Umberto Margiotta and the study of Kant: Between history, morality and education
Umberto Margiotta e lo studio di Kant: Tra storia, morale ed educazione
ABSTRACT
Umberto Margiotta published his extensive research on the famous German thinker (more than 300 pages) in 1974, highlighting not only a profound knowledge of the subject but also, more generally, of the German culture of the time. The most interesting thing, however, is the originality of the treatment that identifies the human being at the center of a dialectic nature-culture in which history marks the evolutionary passages of education. Education that does not offer certainty, but rather involves risky choices. More generally, the focus on the theme of history in relation to education is the core of an investigation project that identifies in the philosophy of education the symbolic interpretation of individual feeling within the horizon of history. Hence, the conviction in the German philosopher that in the universal historical process there is a single end worthy of our specific nature. Kant is a philosopher of the Enlightenment, but, Margiotta points out, in some way he transcends its perspective precisely in pedagogical reflections. Thus, emerges an idea of education that, by its moral, religious and political implications, connotes a restless Modernity, between development needs and conservative resistance. This article wants to highlight the specific analysis that a young Umberto Margiotta offers us of Kant’s work. In this very refined analysis we see the first vital ferments of his pedagogical theory.
Umberto Margiotta dà alle stampe il suo corposo lavoro di indagine sul celebre pensatore tedesco (più di 300 pagine) nel 1974, mettendo in luce non salo una profonda conoscenza dell’argomento ma, più in generale, della cultura tedesca dell’epoca. Ciò che, tuttavia, ci sembra più interessante è l’originalità della trattazione che individua l’essere umano al centro di una dialettica natura-cultura nella quale la storia segna i passaggi evolutivi della formazione. Una formazione che non offre certezze, anzi, che implica scelte rischiose. Più in generale, l’attenzione al tema della storia in relazione a quello dell’educazione rappresenta il fulcro di un progetto d’indagine che individua nella filosofia dell’educazione l’interpretazione simbolica del sentire individuale entro l’orizzonte della storia. Di qui, la convinzione nel filosofo tedesco che nella trama del processo storico universale vi sia un unico fine degno della nostra specifica natura. Kant è filosofo dell’Illuminismo, ma, sottolinea Margiotta, in certa misura ne trascende la prospettiva proprio nelle riflessioni pedagogiche. Emerge così un’idea di formazione che per le sue implicazioni morali, religiose e politiche connota una Modernità inquieta, tra esigenze di sviluppo e resistenze conservatrici. Questo articolo vuole porre in luce lo specifico dell’analisi che un giovane Umberto Margiotta ci offre dell’opera di Kant. In questa raffinatissima analisi ravvisiamo i primi vitali fermenti della sua teoresi pedagogica.
KEYWORDS
Universal History, Moral Education, Feeling, Behavior, Finalism
Storia Universale, Educazione Morale, Sentimento, Comportamento, Finalismo
CONFLICTS OF INTEREST
The Author declares no conflict of interest.
RECEIVED
November 11, 2025
ACCEPTED
May 25, 2025
PUBLISHED
May 30, 2025
1. Introduzione: Antropologia, storia e progresso
Dalla prima pagina della presentazione del proprio lavoro Margiotta ci ricorda un dato di fatto: “È usuale riferirsi alle Lezioni di Pedagogia pubblicate dal Rink e a poche pagine dell’Antropologia Prammatica per presentare il pensiero pedagogico di Kant” (Margiotta, 1974, p. 3). Evidentemente vi è la convinzione che occorra andare oltre, scavare nell’ampia produzione del pensatore di Königsberg per cogliervi elementi di straordinaria importanza e di indubbia modernità, ad esempio nel soffermarsi sul sentimento individuato come radice del processo formativo. Si scopre, tra l’altro, nel percorso scandito dallo studioso italiano che Kant ha riconosciuto l’impossibilità di un tracciato sicuro relativamente ai passaggi costruttivi in educazione; inoltre, secondo un’affermazione dell’Antropologia prammatica, l’educazione stessa si presenta come idea dell’impotenza della ragione. Diviene indispensabile, allora, andare alla ricerca della regola del formarsi, che riguarda l’universo al pari dell’uomo.
Per questo è così significativo per lui riflettere sull’evoluzione storica dell’umanità, perché qui il sentimento fluisce all’interno dell’argomento progresso, così come nei temi politico-sociali e civili. Del resto, suggerisce Margiotta, “il sentire costituisce l’inconscio modulo connettivo della prima fondazione critica del conoscere (Critica della Ragion pura)” (Margiotta, 1974, p. 3). E, poiché la questione educativa si intreccia con quella storica, è opportuno rilevare che la messa a punto concettuale del sentire implica, in Kant, dare ordine sistematico alla “natura organica, teleologica, processuale e simbolica del divenire, sia esso cosmico che storica, individuale o sociale” (Margiotta, 1974, p. 4). Ma, riferendoci ancora all’Antropologia Prammatica, l’Educazione del genere umano implica l’azione provvidenziale che si traduce in sapienza dell’umanità, dove si percepisce la difficoltà nello svincolarsi dalla tradizione pietistica inculcatagli dall’educazione religiosa materna. Ciò nulla toglie al peso della sua indagine antropologica ma, al tempo stesso, lascia trasparire un dubbio, messo in luce dallo studioso italiano, sulla sua “corresponsabilità” relativa al mantenimento in essere autoconservativo del pensiero borghese illuminato:
“Insomma la ragione kantiana è semplicemente un organo di calcolo, di pianificazione, di coordinazione (come sostiene Adorno in Dialettica dell’Illuminismo), o non piuttosto, come noi crediamo momento di costruzione estensiva per il tramite inventivo-operativo del giudizio?” (Margiotta, 1974, p. 6).
Che la ragione illuministica sia divenuta strumentale, favorendo il dominio capitalistico sulla natura e sugli esseri umani, come sostengono Horkheimer e Adorno nella loro opera (1966), è per noi un dato di fatto; ciò non implica che Kant ne sia stato un fautore consapevole anche se il suo pensiero può essere stato oggetto di un impiego estraneo alla sua volontà.
2. I Concetti dell’Educazione
È noto che il filosofo tedesco nella Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (Kant, 1784) aveva scritto che esso rappresenta “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità”, una condizione durata a lungo nel tempo non tanto per debolezza intellettiva, quanto piuttosto per “mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro” (Kant, 1956, p. 134).
Uscire dallo stato di minorità ha un preciso significato educativo che si traduce, secondo Margiotta,
“nell’apprendere, da parte dell’uomo, ad abbandonare il meccanismo della necessità naturale; a distinguere nella massa infinita di condizionamenti estrinseci e di fatti storici (della storia di un singolo uomo) quelle regole che, riconosciute come principi universali, gli permettono di attuare i suoi scopi esistenziali” (Margiotta, 1974, pp. 13–14).
Si tratta di una nuova nascita che implica l’acquisizione dell’autonomia consapevole, concretizzantesi per distinzione e riflessione. Quest’ultima, in particolare, rende possibile l’esperienza del passaggio dalla potenza all’atto ed è simbolo del progredire: una possibilità tendenzialmente senza confini che non dipende tanto dai metodi educativi “quanto da ciò che la natura umana farà in noi e con noi per costringerci a seguire una via alla quale noi da soli non sapremmo facilmente adattarci” (Kant, 1969a, p. 7, corsivo nostro).
Nelle Annotazioni alle Considerazioni sul sentimento del bello e del sublime (frammenti databili tra il 1764 e il 1768) Kant rende conto di un debito nei confronti di Rousseau, che lo avrebbe avviato a un primo risveglio dal “sonno dogmatico”, che ebbe un seguito più noto e rilevante con il pensiero di Hume. È il filosofo ginevrino a far sorgere in lui nuovi pensieri e nuove modalità di approccio all’’uomo nel suo essere naturale e sociale. Sono i due Discorsi (il primo sulle scienze e le arti, il secondo sull’origine della ineguaglianza tra gli uomini) ad aprirgli la strada verso un’antropologia più complessa, in grado di approfondire lo sguardo sulla natura, la morale, la società; tutti elementi vitali dell’esistenza di ognuno. E ciò non basta poiché, come annota lo studio critico del filosofo dell’educazione italiano, vi è “soprattutto uno stimolo a pensare criticamente il problema della storia […], e al destino dell’umanità” (Margiotta, 1974, p. 116). Ad affascinare Kant nel pensiero di Rousseau è in primo luogo l’attenzione al senso originario dell’uomo, quel suo appartenere alla natura che suggerirebbe una sorta di bontà di partenza, benché facilmente corruttibile, tanto da indurlo a ritenere possibile una provvidenza “che non sia più speculativa, ma pragmatica e morale” (Margiotta, 1974, p. 117). Non è trascurabile accennare al legame profondo del pensatore tedesco con la madre, oggetto di una vera e propria venerazione. È da lei che eredita il rigorismo pietista con il quale dovrà fare i conti quanto più andrà sviluppando le proprie riflessioni filosofiche, senza trascurare l’argomento relativo al male, che sembra talora assumere aspetti ossessivi. Se ciò ha rappresentato una forma di condizionamento nella prima fase formativa, ha avuto pure il merito di favorire in lui l’amore vivo per il mondo della natura: “il creato fu il costante oggetto della sua indagine, il continuo termine di paragone dei risultati delle sue ricerche, il persistente richiamo estetico all’extrema ratio della sua filosofia” (Margiotta, 1974, p. 65).
A questo punto, però, è auspicabile un ritorno alla natura come quello sostenuto con estremo vigore da Rousseau? È credibile che l’uomo possa essere buono in natura e corrompersi nella vita civile? Nella riflessione kantiana si giunge a considerare che l’essere umano può nello stato originario essere buono ma senza virtù ed anche capace di fare uso della ragione senza scienza. Il male che si presenta nella società può essere arginato dalla conoscenza, da quel sapere scientifico che ha grande rilevanza nello sviluppo delle possibilità umane ma, ci ricorda Margiotta, “La fiducia pragmatica nella scienza, la certezza dei benefici che essa può recare all’umanità è tanto viva quanto la consapevolezza della vanità e della illusione che essa procura all’uomo ignaro dei suoi limiti” (Margiotta, 1974, p. 119). L’indicazione che emerge sempre più dalle riflessioni del filosofo tedesco sull’argomento è che non si può separare la natura dalla storia e l’evoluzione dell’umanità, perciò, va giudicata fin dall’inizio attraverso il processo di sviluppo etico, in un soggetto che è al contempo naturale e sociale, processo che rappresenta la più determinante questione educativa.
Vi è un fattore di centrale rilevanza che lo studioso italiano mette in luce nella sua analisi: la complessa relazione tra il sentire e il volere. Per Kant si tratta di una vera e propria lotta dalla quale il secondo deve uscire vincitore, poiché “L’esperienza insomma deve essere fatta, non può essere ricevuta come qualcosa di già dato” (Margiotta, 1974, p. 86). In quel “farsi” si mette alla prova la nostra volontà di costruire e inventare, che è qualcosa di diverso dal conoscere che “giudica”, in quanto nel suo caso “desidera”. La conclusione cui perviene Margiotta è degna di nota:
“Si opera la crescita e la formazione integrale della personalità umana, quando l’educando apprende a superare il momento del liberum arbitrium indifferentiae, perché in esso trova un vivere orizzontale, non processuale; e lo supera solo allorché apprende a non pretendere di conciliare il cognitum con il volitum, ma il nosse con il velle, articolando questa sua consapevolezza in gradenti esperienze evolutive” (Margiotta, 1974, p. 87).
Vi sono alcuni elementi che è necessario mettere in rilievo soprattutto perché possono avere un significato nel presente: l’integralità formativa è possibile solo quando chi apprende supera un libero arbitrio che non è capace di andare oltre l’orizzontalità. Al tempo stesso occorre imparare a trattare con consapevolezza la relazione processuale conoscere-volere al fine di conseguire effetti evolutivi.
L’essere umano deve convivere di necessità con le contraddizioni che lo caratterizzano: ad esempio il bene e il male, la libertà e l’arbitrio; ma ha a disposizione a differenza degli altri animali la razionalità. E proprio su questa il pensatore tedesco prende le distanze dall’Illuminismo, dal suo razionalismo compiaciuto che giudica il passato, con una sostanziale indifferenza per la storia, un cumulo di errori. Kant si interroga su passato, presente e futuro, con sguardo attento al valore dell’esistenza sia individuale che collettiva e, di conseguenza, si interroga Margiotta suo interprete nella contemporaneità:
“Quale è il significato e il valore della nostra esistenza? Il fine della nostra vita deve essere la felicità da conquistarsi o la perfezione, mai raggiunta, né raggiungibile, e pertanto più che mai viva nella coscienza dei singoli e della specie?” (Margiotta, 1974, p. 256).
In realtà il filosofo tedesco si interroga, oltre che sul singolo e la specie, anche sulla natura nel suo significato più alto, che è l’ordine delle leggi fisiche – egli fu molto influenzato dagli studi di Newton - ma anche l’ordine morale e spirituale che trova la propria realizzazione progressiva nell’uomo. Per questo teorizza un corso della storia che va dal peggio al meglio, precisando che la storia della specie segue un itinerario differente da quella dell’individuo: “il suo interesse prevalente è rivolto alla indagine sulla evoluzione e sul processo della specie, senza con questo mai rinunciare a considerare l’individuo nella sua dignità di persona e nel suo valore assoluto” (Margiotta, 1974, p. 257).
La visione kantiana della storia segue due percorsi che non implicano una sintesi. Il primo è di carattere pratico e implica un’ermeneutica del soggetto in chiave teleologica, essa è rispondente alle esigenze etiche progressive e orientate al fine. Il secondo è di carattere teoretico, considera la storia come scienza attenta alla causalità degli eventi e al loro meccanicismo, che esclude ogni finalità. In sostanza considera Margiotta: “per Kant il processo storico universale che è il vero progresso nella storia, non si identifica con il progresso morale dell’umanità ma solo con il processo di costituzione della storia civile” (Margiotta, 1974, p. 259); l’unico effetto sulla vita del soggetto umano consiste in un progresso esteriore sul piano della legalità, che non produce alcun effetto sulla morale frutto di interiorità. Ma una storia trattata al pari di una “scienza naturale” con le sue pretese di universalità è, in realtà vuota, secondo il Nostro epistemologo, il quale chiarisce:
“Il vero universale è solo universale concreto, così come la vera, reale storia è sempre e solo la storia particolare, suscitata da determinate esigenze di carattere pratico, politico o etico, e dalla conseguente indagine teoretica di determinati, concreti e pertanto particolari problemi” (Margiotta, 1974, p. 265).
Del resto, Guicciardini ci insegna che non possiamo pretendere di giudicare le cose del mondo attraverso regole universali e necessarie, anzi il nostro compito è di valutarle e risolverle giorno per giorno (Guicciardini, 1951, p. 114).
Nello scritto Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), Kant si ripropone una procedura d’indagine indubbiamente rischiosa: “ricercare nella storia, nelle stesse infinite storie, irregolari e spesso contraddittorie manifestazioni degli individui un filo conduttore che possa dar loro significato e valore” (Margiotta, 1974, p. 266). Alla fine egli individua una “tendenza” della specie allo svolgimento graduale ed unitario della ragione; una sorta di rassicurante posizione sul terreno educativo si potrebbe dedurre; ma l’interprete italiano si fa decisamente critico rispetto alla
“concezione dualistica, propria di ogni filosofia della storia, tra i fatti storici e il pensiero, che sta al di sopra di detti fatti, anziché essere pensiero di questi fatti; la ricerca dello svolgimento della storia, che è conoscibile solo nella totalità delle manifestazioni umane, e la conseguente storia universale con il suo piano generale” (Margiotta, 1974, p. 267, corsivi nostri).
L’arbitrarietà della costruzione teorica è quanto mai evidente quando si giunge a immaginare che tanto i popoli quanto gli individui, tendenti a realizzare i loro scopi, in realtà stanno seguendo una strada già tracciata della quale non sono consapevoli. In quest’ottica si può prevedere uno Stato perfetto in fieri così come una Pace perpetua, mentre il Progresso si caratterizza come ideale degno di valore, non conoscitivo ma regolativo del “tutto”: dal cosmo agli esseri umani. La questione della storia universale ha radici antiche, Kant non si sottrae al fascino di un disegno razionale superiore, benché costrittivo:
“A subire questo stato di coazione l’uomo, a cui pure la libertà senza limiti sarebbe così cara, è costretto dalla necessità, e precisamente dalla maggiore di tutte le necessità, quella di sottrarsi ai mali che gli uomini si recano a vicenda” (Kant, 1969b, p. 10).
Di qui la metafora del bosco dove gli alberi stipati gli uni vicino agli altri si danno un ordine e crescono diritti, mentre nella solitaria libertà crescono “storti e tortuosi” espandendo confusamente i loro rami.
3. L’Educazione morale
La traccia della storia universale ha in Kant anche il preciso scopo di indirizzare il discorso sull’educazione su di un binario sicuro, in particolare nella sua dimensione pratica e morale e, quindi, rivolta a favorire le abilità, l’uso teorico-pratico dell’intelligenza, il comportamento adeguato secondo le regole. Il filosofo la immagina come un percorso che passa da una generazione alla successiva nella direzione di una realizzazione piena dell’umanità, che mira alla perfezione. Margiotta fa notare che “Kant elaborò la sua filosofia pratica in varie opere tutte miranti a definire razionalmente l’autonomia del volere rispetto al sentire, ad affermare il primato dell’imperativo categorico sul sentire e sul conoscere” (Margiotta, 1974, p. 159). Per questo è importante rendere conto del significato profondo dell’educazione morale nelle strategie di pensiero del filosofo tedesco, a partire da una nota immagine che potrebbe valere come punto di partenza:
“La moralità consiste […] nel rapporto di ogni azione con quella legislazione che è la condizione de regno dei fini. Ma questa legislazione deve valere per ogni essere ragionevole e deve poter derivare dalla sua volontà, secondo questo principio: non compiere alcuna azione secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come legge universale, cioè tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente sé stessa come universalmente legislatrice” (Kant, 1986, p. 93).
Sono presenti qui alcuni elementi centrali della ragion pratica, ma ciò che più conta in relazione al taglio del nostro discorso è l’effetto che essi suscitano sul versante formativo, dal momento che le massime, e non la disciplina, stanno alla base della formazione del carattere.
Ciò implica che, fin dalla fanciullezza, sia possibile in modo intuitivo imparare ad agire secondo principi ragionevoli; ma non bisogna farsi illusioni da parte di genitori ed educatori, i quali devono comprendere che l’educazione morale dei figli-alunni richiede loro avvedutezza e perspicacia. Strategie che richiedono pazienza, continuità d’impegno, piena fiducia nell’educabilità del soggetto. Scrive l’autore: “Le massime devono scaturire dall’anima stessa dell’uomo” e, tuttavia, il fanciullo va condotto a prendere coscienza delle idee di bene e male tramite l’impegno dell’adulto, tenendo conto che “Lo scopo principale dell’educazione morale dev’essere la formazione del carattere il quale consiste nell’abituarsi ad agire secondo massime, che dapprima sono le regole della scuola e in seguito le massime dell’umanità” (Kant, 1966, p. 101). Oggi l’idea stessa della formazione del carattere è scomparsa di scena, quasi che i bambini nascessero già auto-formati, “perfetti” a tal punto che non è più necessario che rispettino le regole del luogo di apprendimento. Inutile dire che adolescenti, giovani e, infine adulti, privi di basi di partenza consolidate saranno difficilmente capaci di orientare la loro vita morale, ad esempio, seguendo la seconda massima della ragion pratica: “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo” (Kant, 2014, pp. 67, 68). Se non si interiorizza il fondamento razionale comune di tale massima risulta impossibile riconoscere il valore della dignità umana.
Il filosofo tedesco, nel Programma del corso universitario del 1765-66, afferma che “non bisogna insegnare pensieri ma insegnare a pensare, non portare l’allievo ma guidarlo”; e va inteso quel portare nel senso di farsene carico senza riconoscergli alcuna autonomia, mentre è proprio l’autonomia intellettuale, kantianamente, il punto d’arrivo per l’esercizio della libertà. Ma ciò non può verificarsi in assenza dell’educazione morale, consistente nell’adesione autonoma della volontà alla legge, in quanto è l’uomo stesso il legislatore del proprio comportamento. Ciò non significa trascurare questioni più specifiche dell’apprendere e del conoscere, che non mancano di fascino ancor oggi, è il caso dell’attenzione rivolta all’immaginario: “La regola principale è che nessuna attività dello spirito dev’essere coltivata per sé sola, ma sempre in relazione alle altre; per esempio l’immaginazione a vantaggio dell’intelletto” (Kant, 1966, p. 90). Al di là della valorizzazione delle relazioni che intersecano tra loro più saperi, anche al fine di demitizzare le gerarchie nella conoscenza, colpisce la precisa scelta dell’esempio: l’immaginazione rafforza l’intelletto e amplia le potenzialità creative, come hanno sostenuto nel corso del Novecento, con affascinanti indagini sulle potenzialità umane, il filosofo della scienza, ma anche della fantasia sognante (rêverie), Gaston Bachelard e il suo allievo antropologo Gilbert Durand.
L’originalità dello studio di Margiotta sul pensatore tedesco consiste nell’aver indagato l’impatto della sua filosofia pratica, negli ultimi anni di vita, a contatto con il tema della storia universale, tenendo conto che in essa l’educazione rappresenta un “fatto sociale” tramite il quale la società procede sulla via dello sviluppo-progresso universale. Nello studioso italiano emerge la convinzione che
“Kant ricercasse appunto nel momento sociale il proprium universale del processo di sviluppo della ragione; cercava cioè l’universale nel mentre del suo farsi, analogamente rispecchiantesi nel mondo interiore della formazione del singolo metodicamente attuantesi in esso per il tramite del giudizio” (1974, p. 163, corsivi nostri).
Una razionalizzazione, quindi, di mondo esteriore ed interiore nel loro attuarsi, il primo alla luce della scienza fisica, il secondo sotto l’egida dell’imperativo categorico e perciò del primato del dovere. La legge morale viene riconosciuta dalla coscienza come un “dover essere” che non ha a che fare con la realtà fenomenica, per questo assume i caratteri dell’incondizionato, del necessario, dell’universale ma, si chiede Margiotta, quale sia la forma di volontà che esige la legge morale: “essa non può che essere la razionalità stessa. Cioè qualunque sia il fine concreto del nostro volere, esso è buono, quando ha il carattere della razionalità” (Margiotta, 1974, p. 166).
Il massimo sforzo di Kant è orientato a sostenere il valore assoluto della legge morale nella sua universalità, mentre il mondo dell’esperienza rappresenta il teatro in cui si esercita la vita morale che ha il suo perno nella coscienza, che deve restare “pura” al fine di dominare le passioni suscitate dal mondo sensibile: “Perciò anche il principio fondamentale dell’educazione è di destare e mantenere viva nel giovane, con gli accorgimenti corrispondenti all’età, la coscienza del dovere” (Margiotta, 1974, p. 169). Lo scopo principale non è preparare i soggetti in fase di apprendimento a “compiti particolari” ma a crescere nella consapevolezza della propria autonomia e del ruolo peculiare che possono esercitare nella società in cui vivono. Nella comunità dove si esercita il senso della vita politica – è bene ricordarlo – vi devono essere dei principi: la libertà in conformità alle leggi, l’eguaglianza come diritto umano inviolabile, l’indipendenza civile, per la quale va sottolineata l’estraneità del filosofo di Königsberg ad ogni dominio dell’uomo sull’uomo tipico del colonialismo europeo. Per lui, inoltre, lo Stato deve assumere il sistema rappresentativo repubblicano e prevedere la tripartizione del potere (legislativo, esecutivo, giudiziario).
Aggiunge Margiotta una precisazione importante: “è tuttavia da notare che il diritto e l’ordine di diritto non sono fine a sé stessi. Essi sono essenzialmente uno strumento della vita morale. Una garanzia della libertà esteriore per il trionfo della libertà interiore” (Margiotta, 1974, p. 170), dove non può sfuggire il primato dell’interiore sull’esteriore, dello spirito sulla materia, della morale sulla politica. È sicuramente arduo il problema di stabilire come la ragione sia in grado di dare il proprio input alla volontà e, di conseguenza, “alla pura legge di cui è fornita”. Per Kant non vi può essere legge nell’uomo in assenza di libertà, ammetterla a priori significa liberarla dai condizionamenti dell’esteriorità empirica, soprattutto da orientamenti morali che non possono essere accettati come tali quando si ispirano all’edonismo o all’utilitarismo. Ciò non significa che la virtù debba essere considerata fine a sé stessi; osserva infatti Margiotta che “la felicità costituisce pure la conseguenza della virtù, nel senso che la morale non insegna agli uomini come divenire felici, ma come rendersi degni della felicità” (Margiotta, 1974, p. 175).
L’intento kantiano di fondare un’etica universale corrisponde ad una chiara volontà di evitarne il condizionamento da parte di biologismi, psicologismi e sociologismi prevaricatori, nella convinzione che l’agire etico abbia il compito essenziale di garantire la convivenza nell’uomo tra il regno della necessità sensibile e quello intelligibile dalla libertà: “un’azione è morale solo quando è a tal punto disinteressata da escludere ogni inclinazione e istinto sensibile” (Margiotta, 1974, p. 178). Kant è convinto assertore di una moralità che deve essere assoluta e radicale per affrontare lo scontro con il mondo fenomenico e deterministico. L’atteggiamento radicale, scrive Rigobello: “è […] un atteggiamento di natura polemica ove la richiesta assolutezza dell’azione deve confrontarsi con la complessa varietà del contesto esperienziale, esistenziale, storico, in cui l’azione deve configurarsi” (Rigobello, 1972, p. 89). Perché la radicalità è essenziale per comprendere il fondamento della pedagogia kantiana? La chiave di lettura di Rigobello è significativa e convincente:
“Ogniqualvolta si intende educare si ripropone una visone radicale della realtà, una visione spregiudicata nel presentare un dover essere ideale che contesta ogni compromesso, ogni consuetudinaria cristallizzazione. La presentazione radicale di una idealità comporta una insofferenza verso la storia, ossia verso l’esperienza storica essenzialmente mediatrice” (Rigobello, 1972, p. 23).
Sarebbe importante anche nel presente che coloro che si assumono la responsabilità di insegnare fossero in grado di condividere l’esperienza di questa radicalità liberatrice con i propri allievi, rifiutando compromessi e tristi quotidianità mediate da una storia scritta dalla parte che conta. Non è esagerata l’affermazione del poeta Hölderlin del 1799: “Kant è il Mosè della nostra nazione”, dove si sottolinea nell’opera del filosofo non solo l’innovazione della cultura nazionale, ma la vocazione profetica per una nuova epoca.
4. Conclusione: i fermenti di una teoresi educativa
Nella sua Antropologia prammatica Kant giunge alla conclusione di un’urgenza educativa volta a sostenere la volontà di vivere con coerenza la propria piena responsabilità: “Ma vivere secondo ragione significa, per Kant, soprattutto responsabilizzare in modo attivo il soggetto agente, sia il fanciullo (cfr. l’educazione del carattere) sia l’uomo, soggetto responsabile di vita comunitaria e sociale (cfr. didattica antropologica)” (Margiotta, 1974, p. 183). Lo studioso italiano mette in rilievo, a nostro parere opportunamente, che il filosofo tedesco con la sua “pedagogia dell’intenzione morale pura” non intendeva farsi sostenitore di un principio di educazione borghese all’altezza del compito. Anzi nella radicalità etica, con la quale si sostiene l’integrale partecipazione alla vita della comunità, si orienta l’educazione morale ad una educazione politica che non può essere privilegio di una classe o di un gruppo di potere. Ma, al di là delle intenzioni,
“l’assoluta purezza della libertà […] finì storicamente per essere manipolata ideologicamente dalla classe al potere, finì per contraffarsi quale giustificazione dell’impotenza individuale ad agire in una società ipostatizzatasi nel codominio assoluto della Ragione sulla ragione” (Margiotta, 1974, p. 185).
È qui dove il mito della storia universale – sostenuto dalla Ragione con la R maiuscola – sancisce il diritto del più forte a tal punto che la classe dominante, ha sostenuto Benjamin, si impossessa del patrimonio culturale dei popoli e lo addomestica per i propri fini (Benjamin, 1997, tesi VIII). In tali condizioni il modello educativo si fa meccanico, incline a sostenere le ragioni tecniche per la produzione e a togliere peso ai saperi umanistici, che potrebbero mettere in discussione l’apparato gerarchico di Stato. Alla fine si può considerare, assieme all’allora giovane interprete italiano, che in Kant convivono due anime. La prima lo vede “interprete entusiasta, anche se inconsapevole delle radicali conseguenze storiche, dell’aspirazione borghese al dominio sulla natura e sull’empirico operante in ogni individuo” (Margiotta, 1974, p. 187). Tale è l’anima riformata, che risente del protestantesimo e in particolare del pietismo. La seconda, invece, è l’anima irenico-universalistica che, attraverso la mediazione leibniziana, “non cessò di innervare profondamente la ricerca del pensatore di Königsberg” (Margiotta, 1974, p. 188).
Forse si può azzardare, in conclusione, che per certi aspetti questa seconda giunga a prevalere sull’altra proprio quando l’autore tratta del valore educativo dell’idea di storia, che Margiotta ritiene “centrale”. È in quella interpretazione della storia di matrice simbolica, quando va a sondare i vissuti autentici dei soggetti, che ci sembra di scorgerla. L’educazione per Kant non è solo istruzione ma è anche educazione dei talenti, quest’ultima attiene alla sfera del dovere e si connota di una potente tensione morale. Come testimonia il volume La formazione dei talenti (Margiotta, 2017) questo tema diventa centrale nella riflessione più matura di Margiotta. Infine, possiamo osservare come, nella Metafisica dei costumi, per comprendere la natura dell’Educazione sia indispensabile risolvere ogni tentazione oppositiva e giungere a coglierne lo specifico entro il più ampio concetto di Formazione affinché la consapevolezza del proprio dovere morale di formarsi per sviluppare i propri talenti sia da sprone all’azione.
Qui, dove il sentire
“si illumina di una vitale dimensione processuale nella fruibilità educativa del fanciullo, è possibile sovrapporre al corso meccanico della natura un atto della riflessione finalistica, cioè considerare lo svolgimento storico dal punto di vista del fine, e con ciò impostare progettualmente l’educazione stessa degli uomini” (Margiotta, 1974, p. 305).
Riferimenti bibliografici
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