sui Lithops con più di 83.000 views e al quarto posto il video sui semi “trivella” con più di 63.000 views (foto 2).
Con i dati che le piattaforme Instagram e Facebook del divulgatore consentono di raccogliere, abbiamo ritenuto di poter fare due tipi di riflessioni: un’analisi del gradimento, relativamente al numero delle visite, degli account raggiunti e delle riproduzioni, e un’analisi dell’engagement, utilizzando i dati che indicano un’azione dell’utente successiva alla prima interazione e cioè i “mi piace”, i salvataggi, i commenti e le condivisioni.
Analizzando l’attività del profilo, abbiamo notato un aumento notevole degli account raggiunti dopo l’inizio dell’attività (+251% di non follower e +7,1% di follower) e una crescita positiva dell’87,5% con un totale di 8.407 azioni. Di queste, 8.351 azioni sono le visite al profilo, con un aumento di circa l’87% rispetto al periodo precedente della solita durata. Tutte le metriche quantitative dei singoli video sono state riportate nella tabella 1 e l’attività complessiva del profilo è stata riportata in forma di grafico (Figura 2).
Video |
Account raggiunti |
Attività del profilo |
N° follower/N° non follower |
Riproduzioni |
t. visual. tot. |
t. visual. medio |
Conserv. piante |
8.789 |
19 |
4.398/4.391 |
9.440 |
50h37m |
19s |
Papaya |
4.597 |
4 |
2.493/2.158 |
4.939 |
22h10m |
16s |
Cacao |
4.880 |
24 |
2.676/2.204 |
5.006 |
23h11m |
16s |
Lithops |
83.288 |
129 |
4.977/78.311 |
84.118 |
531h12m |
22s |
Caudex |
13.868 |
152 |
3.624/10.244 |
14.120 |
77h33m |
19s |
Semi trivella |
63.562 |
149 |
7.968/55.594 |
62.612 |
447h48m |
25s |
Orchidea |
8.810 |
16 |
4.842/3.968 |
9.065 |
41h43m |
16s |
Stapelia |
14.644 |
21 |
3.617/11.027 |
15.403 |
83h6m |
19s |
Tritoni in orto |
13.648 |
26 |
5.858/7.790 |
13.644 |
71h49m |
18s |
Tabella 1. Dati quantitativi relativi ai video pubblicati nel presente progetto divulgati.
Figura 2. Grafico che mostra l’andamento relativo alle metriche di attività del profilo per ogni video del progetto.
Anche l’attività del profilo Instagram del Sistema Museale d’Ateneo, che ha pubblicato nello stesso periodo, ha visto una crescita, accumulando 10.225 account raggiunti di cui 2.708 follower, con una crescita in aumento del 21,4%, e 7.517 non follower, con una crescita in aumento pari a 183%, registrando un impression di 85.558, segnando così un aumento dell’1,4%.
Per analizzare il livello di coinvolgimento abbiamo raccolto il numero di “mi piace”, il numero di salvataggi e il numero dei commenti in Instagram per ogni video (Tabella 2).
Video |
Mi piace |
Commenti |
Salvataggi |
Conservazione piante |
785 |
55 |
39 |
Papaya |
270 |
8 |
9 |
Cacao |
307 |
14 |
15 |
Lithops |
4.399 |
83 |
343 |
Caudex |
805 |
21 |
74 |
Semi trivella |
4.274 |
101 |
489 |
Orchidea |
858 |
28 |
52 |
Stapelia |
862 |
49 |
65 |
Tritoni in orto |
1.170 |
42 |
79 |
Tabella 2. Raccolta dei dati qualitativi per ogni singolo video pubblicato su Instagram.
I video che hanno ricevuto più “mi piace” sono, in ordine decrescente: il video sui Lithops con 4399 mi piace, successivamente abbiamo il video dei semi “trivella” con 4274 like, e infine, al terzo posto troviamo il video della colonia di tritoni con 1170 mi piace. Se guardiamo però il numero di commenti e di salvataggi il video dei semi passa al primo posto con 101 commenti e 489 salvataggi mentre i Lithops passano al secondo posto con 343 salvataggi e 83 commenti, al terzo per i commenti invece troviamo il video che parla dell’importanza della conservazione delle piante all’interno dell’Orto Botanico con 55 commenti mentre il terzo posto per il numero dei salvataggi troviamo il video sui tritoni con 79 salvataggi, poco più sotto in classifica per numero di salvataggi troviamo il video delle caudiciformi con ben 74 salvataggi.
Andiamo ora a riportare i risultati ottenuti dagli stessi video nel canale Facebook del divulgatore scientifico (Tabella 3).
Video |
Mi piace |
Commenti |
Condivisioni |
Visualizzazioni FB |
Conservazione piante |
445 |
12 |
27 |
8.177 |
Papaya |
79 |
3 |
6 |
2.658 |
Cacao |
64 |
8 |
2 |
2.118 |
Lithops |
3.221 |
48 |
171 |
102.330 |
Caudex |
440 |
7 |
23 |
8.581 |
Semi trivella |
5.326 |
64 |
749 |
140.389 |
Orchidea |
637 |
5 |
32 |
13.302 |
Stapelia |
1.040 |
39 |
77 |
29.783 |
Tritoni in orto |
423 |
29 |
30 |
21.452 |
Tabella 3. Raccolta dei dati qualitativi (insieme alle visualizzazioni) relative agli stessi video del progetto pubblicati in simultanea a Instagram su Facebook.
Si può subito notare come i “mi piace” e i commenti complessivi siano in media diminuiti rispetto a Instagram, e come le visualizzazioni, soprattutto per alcuni video come i Lithops con 102.330 views o i semi “trivella” con 140.389 views siano fuori scala rispetto a Instagram.
Osserviamo ora il dato più “esclusivo” che ci dà Facebook: le condivisioni (Figura 3). Da questo grafico si nota chiaramente come un video in particolare abbia attivato il coinvolgimento del pubblico, che non si è accontentato di una visione passiva decidendo di condividerlo.
Figura 3. Grafico a torta che rappresenta la quantità di condivisione relativa per ogni video pubblicato su Facebook.
Un livello ancora più elevato di coinvolgimento è rappresentato dai commenti; analizzando tutto ciò che è stato scritto sotto a ogni video abbiamo individuato alcune macrocategorie di contenuti:
· richiesta di informazioni riguardo l’Orto botanico ed Erbario o ricordi personali sulle proprie visite alla struttura;
· condivisione del proprio possesso presente o passato della specie di pianta trattata;
· ammissione di ignoranza riguardo al bracconaggio di piante nel Mondo;
· racconti personali su esperienze avute con la specie di pianta o di animale trattato nel video;
· effetto “wow” della natura e complimenti riferiti al mio entusiasmo.
I risultati portano ad osservare come i principali commenti, (senza contare l’effetto wow e i vari complimenti che non giocano un ruolo in quello che vogliamo analizzare ora), sono quelli che rappresentano un collegamento con la vita quotidiana presente o passata degli utenti che visualizzano il video, forse è proprio quello che li spinge a commentare. Qui di seguito alcuni esempi.
“È possibile visitare l’orto botanico?”
“Io ho la Chiloschista viridiflava, è spettacolare.”
“Le adoro… ho tre 2sassi” da circa due anni e sono affascinanti sia per la fioritura che per la muta.”
“Ne ho acquistata una di recente proprio perché affascinata da questa meraviglia del mondo vegetale. Non sapevo fosse a rischio…mi prenderò ancora più cura.”
“Io lecco sempre i semi di avena per farli roteare neanche avessi cinque anni!”
“Quando ero bambina giocavo con queste spighette.”
“Quante volte ai tempi dell’università sono venuto a visitare l’orto botanico e le serre.”
Il dato forse più significativo che ci consente di affermare che abbiamo ottenuto un buon livello di engagement è quello relativo ai commenti di Facebook, dato che ci conforta anche per quanto riguarda la lotta ai bias cognitivi più comuni legati alle tematiche naturali. Gli utenti in questa piattaforma, infatti, non solo hanno espresso commenti personali ma hanno anche raccontato episodi della propria vita condividendo fotografie delle proprie piante. Abbiamo considerato questo livello di coinvolgimento come un risultato positivo rispetto al rischio di plant-blindness e anche rispetto alla tendenza generalizzata, tipica dei social media, di una fruizione passiva e di una ritrosia nel partecipare attivamente alla comunicazione e alla riflessione.
Concludendo, ci poniamo una domanda: possiamo affermare di aver raggiunto l’obiettivo iniziale e cioè, siamo in grado di sostenere che l’attività di divulgazione scientifica, tramite Instagram e Facebook, delle piante rare presenti all’Orto Botanico ed Erbario dell’Università di Bologna abbia avuto un buon rendimento in termini di gradimento e di engagement?
Per quanto riguarda il gradimento possiamo rispondere in modo affermativo, poiché raggiungere decine di migliaia di persone, con picchi di centinaia di migliaia, è stato sicuramente un risultato importante, così come l’aver visto aumentare in modo considerevole il numero di followers del canale nel periodo di pubblicazione dei nove video. Oltre a ciò, i dati raccolti ci permettono anche di evidenziare differenze di rendimento e di ricollegarle agli elementi che l’esperienza e la letteratura indicano essere elementi di successo. In particolare, nel nostro caso abbiamo potuto verificare la veridicità del fattore “gancio” dei primi secondi. Analizzando il risultato peggiore, e cioè il rendimento dei video dedicati alla papaya e al cacao, notiamo che la struttura è differente dalle altre. Entrambi i video in questione avevano in comune l’impalcatura sulla quale è stata costruita la narrazione divulgativa: un selfie con l’inquadratura del solo viso del divulgatore, a 5 metri d’altezza nella serra tropicale dove si mostravano le rispettive piante. Poiché il successo di un breve video verticale si determina nei primi secondi, quando l’inquadratura deve catturare l’attenzione, possiamo ipotizzare che il gancio non sia stato efficace: in questo caso è venuta a mancare la connessione con elementi noti che potessero ricollegarsi a una matrice cognitiva preesistente nelle persone (per esempio il cioccolato o il frutto della papaya). Questo ha comportato che gli utenti passassero oltre e che l’algoritmo del social media smettesse di proporre i video.
Il discorso si fa più complicato analizzando i dati sull’engagement. Si tratta infatti di un concetto alquanto labile, al quale è difficile associare dati in modo preciso. Le nostre riflessioni si sono basate soprattutto sul numero di condivisioni (e in questo i video hanno avuto successo) e sull’analisi dei commenti. Analizzando i video con i migliori risultati su Instagram (i Lithops e i semi “trivella”), vediamo che questi hanno avuto molti commenti legati all’esperienza delle persone con la pianta e all’effetto “wow” legato a informazioni poco note. Ciò conferma quanto già si conosce e cioè che fra i fattori di successo di un video ci siano l’aggancio con la vita quotidiana delle persone e anche una narrazione coinvolgente, che rispetti alcuni principi della spettacolarità e dell’intrattenimento. Per Facebook, che anche se poco utilizzato dai giovani è ai primi posti fra i social più usati al mondo, ha inoltre contribuito la possibilità di incontrare gruppi tematici di persone interessate (per esempio il gruppo di appassionati di piante spontanee o piante da allevamento indoor) che hanno condiviso pareri e anche fotografie personali, partecipando attivamente a quella che è diventata una vera e propria comunità di pratica (che in Instagram non è possibile creare).
Dall’analisi dei dati complessivi riusciamo a ricavare alcuni elementi che possono aver contribuito a determinare il buon livello di gradimento:
· interessi pregressi dell’utente: se l’utente ha un interesse nei confronti dei temi trattati e si ritrova nel feed un nostro video, sarà più propenso a dimostrare il suo gradimento se le informazioni che riceve sono espresse correttamente, in modo efficace e con nozioni che arricchiscono il suo sapere;
· grado di intrattenimento: i social media nascono soprattutto con lo scopo di intrattenere gli utenti e creare reti online tra le persone. La divulgazione scientifica, come qualsiasi altra forma comunicativa diversa dal mero intrattenimento, ha iniziato a sfruttare questi mezzi a proprio vantaggio per raggiungere il maggior numero di persone. Ne consegue che una divulgazione online efficace abbia bisogno di un certo grado di intrattenimento: è indubbio che i “mi piace” e il livello di gradimento vengano influenzati anche dalla capacità di intrattenere il pubblico;
· collegamento con la conoscenza cognitiva ed esperienziale pregressa degli utenti: il collegamento con la vita quotidiana di tutti è uno dei fattori cardine che influenza il gradimento e l’engagement degli utenti, andando a stimolare esperienze e conoscenze personali accumulate nel tempo;
· effetto wow ed effetto “Gioconda”: con effetto wow non ci riferiamo alle esplosioni chimiche tipiche dei programmi americani, ma ci riferiamo allo suscitare stupore con qualcosa che nessuno si aspettava e che funge da nuova scoperta che entusiasma le menti; con effetto “Gioconda”, definizione coniata per la prima volta dal narratore, teatrante e Youtuber Roberto Mercadini, si intende la proposta di contenuti particolari su un argomento noto a tutti (tutti conoscono la Gioconda ma pochi sanno qualcosa su quel famoso dipinto).
Se possiamo affermare, confortati dai dati quantitativi e qualitativi, che il successo in termini di riscontro da parte del pubblico e di dimostrazione di interesse c’è stato, nulla possiamo dire sull’effettiva portata di questo successo e sulle eventuali ricadute sull’apprendimento delle persone. I dati che si possono ottenere dall’analisi del traffico nei canali social, infatti, non danno un ritorno su eventuali modifiche di pensiero o di comportamento degli utenti. Uno strumento che i social media hanno reso disponibile finora e che può essere utile a tale scopo è il quiz o sondaggio, che però viene raramente proposto dai divulgatori, in quanto poco utilizzato dal pubblico e quindi disincentivato anche dalle piattaforme e dall’algoritmo. Ciò porta a sottolineare i limiti dell’attività divulgativa con i social media, che è fortemente condizionata dall’impostazione data dai gestori della piattaforma e dalla conseguente necessità da parte del content creator di fare marketing di sé stesso e di incrementare la propria community. Quest’ultima ha un comportamento condizionato dalla tendenza degli utenti della Rete a soffermarsi mediamente pochi secondi su ogni contenuto, producendo una fruizione tendenzialmente passiva, nonostante i social media siano nati proprio per stimolare engagement e partecipazione.
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