Umberto Margiotta Interprets John Dewey: Concerning Freedom and Liberalism
Umberto Margiotta interprete di John Dewey: a proposito di libertà e liberalismo
Anita Gramigna
Università degli Studi di Ferrara – grt@unife.it
https://orcid.org/0000-0001-9147-8832
Umberto Margiotta’s decision to reintroduce the Deweyan essay Liberalism and Social Action in 2005 stems from a conviction that could, in some respects, be described as prophetic. This conviction lies in the need to adopt, nearly ninety years later, the perspective from which the American philosopher and educator observed the ambiguities of the historical development of liberalism. A prophetic attention, as it is driven by the awareness that, in the context of today’s neoliberalism, those ambiguities have multiplied, placing the world in a state of perpetual crisis. For Dewey, as for Margiotta, “rebirth” must take place on the grounds of education, in the “redemption” of intelligence, understood, however, in its social, collective, and cooperative dimensions: open to change for the common good.
La scelta di Umberto Margiotta di ripresentare nel 2005 il saggio deweyano Liberalismo e azione sociale parte dalla convinzione, che per certi aspetti si potrebbe definire profetica, di dover assumere lo sguardo, a circa novant’anni di distanza, con cui il filosofo e pedagogista statunitense osservava le ambiguità dello sviluppo storico del liberalismo Una attenzione profetica perché dettata dalla consapevolezza che con il neoliberismo dei giorni nostri quelle ambiguità si sono moltiplicate, ponendo il mondo in una condizione di crisi perenne. Per Dewey, come per Margiotta, la “rinascita” va giocata sul terreno dell’educazione, nel “riscatto” dell’intelligenza, individuata, però, nelle sue componenti sociali, collettive, cooperative: aperte al cambiamento per il bene comune.
Freedom, Equality, Cooperative Intelligence, Education, Responsibility
Libertà, Uguaglianza, Intelligenza cooperativa, Formazione, Responsabilità
The Author declares no conflicts of interest.
August 19, 2024
October 16, 2024
December 31, 2024
Nel 1935, data della prima pubblicazione, Dewey metteva a fuoco le difficoltà di una legislazione sociale che doveva dare compimento al New Deal per superare la durissima crisi iniziata nel 1929. Si trattava di lottare contro la disoccupazione, la povertà diffusa, le tensioni sociali che ogni fase critica produce sul terreno economico-sociale. Margiotta, con pacata serenità di giudizio, individua nel presente di vent’anni fa un’Europa senza identità e l’illusione che rivelerà il fallimento di un mondo finalmente pacificato. La conseguenza non può che essere la “ridefinizione in senso forte dei contenuti del consenso” (Margiotta, 2005, p. 8). Si tratta di un tema che consideriamo centrale, non solo nelle evidenti implicazioni politiche, ma anche nelle pratiche formative e nelle strategie di ricerca che dovrebbero mettere al centro, nelle relazioni proficue tra scienze umane, il vuoto di partecipazione alla vita pubblica e le possibilità di rimettere i cittadini in un campo d’interesse relativo all’azione sociale.
Non possiamo dimenticare certe posizioni degli anni Ottanta del secolo scorso di ispirazione liberale, come ad esempio quella di Nozick relativa al welfare state, considerato l’opposto del modello virtuoso dello “Stato minimo”, una rovina per gli uomini liberi di intraprendere, fondato sull’irrazionalismo della compassione con il quale sarebbe impossibile dialogare. La conseguenza di tale rigore si riduce alla convinzione che l’istituzione politica “non può usare il proprio apparato coercitivo allo scopo di far sì che alcuni cittadini ne aiutino altri” (Nozick, 1981, p. xiii); un egoismo senza scrupoli che ha radici già in certe posizioni ottocentesche. Su di un altro percorso di analisi, von Hayek ritiene la giustizia sociale una superstizione, tanto da affermare con sicurezza: “Credo che alla fine la giustizia sociale verrà riconosciuta essere un fuoco fatuo che ha portato gli uomini ad abbandonare molti dei valori che in passato hanno promosso lo sviluppo della civiltà” (von Hayek, 1986, p. 272, corsivo nostro). Si potrebbe dire che emerge qui un’arroganza della libertà che si permette di trattare la giustizia come “sfogo emotivo”, volto a mettere in discussione valori “sacri” come il dovere, l’ordine, la condotta adeguata.
Con le strategie dell’azione sociale è necessario prendere le distanze da tali prospettive che saranno, forse, liberali ma si aggrappano ad una visione della libertà, a nostro parere, del tutto estranea alla democrazia. La posizione di Margiotta è molto chiara: “Al liberalismo sono […] affidate: a) la responsabilità di chiarire che l’intelligenza è una risorsa sociale che si realizza nei modi della cooperazione sociale e b) l’incarico di creare le premesse per accrescere tale tipologia di intelligenza” (Margiotta, 2005, p. 22). L’attualizzazione della presa di posizione di Dewey, nel saggio in oggetto, passa attraverso una innovativa valorizzazione del formare-educare, capace di opporsi ai “vecchi modelli mentali e morali” nella logica della rinascita.
L’argomentazione deweyana, puntualmente ripresa in termini riflessivi dallo studioso italiano, è fondata sul ruolo dell’intelligenza, sui suoi metodi e i suoi sviluppi plurimi così come si presentano, ad uno sguardo non ideologico e attento alle differenze, secondo i presupposti del relativismo storico. Nel paragrafo iniziale volto a ricostruire sul piano delle strategie di pensiero la “storia del liberalismo”, Dewey deve rimarcare una caduta di tale cultura politica, con riflessi significativi in campo sociale ed economico, nella “terra di nessuno”. In sostanza, una svolta, avvertita dai più, da una prospettiva progressista a quella conservatrice. Di qui, una sorta di esame filosofico delle ambiguità che si manifestano in maniera sempre più netta, a tal punto che nella contemporaneità egli “lo dichiara colpevole di non aver capito che l’avvento scientifico e la rivoluzione culturale e sociale esigevano una revisione dell’ideologia” (Margiotta, 2005, p. 9).
Nel testo dello studioso statunitense torna di frequente un’immagine di scienza come sapere indiscutibilmente democratico, progressivo e aperto, dato il ricorso al metodo sperimentale che trova il suo fulcro negli studi fisici e nell’evoluzione tecnologica: “Si richiede l’approssimazione all’uso del metodo scientifico nella ricerca e alla mentalità tecnica nell’invenzione e nella programmazione di piani sociali lungimiranti” (Dewey, 2005, p. 107). Non siamo oggi altrettanto sicuri che sia questa la via da seguire, anche perché lo sviluppo dell’indagine sulla complessità, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ha messo in discussione l’unicità del metodo e, del resto, lo stesso Dewey, alcuni anni prima, si era orientato su posizioni più innovative, quando in Le fonti di una scienza dell’educazione (Dewey, 1929) aveva messo a confronto valori quantitativi e valori qualitativi (Dewey, 1999, § 18). La biologia, meno condizionata dall’indirizzo quantitativo, pareva più adatta a confrontarsi con i bisogni e i problemi dele prassi umane rispetto alla fisica e poteva fornire un grande contributo in educazione, tramite quelle “considerazioni generali” che trattano i processi evolutivi e tutto ciò che in natura è in relazione allo sviluppo.
Il liberalismo, se vuole uscire dalle secche di un incombente regresso, deve farsi promotore della generalizzazione del metodo scientifico e approdare ad una valorizzazione dell’intelligenza collettiva, che non è “un oggetto puramente cognitivo, ma un progetto globale” (Margiotta, 2005, p. 22), superando definitivamente il peccato originale dell’individualismo. Nella sintetica citazione di Margiotta appare, in modo significativo, la differenza sul terreno epistemologico che intercorre tra oggetto e progetto: il primo è un dato di fatto indiscutibile nella sua statica identità (l’intelligenza serve per conoscere), mentre il secondo implica uno slancio dinamico, teso a prefigurare il futuro (l’intelligenza come strumento cooperativo predispone i tratti di un mondo migliore). Rimane, se guardiamo le insidie del presente, la questione centrale di affrontare le incertezze, che Morin delinea come uno dei compiti ineludibili dell’educazione ad inizio del nuovo millennio: la mente va formata per gestire l’inatteso, nello sforzo di una interdipendenza positiva con gli altri, attraverso l’assunzione di un atteggiamento responsabile e promuovendo abilità sociali indispensabili alla vita comunitaria (Morin, 2001, p. 81). Secondo tale prospettiva, si può comprendere perché Dewey mette in guardia rispetto alle chiusure di un individualismo, che mantiene inevitabilmente connotazioni egoistiche, come traspare dal mito del self made man. L’uomo che si fa da sé non solo è intraprendente e fiducioso nelle proprie capacità, ma tende a sentirsi superiore agli altri e a considerarli in modo strumentale, come risulta evidente dalla nota espressione niente di personale quando li ha ridotti sul lastrico.
Se il primo liberalismo è discutibile per aver sostenuto la dottrina individualistica in forma ossessiva, il secondo lo è per la convinta assunzione della regola del laissez-faire: il libero mercato si regola da solo, non occorre alcun controllo dello Stato sulle attività economiche, chi arricchisce con la propria libertà d’azione finirà per contribuire anche al benessere dei meno abbienti: “Diventa evidente, col secondo liberalismo, che la diseguaglianza e non l’uguaglianza, è la conseguenza in atto dell’applicazione della dottrina liberale del laissez-faire” (Margiotta, 2005, p. 12). Si va alla ricerca di giustificazioni come le differenze naturali sul versante psicologico e morale, oppure della diversa qualità dell’intelligenza individuale per sancire una sorta di diritto del più forte sotto altro nome, come capacità di scelta o spirito d’iniziativa. La crisi del liberalismo viene individuata da Dewey con la sostanziale incapacità di definire l’integrazione tra intelligenza e “movimenti sociali”, in particolare di cogliere la sua propensione a dirigerli. Margiotta ravvisa in tale prospettiva “un richiamo kantiano al realizzarsi storico della ragione come educazione alla socialità” (Margiotta, 2005, p. 13); del resto egli stesso in un testo degli anni Settanta aveva sostenuto “pare che tanta pedagogia abbia compreso con molto ritardo che lo strumentalismo e il naturalismo deweyano valgono solo se introducono ad un radicale ripensamento del rapporto tra razionalità e condotta su cui, per sua ragion d’essere, interviene l’educazione” (Margiotta, 1979, p. 30, corsivo nostro). Non è questo lo spazio all’interno del quale mettere a nudo la carenza attuale di quel ripensamento, ma non vi è dubbio che la ragione appaia spesso sradicata da ogni norma comportamentale, tanto che adolescenti e giovani sembrano del tutto estranei alla consapevolezza delle responsabilità che la vita comporta nella relazione con gli altri, non di rado trattati come oggetti, o personaggi da videogame.
La rivoluzione che ha trasformato in modo vertiginoso i modelli dell’informazione e della comunicazione, a vent’anni dall’Introduzione dello studioso italiano all’argomento deweyano in oggetto, deve essere inquadrata con cautela nella sua complessità. Molto è stato detto sulle “élite globali neoliberiste” e il loro modo di trasformare, assieme alle strategie economico-finanziarie, le forme culturali, oltre che le modalità operative della politica. La rete o, meglio, le reti hanno modificato la nostra esistenza ben al di là di quanto lasciava trapelare Heidegger in altra fase dello sviluppo moderno: “L’essenza della tecnica risiede nell’imposizione. Il suo dominio fa parte del destino” (Heidegger, 2007, p. 162). Un’affermazione lineare nella sua durezza e, tuttavia, Margiotta coglie proprio nella rete un’occasione per la “formazione integrale della persona”, indispensabile per non lasciare il “sistema globale” sempre nelle mani di chi lo sfrutta a beneficio di pochi. L’immagine del “multialfabeta” (Margiotta, 1997) è senza dubbio una delle più affascinanti che abbiamo incontrato nella nostra esperienza di studio e di confronto sul terreno epistemologico: la rete rende attivi, suggerisce connessioni in direzioni differenti: “Il sistema ecologico che ne deriva, non va inteso come una struttura cognitiva gerarchica di tipo verticale, ma come un sistema ricorsivo e reticolare dove si verifica una traslazione cognitiva fluida, flessibile e particolarmente collaborativa” (Margiotta, 1997 p. 15).
Siamo nell’ottica del dover essere, di una prefigurazione di alto spessore che non ha trovato adeguato spazio, poiché gli strumenti della rete continuano ad essere impiegati nell’ottica del mero consumo e non della diffusione dell’intelligenza socializzata. Manuel Castells impiega l’efficace immagine di “autismo elettronico”, dato che ciò che doveva rappresentare il fulcro della libertà comunicativa si è ridotto ad “autocomunicazione di massa” (Castells, 2009). Il filosofo coreano Byung-Chul Han, spesso accusato di catastrofismo da una stampa soggetta agli interessi di chi conta, ha coniato il termine forte di infocrazia, o regime infocratico, dove il dominio di una informazione che vuole assoggettare assume contorni molto chiari “L’odierna crisi dell’agire comunicativo può essere ricondotta al meta-livello per cui l’altro è in sparizione. La scomparsa dell’altro implica la fine del discorso perché sottrae all’opinione la razionalità comunicativa” (Han, 2023, p. 39). In sostanza si ha l’impressione che quanti hanno il potere di controllo sulle reti, di diversa natura e importanza, stiano facendo di tutto per tenere i cittadini al di fuori della partecipazione che dovrebbe essere l’anima della vita democratica e, come cantava Giorgio Gaber negli anni Settanta, vi è una immancabile coincidenza tra libertà e partecipazione.
Il tema è ben presente in Dewey, e nella sua indagine sul liberalismo, con lineare fermezza: “solo attraverso la partecipazione all’intelligenza comune e la condivisione di obiettivi comuni in vista del bene di tutti, i singoli esseri umani possono realizzare la loro vera individualità e diventare veramente liberi” (Dewey, 2005, p. 77). La frase è emblematica nei suoi elementi salienti: l’intelligenza comune è l’unico mezzo adeguato a operare in direzione del bene comune; ma c’è di più: essa è l’unica garanzia per l’esercizio della libertà in forma di realizzazione dei propri talenti. Sappiano che l’argomento è centrale negli studi di Margiotta, tanto da portarlo a ritenere che il senso stesso della formazione trovi significato nella personalizzazione degli stessi, all’interno di una processualità che volge alla autodeterminazione in sintonia con la co-evoluzione delle scelte. Egli ci orienta descrivendo il talento come: “il differenziale d’apprendimento individuale, ossia la personalizzazione delle esperienze di organizzazione degli apprendimenti” (Margiotta, 1997b, p. 250). Come si può ben vedere il soggetto individuale non perde affatto d’importanza nella partecipazione all’intelligenza comune, anzi tramite la personalizzazione offre il proprio contributo unico e irripetibile, in particolare in termini di creatività, che rappresenta “il nostro programma positivo per il futuro” (Margiotta, 1997b, p. 68).
Ed è a questo punto che dobbiamo tornare sul tracciato temporale del pensatore statunitense e al relativismo storico che lo connota, poiché senza una adeguata contestualizzazione si rischierebbe di non cogliere quel processo regressivo cui l’autore ritiene necessario porre un termine per il bene stesso della democrazia. Per Dewey la “filosofia sociale” in oggetto si presenta sulla scena agli inizi dell’Ottocento e, addirittura, avrebbe qualche radice nel “libero gioco dell’intelligenza” che si può cogliere nel pensiero greco classico (in particolare nella età di Pericle, V secolo a.C.). Ma il vero punto di riferimento va cercato nel pensiero filosofico-politico di John Locke che, già nel corso del XVII secolo, individua come “diritti naturali” la vita, la libertà, la ricerca della felicità. Vi è, però, anche il diritto alla proprietà: “nato, secondo il filosofo, dal fatto che un individuo si è congiunto, attraverso il suo lavoro, con un oggetto naturale fino al allora senza proprietario” (Dewey, 2005, p. 64, corsivo nostro). È il lavoro intelligente a generare la proprietà individuale in una prospettiva dove il pensare e l’agire non devono trovare limiti da parte dello Stato e del suo sistema organizzativo, che non possono prevaricare i diritti del singolo soggetto. Oggi a prevaricare è il mercato con regole dispotiche che intervengono sulle relazioni sociali, economiche, culturali e di qualsiasi altra forma di azione umana: il liberalismo ha avuto parte attiva in tale trasformazione e Margiotta evidenzia come Dewey avesse sottolineato lo smarrimento di quel liberalismo delle relazioni “che chiude la fase della grande inversione di tendenza dei sistemi ideologici e finanziari e introduce riforme del Welfare volte a proteggere le imprese, più che le persone” (Dewey, 2005, p. 8).
La questione insidiosa che si prospetta, ci sembra di poter dire, è quella relativa alla cosiddetta “legge naturale” che va a completare la visione di un individualismo in ferma opposizione all’azione sociale organizzata. Locke, infatti, attribuisce “un significato eminentemente pratico alla più antica concezione semi-teologica e semi-metafisica della legge naturale come legge suprema, oltre che legge positiva” (Dewey, 2005, p. 65) e, di fatto, pone una coincidenza tra legge naturale e ragione. Di qui l’antagonismo “naturale” tra chi esercita il potere politico e chi lo subisce, nonché la volontà di trasformazione dell’autorità arbitraria, e dispotica, del governo a garante delle libertà individuali, dove il lavoro viene sempre più sostituito dall’investimento capitalistico. Con gli sviluppi della prima rivoluzione industriale “le leggi naturali persero il loro antico significato morale e furono identificate con le leggi della libera produzione industriale e del libero scambio commerciale” (Dewey, 2005, p. 67). Tali libertà, come risulta evidente, non sono generalizzabili e creano differenze che ben presto si consolideranno in antagonismi, fino ai nostri giorni; per questo Dewey ha insistito sulla necessità di operare affinché la visione liberale assumesse sempre più forme di apertura al cambiamento e alla cooperazione.
A nostro parere, quanto più il liberalismo insiste sulle cosiddette “libertà naturali”, che producono sviluppo economico e profitto, tanto più si allontana dalla dimensione filosofico-politica tracciata da Locke e, con ciò, da una visione autenticamente democratica. Basti ricordare la presa di posizione di Bentham sul sistema legale del suo tempo a tutto favore delle grandi proprietà terriere e del mantenimento dello status quo. La sua riflessione, sottolinea Dewey, non è orientata al tema della libertà individuale “ma dal punto di vista dell’effetto di queste restrizioni sulla felicità degli individui” (Dewey, 2005, p. 69). Insomma, l’impulso umano al miglioramento di sé viene negato dai privilegi della conservazione e produce dolore e, al tempo stesso, frustrazione del desiderio. Siamo di fronte ad una psicologia piuttosto elementare ma efficace, che delinea nel desiderio del profitto il fondamento dello sviluppo dell’attività industriale e del moltiplicarsi degli scambi. Alla fine, il modello sintetico vincente di Bentham è questo: “il criterio per giudicare ogni legge e ogni sforzo amministrativo è nel verificare il suo effetto sulla somma della felicità goduta dal maggior numero possibile di persone” (Dewey, 2005, p. 70, corsivo nostro). In tal modo viene sancito un principio di diseguaglianza che finirebbe per avere origine naturale e implicherebbe una sostanziale presa d’atto dell’ingiustizia.
Margiotta osserva che Dewey, al contrario, opta per un’organizzazione della società tale da garantire “la libertà dalla precarietà e dal bisogno primario” (Margiotta, 2005, p. 16) e, rifacendosi ad una propria presa di posizione di fine anni Settanta, sottolinea: “La struttura del bisogno si manifesta nell’operari, e nell’operari coincide con la decisione di orientamento positivo dell’individuo. L’etica del bisogno è dunque l’etica strumentale. Essa infatti non media, cioè non libera” (Margiotta, 1979, p 42). In tal caso l’etica si fa strumento per soddisfare i bisogni attraverso il lavoro; ma con il verbo latino operārī l’autore vuole dare forza all’esigenza di esprimere il nostro modo di essere. Infatti operārī sequitur esse (l’agire è conseguenza dell’essere) implica l’incessante trasformazione del mondo, l’opportunità del cambiamento e, inoltre, oggi potremmo aggiungere il fascino dell’innovazione, ma la parola è a rischio per le precarietà a volte esplicite, e a volte implicite, che la caratterizzano. Tutti elementi che possono rientrare a pieno titolo nel liberalismo di Locke, l’unico che si può considerare autentico secondo queste parole: “Il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà” (Locke, 1983, p. 124) Non si tratta dell’egoismo di chi vuole conservare privilegi o esercitare il diritto del più forte, come avverrà in seguito con lo sviluppo sistematico del capitalismo, poiché ognuno può conservare solo il frutto del proprio lavoro:
“Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi” (Locke, 1983, p. 149).
Il punto chiave della libertà, allora, consiste nel fatto che nessuno ha diritto di sconvolgere la convivenza pacifica sottomettendo l’altro uomo con la forza, o con il potere economico, perché vi è nell’agire un’espressione inquieta del desiderio da salvaguardare come esigenza vitale. Per noi si tratta dell’argomento più interessante del pensiero di Locke, anche per la sua straordinaria attualità: Uneasiness è il termine impiegato dal filosofo britannico, di difficile traduzione ma che, di solito, viene reso con inquietudine, disagio. L’essere umano è un soggetto inquieto, a volte ansioso di operare, in quanto dominato dalla passione e da una volontà desiderante. La libertà autentica si esercita nel libero arbitrio, interpretato come possibilità di sospendere qualunque azione attraverso un esercizio di volontà che non rende conto a nessuno. La ragione umana è libera dal momento che si insinua tra volontà e azione per esaminare i desideri che possono rendere felici e trovare, così, armonia e pace. Il concetto da lui elaborato si manifesta in molteplici modi di agire che connotano la nostra esistenza in tutta la sua estensione. È nel capitolo XX del Trattato (Libro II) dedicato alla riflessione su potere e libertà che l’autore delinea la forza propulsiva di Uneasiness (Locke, 1971, Libro II, cap. XX, § 6). La sua caratteristica sta nel fornire all’uomo un potere indipendente dalla volontà divina e che non si rivolge per chiedere sostegno ad alcuna forza esterna. La volontà umana, perciò, pur nel disagio dell’avvertire un’assenza, una mancanza, un limite, va con slancio incessante in cerca del cambiamento: “ciò che determina immediatamente la volontà, di volta in volta, ad ogni azione volontaria è il disagio del desiderio, fissato su qualche bene assente” (Locke, 1971, Libro II, cap. XXI, § 33).
Ci sembra opportuno rilevare che il disagio del desiderio entra nella nostra vita a più livelli: dalle relazioni familiari alle esperienze amorose, dalle amicizie alle scelte ideologiche, dagli interessi culturali alle pratiche lavorative, che rivestono un valore identitario straordinario e, tuttavia, volto a dileguarsi nell’alienazione di ogni attività che perde di vista il significato dell’uomo e, in ciò, il liberalismo di ieri e di oggi ha responsabilità enormi. Per questo Simone Weil con rara forza espressiva afferma: “Il lavoro manuale deve diventare il valore supremo, non certo per il suo rapporto con ciò che produce bensì per il suo rapporto con l’uomo che lo esegue; non deve essere oggetto di onori o di ricompense, bensì costituire per ogni essere umano ciò di cui ha bisogno nel modo più essenziale affinché la sua vita assuma per sé stessa un senso e un valore ai suoi propri occhi” (Weil, 1983, p. 101). La filosofa francese ci ricorda che la nostra vita dipende in gran parte dal lavoro manuale e, soprattutto, in un’epoca di tecnologie sempre più condizionanti l’esperienza ce ne dimentichiamo, fino a smarrire la questione fondamentale: il lavoro libero umanizza.
Un lavoro degno deve poter contare, secondo Rawls (1971), su di una visione condivisa della giustizia, per la quale si può affermare che il profitto, il guadagno, l’utile non è sempre giusto. Il confronto tra libertà e giustizia ha animato in più fasi la storia del Novecento. Piace ricordare la riflessione di Carlo Rosselli, che associava la giusta esigenza di partecipazione collettiva dei lavoratori alla dimensione politico-sociale alla necessità di spazi di libertà individuale per dare senso all’esperienza di ognuno, asserendo: “Il socialismo deve tender a farsi liberale e il liberalismo a sostanziarsi di lotta proletaria” (Rosselli, 1979, p. 88). Horkheimer (1970), una volta prese le distanze dal comunismo sovietico oltre che dal capitalismo occidentale, ritiene che vada individuata una insanabile antitesi tra libertà e giustizia: al crescere dell’una si assiste all’inesorabile calo dell’altra. Rawls, di fronte ad un capitalismo che non si pone limiti pur di ottenere risultati, si muove su di un altro piano, attraverso interrogativi in apparenza semplici: come vivere nella maniera giusta? Come vivere bene? Come armonizzare la libertà individuale con l’equità sociale? Si tratta di argomentare su basi razionali con un’attenzione prioritaria all’etica, prima ancora che alla politica, volti a mettere in risalto le ragioni dell’uguaglianza, in quanto se il fine della filosofia è la ricerca della verità, quello delle istituzioni non può che essere la ricerca della giustizia.
Ci sembra che il liberalismo, in questo campo, abbia optato quell’attenzione vincolante all’utile rispetto alla quale lo studioso americano mette in guardia: “Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri” (Rawls, 1971, p. 21). Osserva Rawls che può sembrare “naturale” come principio etico “far progredire il più possibile il benessere del gruppo”, come nella tradizione dell’utilitarismo classico, ma vi è un altro principio auspicabile per l’individuo “far progredire il più possibile il suo benessere e il suo sistema di desideri” (Rawls, 1971, p. 37). Quando si punta progressivamente sull’unico valore della libertà si finisce nella contraddizione del presente: assenza di regole che favorisce una minoranza e priva milioni di persone delle libertà minime. La deregulation ossessionata dalla trilogia libertà, sicurezza, consumo è la cifra del nostro tempo; non a caso Margiotta, nella sua Introduzione, cita una solida denuncia di Chomsky:
“Un senato virtuale incombe sul mondo. Nessun popolo lo ha eletto, non vi è stata alcuna votazione democratica in alcun parlamento. Si tratta unicamente di un consesso di oligarchi che si sono autonominati in base al censo e alla classe sociale. È composto da membri privilegiati dell’élite affaristico-finanziaria occidentale” (Chomsky, 2002, p. 5).
Lo studioso continua citando la “costituzione” di tale pseudo-Stato fondata su due soli articoli: 1) La nostra è una società fondata sul profitto; 2) Tutti gli uomini sono uguali, ma i ricchi sono più uguali degli altri. Nel secondo caso siamo di fronte ad una citazione tratta dalla Fattoria degli animali di Orwell e, in effetti, si ha l’impressione di essere di fronte ad una distopia che si sta avverando.
L’analfabetismo politico è fenomeno diffuso, puntato sulla ricerca di un nemico o di un colpevole ad hoc, per coinvolgere masse anonime oppositive, prive di ogni senso di responsabilità, chiuse in un egocentrismo che non sa vedere nulla al di fuori del proprio interesse immediato. È nostra convinzione che la formazione politica dovrebbe diventare argomento centrale del dibattito nel presente per ridare un senso a quella partecipazione che abbiamo richiamato nel titolo. Martha Nussbaum (2011), alcuni anni fa, aveva proposto i Dialoghi platonici come strumento di ricerca con gli studenti, in particolare per risalire alla parresia socratica, grande esempio di coerenza tra il parlare e l’agire. La filosofa, a fronte della “crisi mondiale dell’educazione”, opta per un rilancio del sapere umanistico che è stato sottovalutato a favore esclusivo dell’approccio scientifico. Sappiamo che Dewey vedeva nel metodo della scienza sperimentale non solo l’adeguata forma di ricerca della verità, ma anche un’etica solida e un pilastro della democrazia. Non abbiamo le stesse certezze e crediamo che una valorizzazione delle discipline umanistiche potrebbe essere proficua per un maggior equilibrio critico nella formazione. Al tempo stesso condividiamo la linea della studiosa statunitense relativa al peso educativo del lato emozionale, se coltivato strategicamente; mentre non è da sottovalutare il rilievo delle “emozioni politiche” (cfr. Nussbaum, 2013) per ridare uno spazio concreto alla ripresa dell’interesse del cittadino per la cosa pubblica.
Non crediamo nella rinascita del liberalismo, di cui parla l’autore nel paragrafo conclusivo del proprio saggio, troppi esempi del passato e del presente evidenziano un culto della libertà che non corrisponde alla nostra visione della democrazia e nemmeno ai nostri sentimenti relativi alle relazioni tra esseri umani. Vengono alla mente, come esempi classici del laissez-faire, le pratiche coloniali spesso ordite con l’inganno, come denuncia Kant (1965, p. 303) quando il “diritto di visita” in territori di altre parti del mondo si tramuta in conquista in nome di una superiore civiltà che porterà progressivo benessere. Per non parlare delle deportazioni di esseri umani dall’Africa all’America, trattate come pure questioni commerciali. Ciò premesso, e tenendo conto delle convinzioni deweyane al di là delle delusioni da lui patite, cerchiamo di entrare nel merito di una idea di liberazione “affidata all’uso dell’intelligenza riscattata, intesa come metodo per dirigere il cambiamento” (Dewey, 2005, p 97). L’autore sostiene con forza l’idea che la rinascita liberale passa attraverso un nuovo modello educativo capace di fornire le disposizioni mentali e caratteriali nonché i modelli intellettuali e morali. Ciò dovrebbe avvenire attraverso l’acquisizione da parte del liberalismo di un radicalismo in grado di infondere un nuovo spirito alle istituzioni, senza far ricorso all’uso della violenza.
Ricordiamo che in quegli anni si erano radicate in Europa le dittature fascista e nazista, il franchismo in Spagna, lo stalinismo in Russia e, purtroppo, i tempi della Seconda guerra mondiale erano vicini. Naturalmente sarebbe da rivedere il modello competitivo, tendente ad escludere gli sviluppi paradigmatici dell’intelligenza cooperativa, così come le forme di potere coercitive poste in essere negli Stati democratici soprattutto a favore degli interessi privati. Nella situazione storica di incertezza, e di paura crescente per i contrasti sociali interni e per le tensioni internazionali, Dewey si fa carico di una proposta che, per noi, ha le caratteristiche di una prefigurazione piuttosto che di una possibilità concreta nell’immediato: “Dato un ambiente sociale le cui istituzioni fossero espressione della disponibilità della conoscenza, delle idee e delle arti dell’umanità, anche l’individuo medio salirebbe ad insospettati livelli di intelligenza politica e sociale” (Dewey, 2005, p. 105). Non abbiamo dubbio che ciò possa essere vero, ma dovremmo interrogarci, ancor oggi, su chi detiene il controllo della conoscenza e sugli effetti che esso determina in relazione all’individuo medio. Nel presente sembra essere la banalizzazione tecnologica a dominare, ridotta a ossessione da telefono cellulare che, per molti, ha gli stessi effetti di una droga.
Poche pagine prima lo studioso statunitense aveva chiarito con lucidità lo status quo nella sua negatività, frutto evidente di una libertà arbitraria fuori controllo:
“Dietro il possesso da parte di pochi delle risorse materiali della società sta il possesso da parte di pochi, in favore dei loro stessi fini, delle risorse culturali e spirituali, che sono il prodotto non degli individui che ne hanno preso possesso, ma del lavoro cooperativo dell’umanità. Non ha senso parlare del fallimento della democrazia finché non si sia compresa la fonte del suo fallimento e non si prendano le misure per promuovere quel tipo di organizzazione sociale che incoraggi la diffusione socializzata dell’intelligenza” (Dewey, 2005, pp. 93–94).
Non vi è molto sa aggiungere, se non la domanda sul soggetto che dovrebbe agire, una volta presa coscienza del fallimento e, per quanto ci compete, decidiamo di impiegare un termine fuori moda: il popolo che può essere sovrano solo se si fa garante della partecipazione. Margiotta, d’altra parte, quando considera che l’educazione è il metodo fondamentale del pregresso e dell’azione sociale, sottolinea il fattore chiave senza alcun compromesso: “Individuare l’unico fine dell’attività è semplice: è la stessa attività, che tanto per Dewey è tale quanto più è partecipata e sociale” (Dewey, 2005, pp. 30–31). Egli stesso aveva fatto cenno, nella stessa Introduzione, all’esigenza di un’antropologia dell’educazione come strumento sistemico di indagine sui “problemi critici della vita umana, per esempio la povertà ed il razzismo” (Dewey, 2005, p. 28).
Si potrebbe dire, a conclusione, che i titoli dei paragrafi individuati dallo studioso italiano sembrano delineare un programma di ricerca, tra l’epistemologico e l’antropologico, in una sequenza precisa. Li riportiamo sottolineando che il soggetto è l’intelligenza nei suoi processi di attuazione: 1. Intelligenza politica e autoappartenenza degli individui (si è partecipi, e liberi, quando si comprende la necessità della politica come appartenenza); 2. Intelligenza integrata come fattore di direzione epocale e non solo operativa dell’incremento democratico (la democrazia non è data, deve essere incrementata e diretta ad uno scopo che varia nel tempo storico); 3. Il riscatto dell’intelligenza come metodo del cambiamento (per essere metodo l’intelligenza va riscattata da una condizione di prigionia imposta dagli interessi del più forte); 4. Intelligenza cooperativa come logica della responsabilità (l’intelligenza va condivisa per rappresentare un’azione sociale forte che richiede ad ognuno un’etica della responsabilità). È un programma che sollecita all’impegno e verrebbe voglia di mettersi subito alla prova!
È nostra convinzione profonda che nelle situazioni di insidiosa incertezza, come la presente, sia indispensabile assumere posizioni di chiarezza al di fuori di ogni retorica, e senza lasciare eccesivo spazio all’ideologia che, comunque, non si può continuare a credere tramontata con la caduta del muro di Berlino. Per noi - e molti non saranno d’accordo – è evidente che il liberalismo sta alla libertà come il comunismo all’uguaglianza; quando siamo sul piano ideale i valori si presentano in tutta la loro forza umanizzante, mentre decadono a vuote formule di comodo nella bassa politica quotidiana, che non pare in grado di occuparsi con equità del bene pubblico. Se il comunismo non è riuscito a costruire un modello all’altezza dell’ideale – e non abbiamo rimpianti – il liberalismo non può pensare di assumere credibilità diffusa se non impara a far proprio il valore dell’uguaglianza da intersecare con quello della libertà. La fraternità dovrebbe nascere, infine, come conseguenza rasserenante della fiducia reciproca tra esseri umani disposti a cooperare senza conflitti, in quanto liberi e uguali.
La Rivoluzione francese aveva puntato, già più di due secoli fa, su tali elementi identitari per una svolta di progresso civile e di giustizia sociale. Scriveva in proposito Condorcet: “Le nostre speranze sullo stato futuro della specie umana possono ridursi a questi tre punti importanti: la distruzione delle diseguaglianze tra le nazioni, i progressi dell’eguaglianza in seno ad uno stesso popolo, e da ultimo il reale perfezionamento dell’uomo” (Condorcet, 1969, p. 165). Nonostante l’ottimismo della volontà, la ragione ci suggerisce che la distanza dal fine è ancora ampia in quanto i mezzi continuano a non rispondere alle esigenze dell’Umanità “come comunità planetaria” (Morin, 2001, p. 121). Margiotta da parte sua, con un preciso richiamo a Dewey, mette in guardia rispetto alla “routine meccanica” che continua a connotare la divisione del lavoro, senza che i lavoratori abbiano precisa consapevolezza del valore sociale, oltre che tecnico e intellettuale, della loro opera. In parallelo la democrazia è a rischio “allorché la si confonde solo con la liberazione delle forze individuali da costrizioni meccaniche esterne, dimenticando che esse vanno alimentate, sostenute, dirette dall’interno” (Margiotta, 2005 p. 31). L’ampiamento responsabile della coscientizzazione sociale, tuttavia, deve rappresentare lo scopo dell’educazione nella sua processualità incessante: “Più il rapporto si allarga e si approfondisce, più aumentano gli stimoli, più l’educazione e la democrazia si realizzano. Di qui nasce la necessità di una rottura delle barriere politiche nazionali e che l’educazione acquisti un respiro mondiale” (Margiotta, 2005, p. 31). Ci sentiamo responsabilmente eredi di tale prospettiva ad un tempo etica, politica e formativa, la seguiamo da vicino con umiltà e speranza.
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