The Young Umberto Margiotta as an Interpreter of Augustine’s Pedagogy
Il giovane Umberto Margiotta interprete della pedagogia agostiniana
Anita Gramigna
Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Ferrara (Italy) – grt@unife.it
https://orcid.org/0000-0001-9147-8832
This investigation does not have a celebratory intent—even though it deals with a great maestro of educational-philosophical research. Instead, this work aims to critically illustrate one of his developmental stages as a young intellectual—that is, a 26-year-old young man—who curated an edition of Aurelius Augustinus Hipponensis’ De Magistro for I Maestri del Pensiero [The Masters of Thinking], a book series published by Ernesto Germese. Margiotta, the Apulian scholar, advantaged himself through a broad and cultured introduction, which moves from the character of a rhetorician to the pedagogical stream of patristics, and from Augustine’s experience as an educator to the semantic specificity of his De Magistro. We hereby undertake the task to highlight the elements of originality in Margiotta’s interpretation, his coherence in assessing the peculiarity of the Christian educational message, as well as the singularity of the figure of Augustine, whose confessed life story—well beyond its radical self-educational commitment—still stands as a milestone for the strenuous and painful conquest of a personal identity resulting from the quest for truth. In the analysis of Margiotta’s reflection, this work employs a hermeneutic epistemological framework and a qualitative methodological approach.
Questa indagine non ha intenti celebrativi, sia pure per un grande maestro della ricerca filosofico-formativa, ma vuole rappresentare un momento di attenzione critica al lavoro di un giovane intellettuale – all’epoca ventiseienne – che cura l’edizione del De Magistro di Aurelio Agostino per la collana “I Maestri del Pensiero” dell’editore romano Ernesto Gremese. Lo studioso pugliese si serve di un’ampia e colta introduzione che passa dalla figura del retore alle linee pedagogiche della patristica, dall’esperienza di Agostino educatore alla specificità semantica del suo De Magistro. A noi preme sottolineare gli elementi di originalità presenti nell’interpretazione, la coerenza nel valutare la peculiarità del messaggio educativo cristiano e la specificità della figura di Agostino, la cui storia di vita confessata, al di là dell’impegno formativo radicale, rimane una pietra miliare della conquista, faticosa e dolorosa, di un’identità quale esito di ricerca della verità. Nell’analisi della riflessione di Margiotta si è utilizzata una cornice epistemologica di tipo ermeneutico e un approccio metodologico qualitativo.
Margiotta, Augustinian pedagogy, Spirituality, Truth, Semantics
Margiotta, Pedagogia agostiniana, Spiritualità, Verità, Semantica
The Author declares no conflicts of interest.
October 16, 2024
December 5, 2024
January 21, 2024
Nelle pagine iniziali, Umberto Margiotta ci descrive il diciassettenne Agostino che raggiunge Cartagine per dare inizio ai propri studi. Nella metropoli africana egli vive una sorta di stordimento poiché “L’adolescente sembra desiderare il desiderio più che l’amore” (Margiotta, 1973, p. 7). Il fatto è che gli studenti, anche allora, rappresentavano gruppi di persone inquiete che generavano scompiglio, disordine, spesso incompatibile con le regole del vivere civile. Del resto, lo Agostino ci ha lasciato una traccia straordinaria della propria esperienza nelle Confessioni: “Commettono con sorprendente stupidità degli atti ingiuriosi per cui sarebbero condannati dalla legge, se la consuetudine non li proteggesse, rivelandoli tanto più cattivi” (Agostino, 1961, V, 8). Il retore in erba non condivideva i comportamenti dei propri compagni, eppure, in qualche modo non mancavano segni di amicizia e condivisione.
Com’è noto, è la lettura dell’Ortensio di Cicerone a porre le condizioni di un cambiamento di vita ad Agostino, il quale ricorda che erano state le cose dette in quell’opera a incidere sulle sue scelte e non le parole. Infatti, egli abbandonerà la pratica diffusa dei fora litigiosa, che erano stati la ragione stessa del suo arrivo a Cartagine: “Quei fora appresentavano la situazione storica e l’ideale di cultura dei suoi tempi: un mercato di chiacchiere e di vane menzogne”, così si esprime Margiotta (1973, p. 8) con richiamo a Patané (1967, pp. 38 e ss.). Si trattava di una cultura caratterizzata dallo studio di grammatica e letteratura che doveva formare il vir eloquentissimus, secondo l’ideale di humanitas proposto da Cicerone: “ideale scaturito nella società romana dall’incontro con l’ellenismo e che si rifaceva al tipo di educazione propugnato, nella figura di Socrate, alla Scuola di Atene del IV secolo a. C.” (Margiotta, 1973, p. 9). Ai tempi di Agostino, lo studio della grammatica era basilare, sia come teoria della lingua, sia come studio delle regole; ma aveva un preciso compito pure nella spiegazione dei classici letterari. Il primo momento della formazione classica era piegato a scopi didattici e didascalici; quindi i lavori di grandi retori e grammatici venivano presentati in forma catechetica, secondo uno schema di regole e tecniche composte nella forma domanda-risposta che durerà fino al Medioevo. Il metodo, sia dei grammatici che dei retori, era strutturato in quattro operazioni: lectio, emendatio, narratio e judicium. Nel primo caso si doveva, attraverso una lettura espressiva, imparare a “gustare” l’opera classica. Nel secondo si esercitava la critica testuale (stile e storia del testo), nel terzo si passava al commento e all’indagine sui motivi ispiratori e, nell’ultimo, si giungeva alla critica estetica, “che a volte si assommava nella critica sulla punteggiatura” (Margiotta, 1973, p. 10).
Osserva Margiotta che l’insegnamento mancava di sintesi ed era orientato ad una piatta orizzontalità, non tanto e non solo “nella tecnica di apprendimento, ma ancor più nelle finalità formative del classico cursus” (Margiotta, 1973, p. 10). L’esito del percorso evidenziava un vero e proprio svuotamento dei valori e dei significati della romanità, tanto che l’educazione si era ridotta a tecnicismo retorico, pressoché estraneo al valore dell’ideale ciceroniano di humanitas. In tale situazione già di per sé problematica, Agostino soffre l’assenza del linguaggio tecnico, dato che la sua è una formazione da autodidatta: “Gli manca una severa disciplina lessicale e la terminologia è fluttuante perché il suo maestro non è Platone, non Aristotele, ma Cicerone.” (Margiotta, 1973, p. 11). Ciò rappresenta un limite ma anche la possibilità di una svolta innovativa, della ricerca di una parola adeguata per esprimere il nuovo, secondo il taglio prospettico dell’inventore che, pur restando un retore, manifestava una solida competenza dialettica. Forse per questa ansia di verità “nuova” si accostò ai manichei e al loro principio dei due opposti: il bene e il male. Ben presto, però, si rese conto che la filosofia di Mani non era una metafisica e, al tempo stesso, non era in grado di competere con la scienza del tempo nemmeno nella forma dibattuta de rerum natura. La sua esigenza, segnalata nelle Confessioni, di dare forma all’idea di sostanza spirituale, lo rese dubbioso anche nell’incontro con il neoplatonismo: “Agiscono simultaneamente sul suo animo tutti gli elementi di pensiero con cui fu a contatto, spunti platonici, accademici, mistici, fisici, indelebilmente radicati nel suo spirito e utilizzati per la sistemazione del suo pensiero” (Margiotta, 1973, p. 14). Le parole di Margiotta sembrano delineare una sorta di mosaico intellettuale dove ogni tessera trova la sua collocazione per giungere al disegno definitivo: “Solo nel Cristianesimo la verità, velandosi dietro le spoglie terrene di altre dottrine gli si disvela come verità interiore, assoluta ed eterna” (Margiotta, 1973, p. 15). È interessante l’interpretazione che gioca sul velarsi-disvelarsi: la verità interiore del Cristianesimo dapprima quasi si nasconde nel vasto campo dei saperi pagani, poi come la potenza della luce si manifesta in tutto il suo splendore. La conseguenza è la conversione perché la verità bisogna viverla pienamente, ma prima è necessaria la metanoia:
“[L]a salutare pazzia, il coraggio di accettare la dedizione all’ignoto, il morire perché il futuro è solo nella speranza, e ciò che è ora imminente è solo la fine. Si tratta solo di volere, voler morire, perché la verità giunge a squassarci internamente per vivere nuovamente” (Margiotta, 1973, p. 17).
È una presa di posizione radicale che sembra insinuarsi con raffinatezza psicologica nelle difficili decisioni del personaggio: il coraggio, la sfida dell’ignoto, la consapevolezza del morire se si vuole una nuova vita, speranza del futuro che implica la salutare pazzia. Ma l’indagine introspettiva dell’interprete va oltre:
“Agostino trapassa l’ambiguità (corsivo nostro) delle parole da cui fino a quel momento si era lasciato guidare. Ambiguità di sensi antichi e nuovi, ambiguità del suo animo incapace di discernere il futuro in un passato di cui pure è totalmente, esclusivamente insoddisfatto” (Margiotta, 1973, p. 17).
E torna nel giovane interprete la metafora del velarsi-disvelarsi nella scoperta di quanto sia difficile essere cristiani: “Il velame ambiguo viene dissolto dal suo volere: egli sa perché vuole, perché in lui si è fatta luce, perché il lui il Logos è immagine, e l’immagine è vita” (Margiotta, 1973, p. 17).
Ci ricorda Margiotta che al culmine della propria metanoia, decisiva per orientare il futuro, Agostino ha l’impressione di ascoltare due parole: Tolle e Lege. Evidentemente simboli di una sostanza portatrice di verità, ma anche di una condizione esistenziale. Per il giovane ermeneuta siamo di fronte ad una pedagogia di vita fondata sul radicale ascolto in interiore homine della verità: “Così la conversione risulta momento dialogico veritativo-emergente essenziale nella posteriore elaborazione pedagogica agostiniana: dialogico perché per enigma la vita si fa immagine di verità e la verità si fa modello di vita” (Margiotta, 1973, p. 18). In estrema sintesi questo è il filo conduttore del De Magistro, quando il retore Agostino giunge alla consapevolezza che l’amata opera ciceroniana, Ortensio, va superata in quanto la sola ragione non basta per la conquista della verità, che ha bisogno dell’opera della luce, come avverte Giovanni evangelista in un celebre passo: “la luce, quella vera, che illumina ogni uomo, veniva nel mondo” (Giov. I, 9). Nella cultura pagana dell’epoca il punto più elevato risiedeva nell’eloquenza; mentre nei Padri della Chiesa, e nello stesso Agostino della conversione, “l’eloquenza è il reale possesso della verità” (Margiotta, 1973, p. 19).
La critica all’educazione classica, allora, si fa chiara e circostanziata, quando il vescovo Agostino pone in rilievo il formalismo poco stimolante del corso di studi che tende a tradursi in diseducazione. Già in Seneca e Plotino era emersa la critica alla “declamazione scolastica” priva di ogni modalità di educazione morale. In particolare Plotino, nella III Enneade, denominata del discepolo Porfirio La dialettica, nella parte ascendente del cammino propone una graduale elevazione, in grado di condurre il soggetto a saper disgiungere il sensibile dall’insensibile e, successivamente, abituarlo a cogliere il fascino dell’incorporeo, nelle virtù, nelle arti e nelle scienze (Plotino, 1947, I, pp. 68-69). In seguito sarà basilare presentare l’insieme delle cose incorporee formando la capacità di individuare l’unità come elemento caratterizzante delle stesse (principio olistico). La dialettica, nello specifico, viene rappresentata come una attitudine naturale volta a concettualizzare l’essere di una cosa e la sua differenza dalle altre. Per Plotino, inoltre, “dopo aver dato tregua al nostro vagabondaggio nel campo sensibile essa si ferma nel regno dello Spirito ed esercita lassù il suo compito” (Plotino, 1947, I, p. 67), in tal modo scarta ciò che risulta vano, inutile, e offre all’anima ciò che serve “nel campo della verità”, facendo propria la distinzione gerarchica delle idee platoniche.
Agostino prende le distanze sia dalla tradizione platonica che da quella aristotelica della dialettica, secondo lui ridotta a scienza sofistica e a semplice eloquio colto. Mentre si sente in sintonia con Plotino per una dialettica come scienza pedagogica o, meglio, arte che insegna ad insegnare e arte che insegna ad imparare. Vi è in tale duplice funzione la consapevolezza del sapere, sia nel senso di una volontà di rendere consapevoli, sia dei mezzi per produrre conoscenza. Osserva lo studioso italiano:
“Quella visione della bellezza, che è tutto per i neoplatonici, è per i cristiani esigenza perfettiva di ascolto della verità che in noi continuamente si disvela, è vita sensuosamente vissuta, è via illuminata dal Cristo interiore, perfezione individuale nella gioia della carità fraterna; è soprattutto amore” (Margiotta, 1973, p. 22).
Il saper vedere la bellezza è per i cristiani prerequisito dell’ascolto della verità. Immagini che provengono dai sensi ma che si rendono efficaci nel disvelamento -ancora una volta metafora che implica la luce – di quel vero vitale che si sintetizza nella via illuminata dal divino interiore, nel perfezionamento individuale, nella gioia della carità e, infine, nell’amore.
In un passaggio introduttivo, che precede l’approdo al De Magistro, Margiotta delinea alcuni elementi pedagogici presenti nei padri della Chiesa che precedettero Agostino. La questione più interessante, per noi, è la rilevanza della lingua e della cultura greca nel Cristianesimo originario, elemento poco conosciuto dai non specialisti che si fermano sulla relazione Antico e Nuovo Testamento, in nome di una continuità, sia pure nella differenza radicale, tra Ebraismo e Cristianesimo. Ci ricorda il giovane interprete:
“Nel Vangelo dunque, l’Ellade non c’è. Ma è presente nelle lettere di Paolo. Il quale fu Giudeo per i Giudei, Greco per i Greci, come richiedeva la sua missione. Ma la lingua di cui si servì fu il greco, ed era di una forza e di una vivacità quale l’antica prosa non conosceva da secoli” (Margiotta, 1973, p. 23).
Al tempo stesso non va dimenticato il Vangelo di Giovanni, e non solo per il Prologo che inquadra il Logos nella prospettiva tracciata da Filone alessandrino, filosofo ebreo di formazione greca, che tentò la conciliazione educativa tra cultura e religione. Opera teologica fondamentale, quella di Giovanni, tanto che gli Ortodossi definiscono teologo l’evangelista. Vi è una coscienza che ha seguito da vicino l’istruzione greca, tanto in Giovanni che in Paolo: “Ed ecco dunque: concetto greco di Logos e concetto ebraico di Legge, coscienza storica e coscienza cosmica convergono nell’insegnamento giovanneo e paolino” (Margiotta, 1973, p. 24). Il cristiano è chiamato a vivere le cose di questo mondo usufruendone, ma nella convinzione di predisporsi ad un compito più alto che richiede amore ed un certo distacco dal quotidiano (M. T. Gentile, 1965, p. 46).
Il fattore educativo determinante è dato dalla discesa salvifica di Cristo in terra. Per salire i gradi del perfezionamento, è indispensabile che l’esperienza di vita predisponga il credente alla comprensione intellettuale, la quale implica la conquista del divino già dal presente terreno. Ed ecco la scoperta di Dio in un vissuto segnato da verità e amore. Il divino del resto “può disvelarsi e si disvela in un unico modo: per imaginem” (Margiotta, 1973, p. 26). L’essenza della pedagogia cristiana, per il giovane filosofo dell’educazione, consiste in questo, seguendo la traccia agostiniana:
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“Ogni immagine […] non è solo racconto, perché, superando le vicende che ne sono il contenuto, punta decisamente ad enucleare il significato. E non è neppure mito, perché le parole stesse rivelano la presenza del divino, pur nettamente distinto dall’umano, nel momento e nel fatto di disvelarsi per mezzo dei segni” (Margiotta, 1973, p. 26).
La vita di Cristo è densa di segni che parlano per imaginem, e diventano fonte del processo educativo; ma nella frase citata Margiotta individua un percorso di solido interesse (linguaggio, comunicazione, significato), che entra con raffinata attenzione nella cultura del Novecento, come avremo modo di considerare. Per il momento teniamo presenti le parole che reciprocamente si richiamano: racconto, significato, mito, segni.
Il processo di salvezza voluto da Dio procede per gradi in parallelo con la vita e l’educazione trova la propria metafora più diffusa già dai primi secoli nel giardinaggio, dove l’educando come ovvio è la pianta. Quindi il soggetto infantile è integrato nel mondo naturale, e proprio dalla natura riceve nozioni di ordine e di razionalità. Non a caso si chiede Paolo a cosa serve la Legge, se non a rendere consapevoli in modo preciso delle trasgressioni, e ribadisce che la venuta di Cristo ha predisposto per il credente un altro progetto, come emerge di frequente nei testi evangelici. Ciò implica una volontà educativa che nell’infanzia fa soprattutto uso di immagini fantasiose ma, crescendo, entrerà nella delicata fase del rapporto maestro-allievo dove la parola è determinante:
“Ma parola (corsivo nostro) è segno espressivo. Ora le parole come le immagini, devono pur essere segni di qualcosa. Certamente non di qualcosa di astratto, il che sarebbe del tutto diseducativo, e farebbe ricadere la pedagogia cristiana nello stesso vacuo formalismo della scuola pagana” (Margiotta, 1973, p. 29).
Di qui la necessità, espressa ad esempio da Tertulliano, di un riferimento all’esperienza diretta del bambino. In una visione più ampia che è presente in Agostino, vi sono chiari elementi educativi indicati da Cristo, tali da suggerire l’emergere graduale del divino nel mondo. Nella relazione allievo-maestro, il parlare si fa processo esplicativo attraverso l’illuminazione, che libera il soggetto in apprendimento dalla funzione della legge cosmico-storica, e lo predispone alla fede. Quest’ultima è responsabilità che implica amore e, perciò, comprensione di Dio.
Pur tra vari passaggi culturali, dall’Ortensio ciceroniano al Protrettico aristotelico, da Plotino a Vittorino, forte rimane nel personaggio oggetto di studio l’attrazione per gli amanti della luce: “La luce del primo passo della Genesi, la luce del primo paragrafo del Vangelo secondo Giovanni; la luce cosmica e la luce storica di Origene. Essa fu la luce interiore in Agostino” (Margiotta, 1973, p. 33). Egli aveva fatta propria la distinzione plotiniana tra scienza, quale conoscenza del sensibile, e sapienza, quale conoscenza dell’intelligibile; nel De Magistro, tuttavia, la conoscenza si presenta con evidenti tracce platoniche che cercano di accomunare condotta morale e tensione pedagogica. Anni dopo, una volta compiuta la grande costruzione del De civitate Dei, la prospettiva pedagogica si convertirà “in una visione che non è più soltanto religiosa ma ecclesiastica, nel senso reclusivo del termine. La scoperta della grazia parrebbe quasi distruggere la pedagogia” (Margiotta, 1973, p. 34). Elemento di analisi suggestivo, che induce a riflettere, soprattutto perché nel De Magistro Agostino ancora si dibatte tra diverse tendenze gnoseologiche che non sono giunte a quell’illuminazione, che gli consentirà di andare oltre la trascendenza platonica per approdare alla trascendenza-immanenza del rapporto Dio-uomo nel cristianesimo.
Margiotta, a questo punto, comincia a fornire il proprio originale taglio prospettico che, pur con la dovuta attenzione storica, approda ud una rilevante questione filosofico-educativa: “la comunicazione è forse l’unico più profondo valore che Agostino intende salvare. Comunicazione con Dio e prima ancora comunicazione tra uomini” (Margiotta, 1973, p. 35). Il pensatore cristiano non trascura il ruolo della percezione e della parola nel comunicare, ma le ritiene secondarie rispetto all’interiorità, che non implica immanenza, “ma trascendenza dell’interiore lume del conoscere” (Margiotta, 1973, p. 36). Sul terreno educativo la questione è profondamente innovativa: la vera luce che viene in questo mondo, considera Agostino sulla scia del quarto Vangelo, illumina ogni uomo che viene al mondo. La parola umana non può entrare nelle regole interiori di verità, poiché si erge una incomunicabilità assoluta in assenza della volontà. È su questa che la parola preme per dare corso all’esercizio interiore:
“[S]icché l’educazione fuor di questo esercitarsi della parola sulla volontà, si risolve in una forma di autoeducazione, che non si fonda su una presunzione personalistica, ma su una certezza universale e trascendente che tutti egualmente illumina e che va interiormente riscoperta” (Margiotta, 1973, p. 36).
In sostanza l’elemento autoformativo si presenta come prioritario e non vi è il rischio della presunzione individuale, dato che ognuno è soggetto all’illuminazione che scava nella profondità del vissuto, come la memoria platonica dell’anima.
Certo è che l’immanenza del trascendente può apparire una stridente contraddizione, se non si entra nella logica del Cristo Maestro dell’interiorità. Lo scopo profondo del De Magistro, allora, sta nel cogliere l’azione del maestro terreno come stimolo al discepolo per indagare dentro di sé e cogliere “direttamente nella luce interiore le eterne realtà intelligibili da cui dipende ogni certezza delle regulae veritatis e quindi del nostro giudizio” (Margiotta, 1973, p. 38). Ruolo non secondario quello del maestro, dal momento che il dialogo riveste un triplice significato: la questione della possibilità stessa dell’insegnamento, inerente al metodo; il problema della relazione tra mondo sensibile e impiego dei concetti; il tema della comunicazione attraverso il linguaggio. Annota con brillante presa di posizione Margiotta: “Agostino non cominciò col porsi la domanda intorno alla possibilità educazione, ma si chiese piuttosto: a cosa serve il linguaggio?” (Margiotta, 1973, p. 38; corsivo nostro). Di qui, la relativa modernità dell’opera se inquadrata retrospettivamente. Nel dialogo tra Agostino e Adeodato, quest’ultimo è incerto se si possa affermare che ogni linguaggio sia istruttivo, ma è certo che ogni istruzione abbia bisogno del linguaggio. Andando oltre, il nostro giovane studioso afferma: “bisogna asserire che qualunque comunicazione ha bisogno di un segno che esprima. In questo riconoscimento Agostino allarga il concetto del linguaggio fino a comprendere in esso ogni tipo di espressione segnica” (Margiotta, 1973, p. 39).
Di qui la convinzione agostiniana che sia indispensabile “qualche segno esteriore” affinché l’uomo possa attivare il proprio pensiero: “Per cui chiara e precisa ne risulta la equivalenza tra pensare e parlare. Ancor più chiara, se si ricollega la facoltà del pensare a quella dell’immaginare, e se ambedue si ritrovano convergenti nel parlare” (Margiotta, 1973, p. 39). Se non avessimo informazioni sul contesto, l’annotazione riflessiva potrebbe riguardare il pensiero di Piaget, o di Chomsky; ed è per questo, come già abbiamo accennato, che l’interprete viene preso dalla suggestione feconda degli studi contemporanei sul linguaggio. Ma, su di un terreno specificatamente educativo, nasce nel filosofo cristiano un dubbio assillante: “se le parole esprimono idee come è possibile che le parole le rispecchino?”; come può un soggetto ancora immaturo, benché guidato dal maestro, “ricostruire dal segno del linguaggio, la cosa significata?” (Margiotta, 1973, p. 39). Il rischio è che ci si riduca alla riproduzione meccanica del segno, cadendo nelle forme di verbalismo e mnemonismo così comuni nelle pratiche educative incentrate sulla verbosità del maestro. Agostino, per altro, è perplesso anche sulla prassi di mettere lo scolaro a diretto contatto con le cose per facilitarne il collegamento con i segni: “L’importanza del De Magistro è appunto nell’aver perlomeno rilevato la profonda antinomia tra metodo verbale e metodo intuitivo o oggettivo, e tuttavia nel non essersi nascosto le gravi difficoltà connesse al secondo” (Margiotta, 1973, p. 40). La certezza agostiniana risiede nel fatto che il significare delle parole si fonda, se vogliamo comprenderne i segni, sul fatto che la mente ha avuto in precedenza contatto con le cose: il valore del conoscere risiede nell’esperienza e non nei segni. La conclusione sul versante didattico non può essere che questa: “Finché il maestro sarà solo maestro di parole impartendo astratte nozioni, il suo insegnamento sarà vano e le stesse parole che egli vorrà insegnare saranno puro suono” (Margiotta, 1973, p. 41).
Mette in luce Margiotta che parrebbe sussistere una contraddizione tra l’apertura del dialogo, dove si afferma niente si può insegnare senza parole e segni, e l’ultima citazione, nella quale si riconosce che niente si può insegnare con le parole, mentre i segni hanno bisogno si trovare conferma nelle cose. In realtà Agostino, precisa l’interprete, nell’insegnamento vuole valorizzare non tanto il parlare, bensì il praebere: “un offrire, un mostrare direttamente, sia ai sensi che all’intelletto” (Margiotta, 1973, p. 42). Il complesso discorso giunge anche a suddividere i segni in due categorie: disegni, azioni, gesti, da una parte, che rappresentano le cose in forma diretta, e parole che non possiedono la stessa qualità. Inoltre tende a specificare il rapporto tra segni e significati e, ancor più, tra signa e intelligibilia, che sono connotati da caratteri di eternità, immutabilità, necessità. La sua convinzione profonda è che ogni essere umano, per mezzo dell’educazione, sia capace di leggere l’universale nei particolari. Ed ecco allora la chiarezza del quadro di riferimento:
“In definitiva, Agostino non si rivolge all’esperienza sensibile e nemmeno al linguaggio, come a criterio ultimo per decidere intorno al problema dell’insegnamento: quello che ha veramente valore nell’insegnamento, e cioè i concetti e la scienza, non viene offerto allo scolaro né dalle parole né dai segni né dalle cose stesse, ma da un atto semplice, anzi da un’intuizione intellettuale, per cui si svela immediatamente la verità al pensiero ed abita in esso” (Margiotta, 1973, p. 43).
La prima conseguenza è che la scienza non proviene dall’esterno, è frutto di un giudizio concreto sui concetti stessi che vengono dichiararti veri o falsi, secondo un procedimento interno individuale (il possesso interiore della Verità). Margiotta esprime la convinzione, prima di entrare nella trattazione semantica del testo, che il filosofo cristiano si faccia carico di mostrarci il proprio vero platonismo:
“Se il suo Dio non è il bene platonico, se la sua città divina non è il regno delle idee platoniche, se la sua città terrestre non è il mondo sensibile platonico, Agostino è platonico nel senso che la sua dottrina filosofica ha in fondo la stessa struttura della dottrina platonica: Dio esiste; esiste la città celeste; esiste la città terrestre” (Margiotta, 1973, p. 45).
Nell’ultima parte dell’Introduzione, dopo la puntuale individuazione dei temi più rilevanti dell’opera di Agostino in oggetto, Margiotta con il coraggio della gioventù, se così si può dire, considera che “sotto lo specifico aspetto linguistico” la prospettiva pedagogica del filosofo cristiano non sia stata presa in considerazione adeguatamente: “I problemi dell’apprendimento e dell’insegnamento sono stati considerati sempre dal punto di vista del principio dell’interiore illuminazione” (Margiotta, 1973, p. 49) e abbiamo visto quanto attenzione lo studioso italiano abbia dedicato al tema. Ma occorrerebbe entrare più a fondo nella fecondità e nel parallelismo semantico che richiedono una trattazione peculiare del modo di procedere di Agostino: “Vi è la certezza di una valenza linguistica e semantica dell’atto educativo, una tensione radicale, diremmo, a focalizzare, l’atto educativo nel suo prodursi” (Margiotta, 1973, p. 49). È quella tensione radicale, che lo interessa e lo convince, e va sottoposta ad indagine critica relativamente alla definizione teoretica dell’insegnamento; ma ciò che è più rilevante è la convinzione del giovane studioso dell’opportunità di leggerla attraverso “i dibattiti contemporanei tra linguisti e pedagogisti, linguisti e filosofi, linguisti ed etnologi” (Margiotta, 1973, p. 49).
Il punto di partenza è rappresentato dal conosci te stesso socratico nell’ottica cristiana della redenzione e, in particolare, alla luce del passo della Genesi secondo il quale l’uomo è stato creato ad immagine di Dio. Tale somiglianza implica responsabilità: “Ma il vero problema filosofico è nel chiedersi perché l’uomo sia capace di regnare sulla terra. La risposta cristiana sottolinea la libertà e l’intelligenza come caratteri propri e distintivi dell’uomo rispetto alle creature” (Margiotta, 1973, p. 50). Giunti al presente una certa sfiducia si è manifestata, in credenti e non credenti, rispetto a libertà e intelligenza dato il vuoto di interesse ecologico e propensione egocentrica, benché vi sia stato con S. Francesco uno straordinario punto di riferimento nell’ottica della relazione uomo-creature. Lo studioso italiano sente la necessità di chiarire i termini di quella “somiglianza” che potrebbe confondere, inorgoglire o schiacciare sotto il peso del confronto. Allora si tratta di approfondire:
“Più giustamente l’immagine divina nell’uomo non è solo, né principalmente, ciò in cui l’uomo rassomiglia a Dio effettivamente; ma la coscienza che l’uomo acquista di essere un’immagine e il moto per il quale l’anima, traversando in certo modo sé stessa, usa questa similitudine per raggiungere Dio” (Margiotta, 1973, p. 50).
Se qualcuno pensava di essere un privilegiato messo nella condizione di sfruttare una “parentela”, deve ricredersi: spetta ad ognuno mettersi in moto, traversando i propri limiti con una presa di coscienza, che potremmo interpretare come quella verità giovannea che ci renderà liberi (Giov. 8, 32).
A questo punto Margiotta non può trascurare, nella biografia delle Confessioni, l’articolazione del tema che non è riducibile alla confessio peccatorum, ma si ampia in particolare nella confessio laus susseguente al riconoscimento dell’azione divina: “Ma se Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, è evidente che confessio è lode di Dio per l’intervento puntuale, completo unitario del VERBUM” (Margiotta, 1973, p. 51).
L’esperienza di vita di Agostino, considera il nostro interprete, non è imparentata con la folgorazione sulla via di Damasco di Paolo di Tarso, si presenta, piuttosto, come una “acquisizione del vero” lenta ma progressiva, spesso dolorosa e non lineare nelle tappe che segnano il suo rapporto con Dio. La famosa espressione credo ut intelligam ci mette nella condizione di riflettere sulla relazione tra auctoritas e ratio, basilare per lo sviluppo del soggetto e della sua storia personale: “l’auctoritas detta agli uomini un’attitudine spirituale e morale che essi sentono di dover adottare, mente la ratio condurrà autonomamente gli uomini alla comprensione della essenziale necessità delle cose” (Margiotta, 1973, pp. 51–52). Ed è su questo tema che la svolta interpretativa si fa audace, quando va a toccare alcuni studi del presente che a Margiotta stanno a cuore: le origini dell’artificialismo infantile di Piaget (1955, pp. 381–382, 389) assieme agli studi sullo sviluppo mentale del bambino (1967, pp. 15–16, 25), senza trascurare gli studi di Chomsky sull’innatismo del linguaggio e il dispositivo di acquisizione linguistica (1967 pp. 2–12). Per lui il maestro agostiniano si configura come “un fascio di forze semantiche e quindi linguistico-significanti, stimolanti e condizionanti lo sviluppo infantile” (Margiotta, 1973, p. 53); quindi si fa stimolo al significare, in quanto egli stesso è attività linguistica.
In nota (Margiotta, 1973, p. 54, n. 1) viene segnalata l’ampiezza delle discussioni di quegli anni tra linguisti, inerenti la definizione di linguaggio e le sue strutture considerate accettabili dai più. Tali elementi di indagine attuale “valgono ad illuminare il confronto critico impostato tra le intuizioni tematiche della pedagogia agostiniana e gli sviluppi di essa, oggi a noi possibili e doverosamente perseguibili” (Margiotta, 1973, p. 54). Interrogarsi sulla “natura” del linguaggio è della massima importanza, come si coglie da una bella immagine della lingua di Sapir per il quale essa è: “un metodo puramente umano e non istintivo per comunicare idee, emozioni e desideri attraverso un sistema di simboli volontariamente prodotti” (1969, p. 8). Da allora ad oggi – ed è passato mezzo secolo! – gli studi sul cervello, la mente e le sue funzioni, nell’ottica neurofisiologica hanno spostato l’asse del discorso su ulteriori ambiti, pur non mancando di una continuità. Per allora, Margiotta si faceva carico di considerare che “perché il linguaggio sia tale, e cioè comunicazione, è necessario che le immagini o i simboli che rendano possibili le parole, in quanto denotano l’esperienza, siano associati o associate ad interi gruppi di esperienza” (Margiotta 1973, p. 55). Nella prospettiva genetica e trasformazionale l’attività linguistica ha una valenza originaria; il linguaggio non sempre accede ad un sistema di pensiero, soprattutto per Chomsky (1970),
“non fluisce parallelamente al movimento interno della coscienza, ma si muove, pure restando parallelo, a livelli diversi che vanno dalla condizione in cui la mente è tutta occupata da immagini particolari fino alla condizione in cui la mente è interamente concentrata su concetti astratti e le loro relazioni” (Margiotta 1973, pp. 55-56).
La lingua in origine ha uno scopo di preparazione, tuttavia pensiero e linguaggio interagiscono: “Il concetto, insomma, non giunge ad avere un’esistenza individuale ed indipendente finché non abbia trovato una ben distinta realizzazione linguistica” (Margiotta, 1973, p. 56).
Riporta Margiotta un bel passo del De Magistro in cui Agostino loda Adeodato: “Hai ben compreso: credo infatti che tu, nello stesso tempo intenda – anche se qualcuno è di opinione contraria – che, quantunque non articoliamo alcun suono, tuttavia interiormente parliamo nel nostro animo, poiché pensiamo le parole stesse; così, anche con le parole non facciamo altro che richiamare il pensiero, mentre la memoria, cui sono legate le parole, ripensandole, richiama alla mente le cose stesse di cui le parole sono segni” (Agostino, 1961, Cap. I). Felice sintesi di un maestro che, direbbe Margiotta, si interroga sulla natura del significato, o meglio sulla sua valenza esistenziale per orientare le modalità di crescita di ogni soggetto umano.
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