The Myth of Childhood in the Kalevala: A Case of Formative Fatalism in Finnish Cultural Heritage

 

Il mito dell’infanzia nel Kalevala: Un caso di fatalismo formativo nel patrimonio culturale finlandese

 

Andrea Mattia Marcelli

Institute of Education (IOE), American University of Central Asia (AUCA) – marcelli_a@auca.kg

https://orcid.org/0000-0002-9297-4536

 

ABSTRACT

The Kalevala, the quintessential Finnish epic poem, hosts a unique repertoire of episodes related to a ‘mythological’ conception of childhood. This makes it a fruitful target for the study of informal education connected with cultural heritage. After establishing how the latter constitutes the keystone for the study of informal learning processes, this contribution adopts the perspective of Greater Humanities for Education to conduct a thematic analysis of the instances in the Kalevala concerning childhood—taking into account the empirical, historical, hermeneutic, and ethical-moral dimensions of the literary phenomenon in question. The resulting case study reveals a multifaceted concept of childhood, alternating between deficient conceptions and forms of exceptionalism. From the articulations of this concept emerges a folk theory of education which in this contribution is dubbed formative fatalism. The study inductively derives the three pillars of formative fatalism drawing on the Kalevala: (i) intergenerational determinism (history); (ii) quasi-determinism of tradition; (iii) formative idiosyncrasy of individual existential paths. Given the extensive heritage status of the Kalevala and its role in shaping Finnish collective identity, the study concludes by reflecting on how this fatalism can be reconciled with the more progressive aspects of contemporary Finnish society.

 

Il Kalevala, poema epico finlandese per eccellenza, ospita un repertorio singolare di episodi riferiti a una concezione ‘mitologica’ dell’infanzia. Ciò lo rende un proficuo ambito di applicazione per uno studio dell’educazione informale in connessione al patrimonio culturale. Dopo aver stabilito come quest’ultimo costituisca la chiave di volta per lo studio dei processi informali di apprendimento, il presente contributo adotta la prospettiva dell’Umanesimo Metropolita per l’Educazione [Greater Humanities for Education] allo scopo di condurre un’analisi tematica delle istanze del Kalevala riguardanti l’infanzia che tenga conto delle dimensioni empirica, storica, ermeneutica ed etico-morale del fenomeno letterario in questione. Lo studio di caso che ne deriva mostra un concetto poliedrico di infanzia, che alterna concezioni deficitarie a forme di eccezionalismo. Dalle articolazioni di tale concetto emerge una teoria folk della formazione che in questo contributo è ribattezzata fatalismo formativo. A conclusione dell’elaborato, si ricavano induttivamente i tre pilastri del fatalismo formativo del Kalevala: (i) il determinismo intergenerazionale (storia); (ii) il quasi-determinismo della tradizione; (iii) l’idiosincrasia formativa dei percorsi esistenziali individuali. Vista l’ampia patrimonializzazione del Kalevala e il suo ruolo nella formazione dell’identità collettiva finlandese, si conclude riflettendo su come tale fatalismo possa coniugarsi con gli aspetti più progressisti della società finlandese contemporanea.

 

KEYWORDS

Childhood, Cultural heritage, Finland, Formative fatalism, Informal education, Kalevala

Educazione informale, Fatalismo formativo, Finlandia, Infanzia, Kalevala, Patrimonio culturale

 

CONFLICTS OF INTEREST

The Author declares no conflicts of interest.

 

ACKNOWLEDGMENT

The Author would like to acknowledge the assistance of Jussi Hanska, Marxiano Melotti, and Rita Minello, who assisted him during his teaching and research period at the University of Tampere (Finland). Any errors in this paper are the sole responsibility of the Author.

 

RECEIVED

April 13, 2024

 

ACCEPTED

April 30, 2024


 

1. Lineamenti per un’indagine della valenza formativa del patrimonio culturale

 

1.1. Dal patrimonio culturale all’educazione informale

 

Un’istanza culturale, un elemento, una prassi – etc. – non sono mai, da soli, sufficienti a costituire un patrimonio culturale. Così come, in una buona porzione della quotidianità degli individui, le azioni sono semplicemente dei fatti comportamentali – benché inevitabilmente siano culturalmente informati – anche per le comunità il singolo segmento di cultura non costituisce, ipso facto, patrimonio.

Pensare il contrario significa cadere nella fallacia di Barrera-García e Álvarez-Rodríguez (2024), i quali trattano il patrimonio alla stregua di un mero “retaggio”, plausibilmente con la complicità di un’insufficiente granularità semantica dell’espressione “patrimonio” nel linguaggio del mestiere: “heritage”, in inglese, è sia “retaggio” che “patrimonio”. Per questa ragione Barrera-García e Álvarez-Rodríguez si persuadono che il semplice accumulo di vissuti, unitamente alla loro registrazione – come nel caso dei progetti volti a filmare e raccontare la giornata dell’insegnante – si qualifichino unilateralmente come patrimonio. Talvolta lo fanno, è vero, poiché la loro ramificazione (anche mediatica) raggiunge una discreta massa critica; il più delle volte, tuttavia, ci troviamo di fronte a un semplice “retaggio” ovvero “lascito”, cioè un qualcosa di potenzialmente patrimonializzabile, ma non un patrimonio in atto.

Tale riflessione critica spinge a porsi la domanda su quale possa essere una definizione sufficientemente ristretta [narrow] di patrimonio che non lo confonda con un mero lascito o retaggio (che è, al più, patrimonio potenziale), ma, cogliendone la dimensione attuale, fornisca comunque uno strumento concettuale utile alla ricerca. La risposta adottata, in via operativa, dal presente contributo, è che, per guardare in modo epistemologicamente ottimale al patrimonio bisogna aderire alla definizione statistica dell’UNESCO (Pessoa & Deloumeaux, 2009). Ovverosia: non apoditticamente, ma in quanto risolutiva rispetto alle ambiguità sopra evidenziate in merito a studi come quelli di Barrera-García e Álvarez-Rodríguez (2024).

Il quadro UNESCO spiega che si può rintracciare la patrimonializzazione ogniqualvolta i fenomeni culturali sono espressi (e raccontati) attraverso una pluralità di media. In alternativa, se la nozione di “media” dovesse risultare troppo restrittiva e condurre ad aporie concettuali di difficile risoluzione, si può parlare di una “multidimensionalità performativa”. Ciò significa che un qualcosa diventa patrimonio non solo quando costituisce un lascito sfruttabile, ma anche quando viene sfruttato attraverso, ad esempio, celebrazioni. Aumenta, poi, la sua magnitudine patrimoniale quando nemmeno le celebrazioni concludono la sua performance, ma esso è ritrasmesso attraverso arti visive, forme di artigianato, media audio-visivi o comunque servizi di vario genere – talvolta sfociando nel turismo o nelle attività ricreative in genere (Pessoa & Deloumeaux, 2009, p. 24).

Sempre secondo l’UNESCO, vi sono tre tipi di ancoraggi che reggono la multidimensionalità del patrimonio: (a) educazione e formazione; (b) archiviazione e conservazione; (c) disponibilità di materiali e tecnologie di supporto. Da tale definizione, consolidata nella letteratura scientifica, si evince dunque come l’accesso alla dimensione formativa (informale) di una certa cultura debba passare attraverso una comprensione di come la multidimensionalità del suo agíto patrimoniale si regga su determinate pratiche formative, che potremmo definire “specifiche” rispetto a quel patrimonio [heritage-specific] – in maniera non dissimile da quella multidimensionalità spaziale dell’educazione informale già evidenziata da Tsirulnikov (2016). È quindi naturale, nelle ricerche sull’educazione informale, indagare tutto ciò che di formativo sta a monte del patrimonio.

 

1.2. Dalle pratiche educative informali al patrimonio culturale

 

Provocatoriamente, però, potremmo anche “rivoltare il calzino” e scoprire una motivazione ben più cogente per studiare l’educazione informale tenendo una solida prospettiva sul patrimonio. La definizione statistica UNESCO, infatti, per quanto multifattoriale, tratta i concetti di “formazione [education]” e “addestramento [training]” dando per assodato che il loro soggetto tipico sia l’individuo (Pessoa & Deloumeaux, 2009, p. 30). Ma lo scienziato culturale che si occupa di processi di apprendimento già da tempo ha iniziato a porsi domande di tipo ecosistemico. Ad esempio, chiede: se l’educazione forma gli individui, che cos’è che forma la comunità? Alternativamente: se l’apprendimento [learning] ha come soggetto l’individuo, quest’ultimo è anche il soggetto privilegiato della formazione [education] (da intendersi quindi in senso più ampio rispetto a educazione formale [schooling])? Oppure essa ha nella comunità ben altro soggetto elettivo? Se così, bisognerebbe chiedersi se le comunità apprendono nello stesso modo degli individui… Ed è proprio in seno a tali ramificazioni epistemologiche che si può fare nuovamente ricorso alla definizione statistica UNESCO, intendendo il formarsi della comunità come avente esito principe nel processo di patrimonializzazione – e vedendo quindi l’apprendimento o, meglio, il sapere collettivo, come chiave di volta del costituirsi di un sé condiviso, in maniera prioritaria, anziché ancillare, rispetto a quanto precedentemente osservato rispetto alla funzione “di supporto” dei processi formativi in genere.

La controprova concettuale di tale rapporto tra formazione comunitaria e patrimonio culturale è fornita indirettamente dalla trattazione che Shteynberg et al. (2020) fanno dell’apprendimento collettivo. Secondo la loro teoria, il miglior marcatore dell’apprendimento collettivo è la manifestazione dell’attenzione collettiva, da intendersi come stato disposizionale di un agente plurale nei confronti di un oggetto specifico; allo scopo di individuare la medesima, si cerca di stabilire se gli individui abbiano raggiunto una prospettiva plurale a partire dal fatto che, all’agente collettivo (implicito o esplicito) i partecipanti ascrivono un orientamento specifico nei confronti di un qualche oggetto – in altre parole, sembrano suggerire Shteynberg et al., tale coscienza comune è tale solo se il suo stato attenzionale è saturato da un qualcosa nel mondo. Inoltre, tali disposizioni collettive sono spesso legate a fattori scatenanti [trigger] che stimolano gli stessi processi attentivi nei medesimi individui, dando però per buono che dubbi individuali possono sempre emergere in itinere.

Fondamentali, a questo scopo, sono gli episodi corali. Shteynberg et al. (2020, p. 921) non utilizzano questo termine, ma la somiglianza con i fenomeni collettivi da loro descritti è cogente. Pertanto, seguendo questa linea di ragionamento, si trova nella Teoria dell’Apprendimento Collettivo un fondamento epistemologico – in termini di psicologia sociale – a ciò che già si sa riguardo alla natura identitaria del mito e della sua performance nelle istanze di letteratura orale (cfr. Murphy, 1978). Ma, avverte Murphy (pp. 123‍–‍124), da ciò non si può desumere che la tradizione orale, pur nella sua dimensione collettiva, certifichi l’omogeneità di un gruppo, proprio perché, come dimostrano Leach (1965) e Firth (1961), la letteratura orale può essere declinata a seconda delle necessità individuali o dei sottogruppi.

Ancora una volta, c’è un richiamo all’intersezionalità e alla multidimensionalità del retaggio che si fa patrimonio e, per questa ragione, il pedagogista che si occupa di processi di apprendimento nei contesti informali deve fare riferimento a contesti in cui fenomeni culturali risultano fortemente patrimonializzati.

 

2. Approccio: Umanesimo Metropolita per l’Educazione

 

Questo studio prende le mosse dalla consapevolezza che lo studio delle pratiche educative informali va di pari passo con la lettura e descrizione dei fenomeni patrimoniali. A questo scopo, lungi dall’arenarsi in un’esegesi à la Dilthey, si adotterà una prospettiva capace di conciliare sia la dimensione interpretativa della ricerca qualitativa con un solido fondamento epistemologico legato alle scienze dell’educazione, sia la natura intersezionale delle espressioni culturali patrimonializzate con un quadro di riferimento dalle coordinate trasferibili.

Tale prospettiva è quella dell’Umanesimo Metropolita per l’Educazione [Greater Humanities for Education], il quale postula che la ricerca di stampo antropologico-formativo poggi su quattro pilastri: (i) consapevolezza della dimensione storica; (ii) consapevolezza della dimensione interpretativa; (iii) consapevolezza della natura reale dei fenomeni, per quanto interpretabili; (iv) finalità etico-morale dell’indagine (Marcelli, 2020; cfr. anche Clifford, 2013).

L’Umanesimo Metropolita per l’Educazione costituisce un valido punto di partenza non solo perché offre le coordinate analitiche necessarie all’espletamento dell’ermeneutica pedagogica, ma anche perché aggiunge motivazione allo stimolo primario dell’indagine stessa. Se, infatti, esso esige un’intersezione proficua tra i quattro assi sopra descritti, allora i bersagli stessi dello studio, così come le domande di ricerca, dovranno prestarsi a questo tipo di analisi quadripartita. Con ciò, non si intende sovvertire la natura falsificazionista dell’indagine scientifica (ad esempio, suggerendo casi di studio che calzano a pennello rispetto all’approccio, a scopo confermativo), bensì suggerire che è plausibilmente proprio quando i fenomeni culturali si fanno patrimonio che l’Umanesimo Metropolita per l’Educazione ha maggior margine euristico. Adottando queste precauzioni metodologiche, è possibile rivolgersi a un caso specifico.

 

2.1. Patrimonio culturale finlandese: il caso del Kalevala

 

Il Kalevala non nasce come opera completa, bensì come corpus assemblato da Elias Lönnrot (1802‍–‍1884), medico e folklorista finlandese (Toomsalu, 2005) che trascrisse i versi recitati da vari cantori rurali del Granducato di Finlandia– e, più specificatamente, della regione della Carelia – unendoli, come un moderno rapsodo, in un testo omogeneo ispirato ai poemi dell’Antichità Classica e ai Canti di Ossian, cioè il lavoro proto-etnografico di James Macpherson (cfr. Nenola, 2010, p. 114).

L’edizione più completa del poema è il Nuovo Kalevala (Lönnrot, 1849), versione che ebbe la massima diffusione: 22.795 versi divisi in 50 “Runi” [canti] (Anttonen, 2015, p. 56). Riguardo alla prima versione dello stesso (Lönnrot, 1835), dei molti partecipanti alla raccolta ci è pervenuta solo una ventina di nomi: Timonen (1985) ritiene che, nonostante la pochezza dei dettagli biografici su questi personaggi, Lönnrot abbia comunque superato i suoi predecessori nel valorizzare le proprie fonti viventi. Tra essi, una nutrita schiera femminile di cui è rimasto molto poco – ad esempio, la misteriosa Matro, forse una mendicante, che riportò a Lönnrot la “Ballata della Vergine Impiccata” (Timonen, 1985).

Sia le fonti che la natura etnografica dell’impresa chiamata Kalevala ne evidenziano la natura intersezionale. Il Kalevala, infatti, risente di varie dimensioni, ciascuna delle quali contribuisce, da un lato, alla costruzione del poema stesso così come ci è pervenuto (dimensione filologica) e, dall’altro, alla costruzione di quell’intangibile che va al di là dei versi e diventa patrimonio multidmensionalmente fruito. Per meglio comprendere questa intersezionalità, è possibile collocare il Kalevala su diversi assi delineati da rispettivi poli, ossia diadi oppositive che sottendono a un certo continuum:

 

a.      Sopravvivenza vs. contemporaneità: se, da un lato, i canti che compongono il Kalevala possono tracciare le loro origini plausibilmente fino alla Prima e alla Seconda Età del Ferro finlandese, dall’altro lato le performance cui assistette Lönnrot costituivano un fenomeno culturale assolutamente contemporaneo e, in quanto tale, difficilmente riconducibile a una purezza antica senza tenere conto dell’attualità della prassi che lo esprime. Per questa ragione, Bosley (2008) parla di “doppio anacronismo”.

b.     Maschile vs. femminile. Di pari passo con l’idea di infanzia, il Kalevala mette in scena altre strutture sociali, inclusa una certa idea di mascolinità e femminilità. Ciò, tuttavia, non trova pieno riflesso nel genere dei cantori del Kalevala, cioè i sopraccitati individui, effettivamente contattati da Lönnrot. Se, infatti, le cantrici svolgono spesso ruoli minori nella narrativa del Kalevala, così non è per le narratrici (reali, anziché mitiche) della Carelia ottocentesca. Invero, proprio la già citata Matra esemplifica il ruolo chiave svolto dalle donne nella conservazione del patrimonio intangibile careliano – al punto che Lönnrot stesso raccolse la maggioranza delle voci femminili in un’opera a parte, Kanteletar (Lönnrot, 1840).

c.      Carelia vs. Finlandia. La maggior parte della Carelia non si trova attualmente (2024) in Finlandia, bensì nella Federazione Russa. Ciò riflette una problematicità già presente nell’opera iniziale di Lönnrot: pur dedito allo studio delle antichità finlandesi, Lönnrot era suddito di uno Stato multinazionale, la Russia, dal quale la nazione finlandese si separò formalmente solamente a fine 1917 (cfr. Karner, 1991). Il fatto che la Carelia sia assurta a epitome del passato finlandese è dovuto sia a fattori oggettivi che a scelte intenzionali da parte di Lönnrot. Da un lato, infatti, è realistico ritenere che le regioni interne, meno affette dalle colonizzazioni prima svedese e poi russa, abbiano in qualche modo preservato una sorta di autenticità in contrasto con le aree costiere della Finlandia. Tuttavia, proprio questo modo di pensare – cioè la ricerca spasmodica di un’origine, ovverosia un passato primordiale – è uno sforzo intellettuale consapevole tipicamente ottocentesco, che a sua volta mappa sulla diade precedentemente esposta di (a) sopravvivenza vs. contemporaneità.

d.     Stasi vs. cambiamento culturale. La raccolta del Kalevala affronta vari temi e articola essa stessa, nella sua narrativa, il complesso rapporto tra quella che è la conservazione di un patrimonio condiviso e la sua trasformazione. Ciò è evidente soprattutto negli ultimi canti, che esprimono i conflitti tra tradizione rurale pagana e cristiana – e che Lönnrot, plausibilmente, considerava essere tra quelli cronologicamente più recenti. Tema che ritornerà anche nelle parti che si occupano di infanzia: l’adeguamento a leggi immutabili e pre-umane cede il passo, non senza difficoltà, a un senso di iniziativa – e quasi d’impresa – fortemente occidentalizzata (o comunque post-romana).

e.      Omogeneità vs. frammentazione. Si può quasi affermare che il Kalevala sia uno e plurimo allo stesso tempo. Quell’omogeneità di “poema” con cui esso oggi si presenta al lettore è un artificio di Lönnrot, allo stesso tempo “scopritore”, ma anche “imitatore” dell’epica classica che tanto aveva affascinato l’élite intellettuale finlandese. La decostruzione contemporanea del Kalevala ha evidenziato come Lönnrot sia stato particolarmente attivo nel “risolvere” le aporie derivanti da canti dal contenuto contraddittorio, riferiti ad aree diverse della regione da lui percorsa.

 

Con e dopo Lönnrot, il Kalevala acquista una nuova dimensione patrimoniale. Se, infatti, il Kalevala “della Carelia” era sì un patrimonio, ma esercitato attraverso pratiche trasmissive codificate, il Kalevala “della Finlandia”, in quanto poema nazionale, si è subito prestato sia all’emergente ideologia nazionalista finlandese (Billson, 1895), sia a una serie di opere derivate (non ultime, le musiche di Sibelius, 1901; e le sculture di Sjöstrand, 1858) e a tutta una nuova serie di declinazioni che ormai esorbita dall’ambito squisitamente artistico e letterario – è questo il caso, per esempio, delle aziende locali che portano i nomi di eroi od oggetti appartenenti alla mitologia del Kalevala (Olsson & Ainiala, 2023).

 

 

3. Problematizzazione formativa dell’infanzia nel Kalevala

 

3.1. Infanzia come incompletezza (Runo III)

 

Nel Kalevala, l’infanzia compare come status di minorità intellettuale, che prelude all’età matura, ma è deficitaria dal punto di vista delle conoscenze. In altre parole, l’infanzia rappresenta una condizione in cui il sapere non si è ancora ben formato, specialmente per difetto di esperienza.

 

Alla base della conoscenza vi sono due pratiche, che nel Kalevala sono frequentemente connesse: il ricordo e la ripetizione. All’esordio del Runo III, Väinämöinen, bardo ed eroe di origine divina, coniuga ricordo e ripetizione in una prassi non dissimile da quella dei cantori della Carelia che cantano il Kalevala:

 

“Con costanza il vecchio Väinämöinen trascorre le sue giornate presso quelle radure della regione di Väinämöinen, nelle lande della provincia di Kaleva. Contina a cantare le sue canzoni, continua a cantare e seguita nel praticare la sua arte. Canta giorno dopo giorno, recita notte dopo notte i ricordi di tempi antichi, quelle canzoni dell’origine profonda, che non tutti i bambini cantano, che nemmeno gli uomini comprendono in questa terribile epoca, in questa effimera età conclusiva” (Lönnrot, 1963a, vv. 1–14).

 

La ripetizione, essenzialmente formativa, è il caposaldo dell’arte. La canzone diventa quindi formula, che solo per gli infanti è sminuita in forma di filastrocca: gli adulti maturi, versati nelle arti magiche, utilizzano la voce per recitare parole di potere e, poiché la recitazione, per essere efficace, deve essere pedissequa, essa diviene essenziale alla formazione del mago-cantore.

Nel Kalevala, forma e contenuto sono legate da un indissolubile vincolo estetico. Prendendo a prestito una metafora spuria, il richiamo alla kalokagathìa greca sembra essere immediato, con sinolo platonico, anziché aristotelico: il vero, il buono e il bello si accompagnano. Nel Runo III è proprio la beltà del canto di Väinämöinen a suscitare l’invidia del giovane Joukahainen ([il Cigno], cfr. l’etimologia di Kuzmin, 2018), i cui versi, ancor prima di risultare inferiori dal punto di vista magico, lo sono dal punto di vista estetico:

 

“Joukahainen era giovane, un macilento ragazzo lappone. Un giorno se ne stava andando a zonzo, quando udì notevoli incantamenti e canzoni magiche che qualcuno stava sciorinando; le migliori erano intonate in quei tratti riarsi della regione di Väinämöinen, nelle lande della provincia di Kaleva: migliori di quelle che lui stesso conosceva e aveva appreso da suo padre. Così belle che ne ebbe a male e prese a invidiare costantemente il fatto che Väinämöinen fosse un cantore migliore di lui” (Lönnrot, 1963a, vv. 21–34).

 

Da questo passo si evince, inoltre, come la formazione dello stesso Joukahainen fosse una sorta di apprendistato, simile a quello che Väinämöinen somministrerebbe ai suoi figli, se ne avesse. Nel contesto regionale descritto dal Kalevala, la trasmissione del sapere è patrilineare e procede di generazione in generazione. Le “canzoni”, quindi, piacevoli o meno che siano, rispecchiano non tanto una conoscenza diffusa, quanto invece una coscienza famigliare, sviluppata nel tempo e accumulata generazione dopo generazione. Vedremo, però, come anche questa consapevolezza intergenerazionale risulti deficitaria, dinanzi a un potere autentico e originario.

Il Runo III prosegue con l’ingaggi di Väinämöinen da parte del giovane Joukahainen, il quale trasforma l’invidia in conflitto aperto urtando la slitta di Väinämöinen con la propria e avviando una querelle per ottenere la precedenza sul sentiero. Di primo acchito, Väinämöinen non esercita la propria arte, ma si limita a chiedere per l’appunto la precedenza, come si suole secondo le convenzioni del luogo: il giovane ceda il passo in deferenza all’età avanzata del bardo. Ma Joukahainen contesta la richiesta, sostenendo che l’età non sia un metro sufficiente a determinare una gerarchia di valore tra gli uomini. Spiega infatti Joukahainen che è la conoscenza a fare da discrimine: chi più sa, più merita – non importa se giovane o vecchio. La sfida è lanciata:

 

“Allora il giovane Joukahainen profferì parola e così disse: ‘La gioventù di un uomo è piccola cosa. La sua giovinezza… la sua età… Chi dei due uomini eccelle in conoscenza, ha la memoria più forte: che sia costui a restare sulla pista e che sia l’altro a cedergli il passo. Se sei vecchio, Väinämöinen, cantore eterno, allora iniziamo a cantare, iniziamo a recitare la magia; un uomo metterà l’altro alla prova; un uomo sconfiggerà l’altro.’ Con decisione, il vecchio Väinämöinen profferì parola e così disse: ‘Che cosa posso veramente fare, come cantore, come esperto!? Ho sempre vissuto la mia vita limitandomi a queste radure, al limitare del campo domestico, e ripetutamente ho udito il cuculo presso la [mia] dimora.’” (Lönnrot, 1963a, vv. 121–142).

 

Väinämöinen non sembra accettare subito il conflitto epistemico tra il proprio sapere e quello di cui Joukahainen è portatore. Si schernisce, spiegando che, come “esperto”, può fare e dire ben poco: egli, infatti, non ha mai viaggiato ed è sempre rimasto nei pressi della propria dimora, cioè nei luoghi in cui Joukahainen lo ha incontrato. Il lettore-uditore, però, è ben consapevole del potere di Väinämöinen, in quanto figura eroica e protagonista di molti canti: emerge pertanto una certa ironia, quasi socratica, di chi sostiene che forse non serva viaggiare troppo per diventare come Väinämöinen. Anzi, a rendere Väinämöinen saggio è proprio la località del suo vissuto, la quale è quindi presupposto di conoscenza e apprendimento: un apprendimento mirato, contestualizzato rispetto al territorio e mai dispersivo. Torna, quindi, l’importanza della ripetizione: aver udito a più riprese “il canto del cuculo” significa, nell’ironia, essere rimasti intontiti da una nenia invariabile, ma, nella teoria epistemologica del Kalevala, significa aver udito cose a ripetizione – aver conosciuto.

Il Runo III si articola quindi su questa linea di pensiero: (i) da un lato, vi sono le conoscenze plurali di coloro che hanno viaggiato e hanno visto molte cose; (ii) dall’altro, i cantori più esperti sono coloro che di cose ne hanno viste poche, ma che hanno altresì saputo vedere dentro di esse (conoscenze profonde), ripetendone la cantilena. Forma, contenuto ed efficacia performativa dell’agire, per quanto tendenzialmente congiunte, non sono pienamente sostituibili tra loro. Joukahainen, come si evidenzia in seguito, è consapevole del valore della ripetizione, ma tale esercizio pedissequo non è sufficiente a fare di lui un conoscitore profondo: egli ripete con estrema precisione, sciorinando, in versi, una lunga serie di luoghi e nozioni, ma Väinämöinen non ne è affatto colpito:

 

“Il vecchio Väinämöinen disse: ‘La conoscenza di un bambino, la capacità mnemonica di una donna! Non è né quella di un uomo barbuto, né quella di un uomo sposato. Parla[mi] di origini profonde, di questioni singolari…” (Lönnrot, 1963a, vv. 184–188).

 

Ne deriva che, nell’epistemologia del Kalevala, esistano due tipi di memoria: una predicativa e una esperienziale. La prima è quella che Väinämöinen ritiene più superficiale: elenchi di fatti e di cose. Eppure Väinämöinen stesso si era precedentemente qualificato come “ripetitore”; in che cosa consiste, pertanto, la distinzione tra la sua conoscenza e quella del giovane? La cifra della differenza sembra essere lo scarto tra ciò che si è sentito e ciò che si è vissuto. Se, infatti, Joukahainen ci fornisce utili informazioni sulla formazione dei giovani cantori sui generis (es.: patrilinearità della trasmissione), resta il fatto che egli non possa che cantare per sentito dire. Diversamente, Väinämöinen è il cantore eterno: nel ripetere le formule, egli non ribadisce solamente delle nozioni, ma ripete il proprio stesso vissuto; anche il “canto del cuculo”, in questo senso, è un vissuto di Väinämöinen e non una semplice voce nella foresta. Joukahainen potrà anche parlare per ore del canto degli uccelli, ma resta in difetto, poiché, di questi canti, ha udito ben poco in prima persona.

Ritorna, quindi, anche il tema dell’età: per quanto Väinämöinen non neghi l’assunto fondamentale di Joukahainen (cioè che si può, tutto sommato, sapere molto anche senza essere anziani), sembra suggerire che debba comunque sussistere una qualche proporzionalità tra la lunghezza della barba di un individuo (cioè l’età) e il suo accesso ai vissuti esperienziali (cioè il ricordo del vivere). Per questa ragione, il canto di Väinämöinen non è ripetizione verbale, bensì ripetizione esperienziale. Ciò è provato dal fatto che il saggio cantore, attraverso il suo canto, riesce a far accadere cose – proprio in questo consiste la sua magia:

 

“Il vecchio Väinämöinen, quindi, si adirò: si adirò e si sentì offeso. Iniziò a cantare, prese a recitare. Le canzoni magiche non sono canzoni da bambini, non sono canzoni da bambini o scherzi femminili: appartengono agli uomini con la barba. In questa terribile epoca, in questa effimera età conclusiva, non tutti i bambini cantano queste canzoni, né, invero, metà dei ragazzi e nemmeno uno scapolo su tre. Il vecchio Väinämöinen cantò. I laghi esondarono, la terra termò, le montagne di rame vacillarono, le solide lastre di roccia si spezzarono in due, le rupi si divisero e i ciottoli della riva si incrinarono” (Lönnrot, 1963a, vv. 283–300).

 

Seguendo il filo del ragionamento esposto nel Kalevala, Väinämöinen si altera nel momento in cui Joukahainen inizia a parlare di eventi cui non può, oggettivamente, aver partecipato. Passi, insomma, la conoscenza della geografia e delle pratiche di vita quotidiana; passi anche una certa dimestichezza predicativa con la metallurgia. Può, però, questo “ragazzino” fregiarsi di aver assistito a cose avvenute prima della sua nascita? Egli è solamente un figlio degli ultimi tempi e Väinämöinen sa bene che, nell’epoca corrente, una scarsa percentuale della popolazione possiede il suo tipo di memoria-esperienza. Ragionando in modo controfattuale, si può desumere che coloro che nacquero all’origine del Mondo (come cioè Väinämöinen, nel Runo I) godevano già da bambini di quel tipo di conoscenza che, ora, sono solo in pochi a possedere: ciò fu possibile perché vi furono esposti in maniera diretta. Joukahainen, invece, non è uno di loro e, nel presentare a Väinämöinen testi sulle origini, ne offende l’esistenza.

Ad ogni modo, l’ira finale è scatenata dall’incapacità di Joukahainen di arrendersi all’evidenza: frustrato dall’indifferenza del vecchio alle sue canzoni, Joukahainen lo sfida a duello, sostituendo la violenza alla parola. È proprio in quel momento che Väinämöinen sfoggia finalmente il suo potere, intrappolando l’improvvido sfidante. Con uno scarto semantico preservato anche nella lingua italiana, dal canto si passa all’incanto: la voce di Väinämöinen scuote le montagne, solleva un vento terribile e inizia a sciogliere la terra sotto i piedi di Joukahainen, che si ritrova imprigionato nelle sabbie mobili di una palude, dove prima c’era solo terreno calpestabile. Joukahainen è uno di quei ripetitori che non ha compreso ciò di cui parla. Nella sua discesa inesorabile nelle profondità del terreno, Joukahainen inizia a implorare Väinämöinen di salvarlo e gli chiede di “cantare la canzone al contrario”, cioè di disfare ciò che sta facendo. In pegno, Joukahainen offrirà molte cose, ma anche in questo caso dimostra inizialmente di non aver autenticamente compreso la natura di ciò di cui dispone: se offre a Väinämöinen un campo da coltivare, il vecchio risponde che, per lui, tutta la Terra è, potenzialmente, terreno agricolo; se, invece, gli offre monete e metalli preziosi, Väinämöinen risponde che ne possiede già – di antichi “quanto il Sole”. Inevitabilmente, Joukahainen finirà per offrire ciò che ha di più prezioso: la mano della sorella. Väinämöinen acconsente e il suo assenso dimostra che una giovane vita umana è, in effetti, l’unica cosa che può presentarsi come nuova agli occhi dell’eroe più antico (oltre che, naturalmente, dimostrare che le donne, nel Kalevala, sono spesso e volentieri tenute in uno stato di minorità).

Sebbene il Runo III non abbondi di riferimenti all’infanzia, ne parla in chiave metaforica. Essa vi è rappresentata come uno stato di minorità intellettuale, paragonabile alle filastrocche dei bambini. In ciò, l’infanzia è paragonata all’altra grande categoria ritenuta qualitativamente inferiore dalla società patriarcale: il genere femminile, le donne. L’idea che le canzoni magiche – cioè ricordi autentici che riproducono sé stessi – siano, in qualche modo, appannaggio dell’universo maschile, cozza con il fatto che lo stesso Lönnrot conobbe numerosi Runi grazie all’opera delle cantrici, cioè individui di sesso femminile che, all’epoca delle indagini, erano evidentemente depositari del sapere mitologico locale.

Più che di infanzia, ad ogni modo, si dovrebbe qui parlare di infantilismo, cioè del capriccio di Joukahainen, il quale non vuole arrendersi alla propria condizione di insipiente e, anzi, pretende di sapere ciò che non può aver conosciuto personalmente e intimamente. Alle spalle della dialettica tra il vecchio Väinämöinen e il giovane Joukahainen c’è la cesura intergenerazionale tra i primi individui – i più antichi – e i nuovi nati: la temporalità, nel Kaevala¸è spesso percepita come già chiusa e avviata alla sua conclusione ultima; pertanto, non sussistendo per l’umanità una prospettiva di sviluppo (“questa effimera età conclusiva”), ne consegue che coloro che nacquero nei tempi antichi ebbero migliore accesso all’origine del Mondo e, per traslato, alle cause prime delle cose. Pertanto, un infante antico potrà a buon diritto surclassare un anziano degli ultimi giorni proprio in virtù della sua testimonianza di prima mano: non si esclude, quindi, la possibilità di bambini saggi, specialmente se nati in prossimità della creazione del Mondo; si tratta, tuttavia, di un fenomeno rarissimo nel Kalevala.

 

3.2. Le risorse dell’infanzia (Runo XIX e XXI)

 

“Il neonato sul pavimento cantò – all’età di due settimane strillava: ‘È facile nascondere un cavallo, occultare una giacca sgualcita; [ma] è difficile nascondere una ragazza nubile, occultarne le lunghe trecce. Se anche costruissi un forte di pietra in mezzo al mare, per tenervi le giovani in età da marito, per crescervi i vostri pulcini, le ragazze non vi troveranno nascondiglio e le vergini non matureranno senza pretendenti importanti, pretendenti di campagna, uomini con i cappelli a punta, cavalli con zoccoli ferrati.’” (Lönnrot, 1963c, vv. 483–498).

 

Il passo precedente è rimarchevole per almeno due ragioni:

 

(i)      In primo luogo, per via del contenuto: sembra suggerire che la maturità, in qualche modo, sia il risultato di pressioni sociali costanti e che la situazione di puer aeternus sia lesiva della persona; in questo senso, a nulla varrebbe recludere la propria prole, poiché l’età adulta e i rischi e le opportunità del mondo la cercheranno e la troveranno comunque.

(ii)    Il secondo aspetto rilevante è l’identità della voce narrante. A parlare, infatti, non è un cantore anziano (Väinämöinen) e nemmeno uno spavaldo giovanotto (Joukahainen), bensì un neonato, di appena due settimane d’età. Come può un neonato parlare in così tenera età, senza possedere evidenti qualità magiche?

 

Il Kalevala non spiega il perché dei molti neonati parlanti che compaiono nei suoi Canti, dei quali questo è solo un esempio. Nei versi precedenti al passo citato, il neonato si dilunga in una metafora avicola che rispecchia una tripartizione favolistica (Meletinsky et al., 1974): l’uccello rapace non riesce a penetrare nelle dimore ben protette degli uomini (tetto di ferro), né delle donne adulte (tetto di rame), bensì nella capanna delle ragazze nubili (tetto di lino).

Nel canto di questo bambino, che ripete nozioni fondamentali sul passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, è riscontrabile anche una funzione corale, poiché questa “morale” del bambino altro non è che la “morale” della vicenda che, nel frattempo, sta avendo luogo: la Signora delle Terre del Nord [Pohjola] si vede costretta a cedere la propria figlia al fabbro Ilmarinen, il quale ha appreso in segreto dell’esistenza della fanciulla, nonostante gli sforzi della madre di nasconderne l’esistenza.

Che i bambini, nella prima o nella seconda infanzia, posseggano doti peculiari, è riconfermato dalle successive scene matrimoniali del Runo XXI, nel quale Väinämöinen si assicura che non ci sia già qualcuno di pronto a intonare un canto per allietare la serata – plausibilmente, perché vuole farlo egli stesso. Nel passo si contrappongono due figure: quella dell’ennesimo bambino di primo pelo accoccolato presso la stufa e quella di un anziano che ha perso la voce.

Così è descritto l’intervento del bambino:

 

“C’è un bimbo sul pavimento, con i baffi da latte, sulla panca presso il focolare. Il bambino, da terra, parla – parla dalla panca vicina alla stufa: ‘Non sono avanti con l’età, di corporatura robusta, ma, sia quel che sia, se altri più forzuti non canteranno, se uomini più corpulenti non si intrometteranno cantando, io, magrolino, cinguetterò. Canterò dal mio corpicino pelle e ossa e con le mie membra esili produrrò una musica gioiosa per la nostra serata, per onorare questo grande giorno.’” (Lönnrot, 1963d, vv. 291–352).

 

Ecco, quindi, una singolare testimonianza dell’infanzia pre-moderna nella regione interessata dal Kalevala: uno scenario domestico, un bambino con le labbra sporche di latte, i giochi sul pavimento presso la panca che sta vicina al focolare, la capacità di divertire e produrre suoni armoniosi (“ciguettio”). In questo caso, la presenza di un bambino-cantore svolge la funzione di mettere in ridicolo i maschi adulti che, seppur “grandi e grossi”, non osano cantare. Visto il capovolgimento dei ruoli, il bambino ricco di risorse è subito ostacolato e, a differenza del bambino-saggio del passo precedentemente citato, un anziano lo interrompe:

 

“C’è un vecchio presso la stufa. Costui pronuncia le seguenti parole: ‘Non c’è nulla nelle canzoni dei bambini, nel tubare degli infelici; le canzoni dei bambini sono inganni, le canzoni delle ragazze sono vuote. Lascia il canto a un saggio, lascia la canzone a costui, che è seduto sulla panca’.” (Lönnrot, 1963d, vv. 291–352).

 

Parlando di saggio, il vecchio indica Väinämöinen, il quale sta ancora cercando di appurare se, tra i membri della famiglia riunita per le nozze, vi sia qualcuno in grado di prendere in mano il testimone e iniziare a cantare. L’anziano che ha interrotto il bambino non è, tuttavia, in grado di supplire a questa necessità. Costui, quindi, critica, ma non sa offrire soluzioni e non riesce quindi a collocarsi sull’asse oppositivo che già in precedenza aveva visto Väinämöinen trionfare sul giovane e sprovveduto Joukahainen. Infatti, l’anziano dichiara che, proprio durante l’infanzia, godeva di una voce splendida, che però ora ha perduto:

 

“Dice il vecchio, dalla stufa: ‘Non fu mai udito prima, né visto o sentito mai – mai e poi mai – un cantore migliore, ovvero un esperto di maggior successo, di me quando solevo cinguettare e cantare, come un semplice fanciullo: accompagnare il canto delle acque nella baia, cantare sonoramente nelle lande, cantare a squarciagola nei boschetti di conifere, cantare la magia nelle foreste selvagge. La mia voce era piena e aggraziata, la mia melodia oltre ogni bellezza. All’epoca, scorreva come un fiume, luccicava come un torrente d’acqua, correva come uno sci lasciato [a sé stesso] sulla neve, come una barca a vela che prende il vento. Ora, tuttavia, non posso [più] cantare. E non capisco proprio cosa possa aver soppresso questa voce maestosa e abbattuto il [suo] suono adorato. Ora non scorre più come un fiume, né si increspa con il sollevarsi delle onde. È come un erpice sulla stoppia, un ramo di pino che stride sulla neve ghiacciata, una slitta sulle sabbie della riva, una barca su rocce aride.’ (Lönnrot, 1963d, vv. 291–352).

 

Si articola così una doppia prospettiva ironica, che gioca sul concetto di infanzia. Il bambino è zittito dal vecchio, in quanto le sue canzoni sarebbero, in qualche modo, fonte di inganno e non rispetterebbero la realtà delle cose. L’intromissione dell’anziano e la censura della canzone infantile fanno perno sulla necessità di un canto adeguato, appropriato al contesto, ma anche di un cantore esperto nelle cose che narra. Tuttavia, l’interazione del bambino è al tempo stesso la molla che innesca la nostalgia: l’anziano, infatti, proprio durante l’infanzia, godeva di una voce particolarmente sopraffina, la cui dote maggiore era quella di sapersi armonizzare con i suoni dell’ambiente. La vecchiaia, tuttavia, ha reciso il provvido legame tra l’uomo e la natura: tanti ricordi, ma non una voce adeguata a narrarli. Se, dunque, il bambino pecca per inesperienza, il vecchio, invece, pecca per assenza di doti canore. Ciò che, nell’infanzia, è musicalmente adeguato, non lo è per i contenuti (manca il vissuto); viceversa, ciò che l’anziano potrebbe trasmettere per esperienza, rischia di non intrattenere gli astanti, poiché è riferito con suoni striduli e poco aggraziati.

Questa aporia, insolubile per un uomo degli ultimi tempi, è invece superata da Väinämöinen, il quale, in quanto cantore eterno, può farsi carico del duplice compito: quello di cantare bene e quello di cantare il vero, cioè ciò che ha esperito. Si evince, quindi, che la vecchiaia di Väinämöinen sia qualitativamente diversa dall’età avanzata essendo che, quest’ultima, coincide, per gli uomini mortali, con la degenerazione del corpo. Il Kalevala, quindi, articola due diadi oppositive, che riflettono due concezioni di infanzia e due concezioni di vecchiaia:

 

(i)              Infanzia dei mortali vs. vecchiaia dei mortali;

(ii)            Infanzia dell’Umanità vs. vecchiaia dell’Umanità.

 

Nel primo caso (i), l’infanzia coincide con un’armonia estetica nei confronti della natura che, in unisono con la caducità del corpo mortale, scema nel corso degli anni. Sempre nel primo caso (i), l’infanzia coincide anche con un difetto epistemico: pur in sintonia con la natura, il bambino e il fanciullo non sanno e non comprendono i principî delle cose che li circondano – si tratta di una cosa che matura con l’età e con l’esperienza. Invece, nel secondo caso (ii), c’è un’infanzia del Mondo i cui testimoni erano, per definizione, giovani all’epoca dei fatti, ma i quali hanno comunque assistito al dispiegarsi di eventi eziologici – acquisendo perciò non solo competenze estetiche superiori, ma anche una conoscenza cui non si sarebbe potuto attingere a posteriori. Viceversa, coloro che sono nati in tempi recenti, seppur giovani anagraficamente, sono i rappresentanti di un genere umano ormai prossimo alla vecchiaia e alla fine dei tempi e che, nonostante la tarda età in termini intergenerazionali, non è capace di reminiscenza del passato mitico. Può, naturalmente, raccontarlo, così come Joukahainen ripete quello che ha sentito dire da suo padre – ma questo apprendistato predicativo ha poco valore rispetto alle testimonianze di prima mano.

 

3.3. Dalla fine dell’infanzia alla cura dell’infanzia (Runo XXIII)

 

Nei Runi del Kalevala dedicati al matrimonio tra Ilmarinen e la Figlia del Nord la narrazione mantiene sempre i riferimenti alla quotidianità, già reperibili nelle circostanze dell’incontro tra Väinämöinen e Joukahainen e nelle svariate prove sostenute da Ilmarinen per ottenere la mano della futura sposa. Tuttavia, in questo caso non è solo il contesto a farsi quotidiano, ma anche gli argomenti trattati: anziché discettare sui primordi del Mondo, la narrazione è eventualmente affidata a Osmotar, divina preparatrice della birra ed esperta di questioni domestiche, la quale educa le figlie di Pohjola al loro futuro di massaie presso le famiglie dei mariti.

Con Osmotar, compare finalmente una cantrice mitica, ma l’articolazione delle sue conoscenze non esula dal contesto patriarcale precedentemente descritto – a testimonianza della forte disparità di genere presente nel Kalevala: il Runo XXIII, infatti, si occupa principalmente dell’educazione della promessa sposa, che costituisce certamente motivo di interesse per chi si occupa di storia sociale dell’educazione. Limitatamente all’infanzia, il Runo offre due rappresentazioni: (i) primo, come condizione che la ragazza abbandona con il passaggio all’età matura; (ii) secondo, come condizione con la quale la sposa dovrà confrontarsi, poiché la casa e il circondario dove abiterà saranno, probabilmente, pieni di bambini. Dice Osmotar:

 

“Quando te ne vai da questa fattoria, ricordati di prendere tutte le tue cose, ma lascia a casa queste tre: dormire tardi il mattino, le parole amorevoli di una madre, il burro fresco direttamente dalla zangola. Ricorda tutti i tuoi mobili[, ma] dimentica il letto a cassettone, lasciato alle ragazze di casa, accanto alla stufa di famiglia. Getta le canzoni sopra la panca, i lazzi di gioia dalle finestre, le bambinate all’impugnatura della spazzola del bagno, i motti giovanili nel vivagno di iuta, le tue cattive abitudini nel focolare, le tue pigrizie sul pavimento – o, eventualmente, dalli alla damigella d’onore, infilali sotto il braccio della damigella d’onore, affinché la damigella d’onore li conduca in un boschetto, li porti in una brughiera” (Lönnrot, 1963e, pp. 35–54).

 

Questo passaggio può essere interpretato come un riferimento negativo all’infanzia, oppure, in chiave più neutrale, come la demarcazione di una differenza. Nel primo caso, si annoverano: filastrocche infantili, modi di fare “da bambina”, le cattive abitudini e la pigrizia (dormire fino a tardi, etc.). Nel secondo caso, l’infanzia è rimembrata come luogo d’amore, di riposo, di gioia, di nutrimento sano (il burro fresco) e di tepore (il letto vicino alla stufa).

Giunta nella nuova dimora, sotto la supervisione della suocera, la novella sposa dovrà farsi carico di numerose faccende domestiche. Nell’assolvere ai propri nuovi compiti, non dovrà esitare a sforzarsi – pena gettare il discredito sia sulla famiglia di provenienza che su quella che l’ha accolta.

In ossequio alla seconda rappresentazione dell’infanzia, quest’ultima compare nuovamente nel Runo sotto forma di bambini e neonati da accudire, quando la donna rientrerà a casa:

 

“Non sostare nella stalla, non poltrire nel recinto degli ovini. Quando avrai pulito la stalla e quando ti sarai presa cura del bestiame, ritorna a casa ed entra come un turbine. Ci sarà un neonato che piange, un piccolino sotto le coperte. Il povero bambino non può parlare e, poiché non ha la parola, non può dire se abbia freddo o se abbia fame o se qualcosa d’altro sia accaduto – fino all’arrivo di un individuo che gli è familiare, finché non ode la voce della madre. Ma tu, non appena entri in casa, entra in casa con quattro cose: un mestolo d’acqua in mano e, sotto il braccio, un ramoscello di betulla come spolverino, una stecca di legno rovente tra i denti e, come quarta cosa, porta te stessa. Inizia a pulire i pavimenti, spazza le assi del pavimento; getta l’acqua sul pavimento – non gettarla sul bambino! Potresti vedere un infante sul pavimento, che magari è il figlio di tua nuora: sollevalo e mettilo su una panca a muro, lavagli la faccia, lisciagli i capelli, dagli un pezzo di pane in mano – spalma del burro su quel pane. Se non c’è pane in casa, mettigli in mano una scaglia di legno” (Lönnrot, 1963e, vv. 161–192).

 

I bambini, specialmente se nella prima e seconda infanzia, sono lasciati soli a casa quando la massaia si occupa degli animali. Quest’ultima operazione va, tuttavia, svolta con rapidità, in modo da tornare a occuparsi dei bambini il prima possibile. Il Runo XXIII insiste molto sull’importanza di non trascurare i più piccoli nella foga di sbrigare altre faccende domestiche: ad esempio, i pavimenti vanno lavati dopo aver messo in sicurezza i minori. Inoltre, sempre stando a questa sezione del Kalevala, il bambino dovrebbe avere sempre qualcosa a disposizione un pezzo di pane da mordere o, in alternativa, una scaglia di legno per ingannare la fame; inoltre, il bambino va pulito e lavato – in controtendenza rispetto allo stereotipo dell’antichità, talvolta diffuso nei media, secondo cui le pratiche igieniche di epoca premoderna sarebbero carenti (cfr. ad es., lo studio di Classen, 2017). Si pensi, ad esempio, alla sauna come fulcro ancestrale delle dimore finlandesi e careliane, oppure ai frequenti riferimenti al bagno, alla spazzola e alla cura dei capelli (Lönnrot, 1963l, vv. 343–346).

Nonostante le necessità passive esposte nel passaggio precedente, l’educazione della giovane sposa tiene anche conto dell’agentività della prima e della seconda infanzia:

 

“Sei uscita a lavare un contenitore, a sciacquare un barilotto: lava le pentole e i loro manici, le caraffe e i loro incavi; sciacqua le scodelle – ricordati del loro bordo – [sciacqua] i cucchiai – ricordati le impugnature. Tieni conto di cucchiai, tieni traccia dei contenitori, affinché i cani non se li portino via, affinché i gatti non se li tengano, affinché neanche gli uccelli li spostino, affinché i bambini non li lascino sparsi in giro. Ci sono numerosi bambini nella comunità, un sacco di testoline che si porterebbero via le pignatte, che sparpaglierebbero i cucchiai” (Lönnrot, 1963e, vv. 336–350).

 

I bambini non sono dunque soggetti esclusivamente passivi – come già anticipato dai vari interventi dei “bambini parlanti” in diverse sezioni del poema – ma sono altresì soggetti attivi. Tuttavia, la loro attività è descritta come disorganizzata e, potenzialmente, destabilizzante per l’equilibrio domestico. Un aspetto di interesse, in questo contesto, è l’assenza di riferimenti a eventuali punizioni. Non traspare, nel Kalevala, l’idea di una società dura e rigida nei confronti dell’infanzia. Se, infatti, la condizione di minorità dell’infanzia è ribadita più volte (al punto da diventare un Leitmotiv dei vari Runi), la sua inevitabilità suggerisce il bisogno di un approccio tollerante: al bambino si lascia fare ciò che vuole.

Retrospettivamente, la libertà dell’infanzia con cui si confronta la novella sposa contrasta con la natura vincolata del suo operare in seno alla famiglia. Nei bambini della comunità che la accoglie, costei vedrà rispecchiata l’infanzia che ha vissuto – tuttavia, lei ha perduto definitivamente tale condizione. A mancare, in questi passi del Kalevala, è la rappresentazione di periodi di transizione sostanziali, come ad esempio l’adolescenza nella società contemporanea: l’accesso alla maturità, cioè il passaggio da “bambina” ad “adulta”, non è soggetto a un periodo di acclimatamento, ovvero a una finestra temporale in cui abituarsi alla propria nuova vita ed, eventualmente, esercitare un diritto di recesso.

In questo senso, esistono figure ambigue che, nel Kalevala, seguono percorsi esistenziali che non li separano dall’infanzia, ma tali figure sono prevalentemente maschili: lo sposo resta a vivere nella casa materna ed è la sua famiglia ad assorbire la sposa, non viceversa; a sua volta, la madre di lui fu anch’essa acquisita dalla famiglia. È così illustrata la struttura di una società in cui la trasmissione della terra segue la discendenza patrilineare, ma in cui la gestione della casa è affidata alla parentela acquisita (le mogli). Se, quindi, i personaggi di sesso femminile vivono transizioni drastiche dall’infanzia all’età adulta, con soluzione di continuità, i personaggi maschili beneficiano di una sorta di maturità fluida, che consente loro di intervenire altrove (ad esempio: per cercare moglie) e, successivamente, di tornare in seno alle cure famigliari (ad esempio: dopo il matrimonio).

 

3.4. L’infanzia minacciata (Runo XXXI‍–‍XXXVI)

 

 

Un ulteriore tema concernente l’infanzia e la formazione individuale è esplorato dalla tragedia di Kullervo. Si tratta di una saga a incastro presente nel Kalevala, la quale, per via della sua estensione e autonomia narrativa, meriterebbe una trattazione separata – come del resto rimarcato dallo stesso Tolkien (2015). In questa sede, sarà trattata in forma più breve e limitatamente ai temi di pertinenza del presente contributo.

Nei Runi che vanno dal XXXI al XXXVI, la vita di Kullervo si presenta come costellata da ripetuti episodi di violenza. Il primo avviene addirittura prima della sua nascita e detta il tono dell’esistenza del nascituro: Untamo, geloso del fratello Kalervo, ne stermina la tribù; sopravvive al massacro solo Untamala, una ragazza incinta, che Untamo trasformerà nella sua concubina (Lönnrot, 1963f, vv. 1–82).

Il nuovo nato, chiamato Kullervo, è subito percepito come una minaccia, poiché si teme che un giorno possa vendicarsi del torto subito dalla tribù della madre. Seguono, quindi, diversi tentativi di infanticidio, ai quali Kullervo sopravvive sempre grazie a poteri portentosi, che mettono in ridicolo i suoi aguzzini (Lönnrot, 1963f, vv. 83–202). Non si tratta, però, di una magia controllata, bensì di fenomeni che avvengono attorno a lui spesso in ragione di un vissuto emotivo traumatico.

Arrendendosi alla resilienza del bambino, Untamo lo cresce come un servitore (Lönnrot, 1963f, vv. 203–374). Tuttavia, Kullervo si rivela subito come una figura scomoda, che fa danni ovunque metta mano – persino uccidendo per incuria uno dei suoi fratellastri in fasce (Lönnrot, 1963f, vv. 221–222). Una volta cresciuto, Untamo vende Kullervo come schiavo alla famiglia di Ilmarinen (Lönnrot, 1963f, vv. 365–374) – già nota agli uditori del Kalevala a seguito delle vicende matrimoniali del medesimo. La padrona di casa – la figlia della Signora del Nord – trova sgradita la presenza di Kullervo e lo maltratta, arrivando al punto da mescolare pietre al pezzo di pane che dovrebbe costituire il pasto del giovane pastore (Lönnrot, 1963g, vv. 1–32). Kullervo escogita allora uno stratagemma per ferirla, mascherando con la magia le fiere del bosco per farle apparire come bestiame innocuo; la donna scopre il trucco troppo tardi, quando ormai gli animali feroci sono con lei dentro la stalla: morirà divorata dalle bestie (Lönnrot, 1963h, vv. 99–296)

Kullervo resta ancora solo e, protagonista di varie vicende sciagurate, riesce infine a ricongiungersi alla tribù di suo padre, scoprendo che molti erano, in effetti, sopravvissuti all’eccidio (Lönnrot, 1963i, vv. 1–188). Nel tentativo di trovare al giovane un’utile collocazione, gli anziani lo incaricano di vari compiti, ma egli risulta sempre inadeguato: o per incapacità o per lassismo – ambiguità non sempre chiarita nei versi del Kalevala (Lönnrot, 1963j, vv. 1–50). Alla disperata, Kullervo è incaricato di occuparsi della consegna dei prodotti agricoli al signore di quelle terre, come tassa da pagare (Lönnrot, 1963j, vv. 51–60)

Guidando la sua slitta, incontra varie ragazze che lo rifiutano (Lönnrot, 1963j, vv. 61–120). Incrocia quindi una giovane mendicante, che inizialmente rifiuta le sue avances, ma poi si lascia convincere dalle sue ricchezze (Lönnrot, 1963j, vv. 121–188). Dopo l’amplesso, si scopre che questa ragazza è, in realtà, sua sorella: sopravvissuta al massacro, si era perduta nella foresta mentre raccoglieva frutti di bosco, ancora bambina (Lönnrot, 1963j, vv. 189–263). La consapevolezza dell’incesto la conduce al suicidio per annegamento (Lönnrot, 1963j, vv. 164–168) e Kullervo, dominato ormai dalla rabbia, si reca presso la tribù di Untamo, la stermina e poi pone fine alla sua vita nel punto in cui era deceduta la sorella (Lönnrot, 1963j, vv. 370–372, 1963k).

 

Nel complesso, la vicenda tocca temi noti ad altre saghe: faida intra-famigliare, vendetta del sopravvissuto, tabù dell’incesto, il suicidio della donna traumatizzata e la profezia auto-avverante. Per una storia di questo tipo si possono formulare alcune ipotesi concernenti il rapporto tra questi temi e le varie funzioni formative svolte dal poema:

 

·     Funzione educativa. Per i bambini-spettatori – presumibilmente, dalla seconda infanzia in poi – la tragedia di Kullervo svolge la funzione di sensibilizzarli alle norme sociali in vigore (es.: divieto dell’incesto). Infatti, come illustrato dal precedente canto educativo di Osmotar, l’infanzia ha la tendenza a disgregare l’ordine sociale e, soprattutto, quello domestico (es.: le pentole sparse).

·     Funzione catartica. Più verosimilmente, però, i bambini-spettatori sono già inseriti in una struttura sociale, agente ed efficace. Pertanto, i canti non costituiscono un contesto di prima sensibilizzazione, ma, al più, agiscono da rinforzo di norme già acquisite e interiorizzate. Semmai, la funzione del ciclo di Kullervo è quella di rendere esplicite alcune norme. L’efficacia della norma, quindi, non segue, bensì precede la vicenda narrata. Quest’ultima deriva la propria qualità drammatica proprio dal fatto che le regole infrante già sussistono e sono accolte dalla comunità degli uditori. Il risultato è una catarsi in forma di terapia d’urto simulata: la violazione è vissuta con ansia, cui la morte dei protagonisti pone finalmente sollievo. Inoltre, nella storia di Kullervo si articola una dialettica tra struttura superficiale e struttura profonda: sebbene i protagonisti dell’incesto (cioè Kullervo e la giovane mendicante) agiscano in linea con le informazioni di cui sono al corrente, tale genuina ignoranza non li redime dalle interferenze tra il loro percorso esistenziale e la struttura profonda dei rapporti di parentela.

·     Funzione didascalica. Strettamente correlata alla funzione formativa, la funzione didascalica può essere concettualmente distinta in quanto lo scopo della formazione è volto a costruire individui in via di sviluppo, mentre l’espressione didascalica costituisce invece una più semplice lezione morale che agisce da rinforzo sull’adulto. Limitatamente alla funzione didascalica, quindi, il lector in fabula della storia di Kullervo non è un bambino, bensì l’adulto che dovrebbe occuparsi dei bambini. La vicenda, infatti, illustra le conseguenze nefaste di una vita condotta all’ombra di grandi violenze, che vanno pertanto evitate, in quanto i loro frutti danneggiano, direttamente, le vittime e, indirettamente, i perpetratori.

 

A queste funzioni generali si affiancano le narrative specifiche sull’infanzia di Kullervo:

 

·       Il bambino nella culla. Una parte rilevante dell’infanzia di Kullervo si svolge quando si trova ancora in culla. Quest’ultima oscilla talmente tanto che il bambino inizia a scalciare e, insofferente alla medesima, strappa le coperte e fa addirittura a pezzi il lettino (Lönnrot, 1963f, vv. 67–72). Sebbene, alla fine della vicenda, vi sia un richiamo alla natura funesta del dondolio (Lönnrot, 1963k, vv. 354–360), non seguo qui la lezione di Magoun, il quale presume, ante litteram, una sorta di shaken baby syndrome (Magoun, 1963, p. 395). Piuttosto, come testimoniano i versi stessi del Runo XXXI (Lönnrot, 1963f, v. 73), la situazione in culla è riflesso del carattere indomito del bambino, che infatti è collegato a profezie sulla sua forza futura e aspettative sul suo controvalore di schiavo. Distruggere gli spazi della prima infanzia è visto come un pregio.

·       Crescere troppo in fretta fa male. L’infanzia di Kullervo non è certamente un’infanzia lunga: il bambino cresce a una velocità straordinaria, che testimonia il portento magico di cui è dotato. Tutta questa rapidità, però, non giova né al suo carattere, né alle sue competenze. Kullervo, in breve, diventerà un bambino nel corpo di un adulto. Non è dato sapere l’autentico motore magico alle spalle di questa crescita sconsiderata; forse, il poema articola il fenomeno come una sorta di reazione al trauma, ma non vi sono versi che lo facciano supporre con immediatezza.

·       Il male genera male. Inizialmente, Kullervo non era ostile alla tribù di Untamo. Tuttavia, crescendo, si era abbandonato a una serie di dichiarazioni, plausibilmente a seguito dei racconti uditi dalla madre. Ma tanto è bastato alla gente di Untamo per convincersi a eliminare il bambino. Questi tentati infanticidi sono descritti sotto una luce simbolica, come una triade di prove superate dall’incantatore (de Smit, 2012, p. 210; Rank, 2004, p. 29). Resta tuttavia il fatto che essi potrebbero riflettere dei metodi realmente utilizzati per liberarsi degli infanti. Permane, però, un’organizzazione della storia attorno alla dimensione elementale (il fuoco, attraverso il rogo; l’acqua, attraverso l’annegamento; l’aria, attraverso l’impiccagione) – pertanto, sembra che la dimensione simbolica trionfi su quella reale.

·       I bambini si occupano di altri bambini. A un certo punto della sua infanzia, Kullervo è “messo a lavorare”. Il compito consiste nel prendersi cura di un bebè a malapena svezzato. L’esito, per Kullervo, è infausto e il canto descrive la fine del bambino con macabri dettagli. Non è sempre chiaro se, nel caso di Kullervo, i comportamenti lesivi siano una reiterazione degli abusi subiti (es.: Kullervo che distrugge gli averi del bambino di cui si occupa) oppure se siano principalmente il risultato della natura magica del protagonista (es.: una strana malattia si impossessa dell’infante). Ciononostante, il passo torna a riprova di quanto anticipato da altri studiosi dell’infanzia in contesti rurali o comunque premoderni (cfr. Mead, 1928): i bambini con un minimo di padronanza di sé (plausibilmente dai sei anni in su) sono incaricati di occuparsi dei più piccoli.

·       Si cerca di affidare ai bambini compiti proporzionati alla loro età – non senza rischi. Questo aspetto è particolarmente evidente nel resoconto che la sorella di Kullervo fa della propria infanzia: incaricata di raccogliere frutti di bosco, si perde ed è colta da grande disperazione, al punto che persino l’ambiente circostante sembra intimarle il silenzio. Procacciare cibo è un’attività legittima per una bambina – e non si tratta certo di una schiava: l’amore materno non la rinchiude in casa (come invece avveniva per la Figlia di Pohjola, sposa di Ilmarinen e infine “megera” che tormenta Kullervo) e il rischio di perdersi sembra essere ritenuto ragionevole. Ciò va in netto contrasto con la visione di Osmotar, per la quale i bambini risultavano quasi sempre problematici e inabili al lavoro.

 

I punti precedenti sono richiamati dalla morale espressa da Väinämöinen alla conclusione del ciclo di Kullervo, nella quale dichiara apertamente che crescere male i propri figli significa non allineare una eventuale prestanza fisica alle debite qualità morali e, anzi, causerebbe una sorta di ritardo che impedisce al fanciullo, una volta cresciuto, di inserirsi a pieno titolo nella società adulta.

 

3.5. Il bambino ritrovato (Runo L)

 

L’ultimo tema dell’infanzia mitologica del Kalevala si interseca con l’avvento del Cristianesimo. I Runi che se ne occupano raccontano la storia di Marjatta (Maria), pastorella illibata, la cui purezza è tale che persino le scelte alimentari rispecchiano una virginalità simbolica: non tocca le uova fecondate, non mangia carne di pecore deflorate dal montone, non si avvicina allo stallone da monta e non munge mai la vacca (Lönnrot, 1963l, vv. 1–57).

La sua sciagura di pastorella, abbandonata a sé stessa in maniera non dissimile dalla sorella di Kullervo, è quella di esperire un’inseminazione mistica, cioè un’Immacolata Concezione “alla Finlandese”, che avviene in un pascolo per mezzo di un frutto rosso che percorre le sue gambe fino ad annidarsi nell’utero – evidentemente sufficientemente maturo per sviluppare la prole (Lönnrot, 1963l, vv. 58–120). La gravidanza passa inosservata fino ai giorni cruciali del parto (Lönnrot, 1963l, vv. 121–131), durante i quali Marjatta si scontra con la propria famiglia, che non la crede vergine e, per questa ragione, la disconosce (Lönnrot, 1963l, vv. 132–197). La fanciulla, quindi, si incammina in preda ai dolori del travaglio e trova rifugio in una sauna abbandonata nella campagna, cioè una specie di stalla nella quale il respiro delle bestie si confonde con i vapori dell’acqua sul braciere (Lönnrot, 1963l, vv. 198–337).

Dà alla luce un bambino, ma, mentre se ne prende cura, questi sparisce e la primipara, angosciata, si lancia in una ricerca carica di suspence (Lönnrot, 1963l, vv. 338–353). Il bambino sarò ritrovato in un acquitrino – simbolicamente, non grazie all’ausilio della Stella e della Luna, ma con l’aiuto del Sole, destinato a illuminare (come il bambino stesso) una nuova epoca radiosa.

A conclusione di questo apocrifo evangelico si colloca lo scontro tra Väinämöinen e il bambino stesso. Il sacerdote Virokannas (etimologicamente ricondotto a Hannes o Johannes, cioè il Battista – cfr. Magoun, 1963, p. 406) intende battezzare il bambino, ma chiede il consenso di Väinämöinen, il quale si oppone e propone di eliminarlo; il bambino – un altro bambino parlante – interviene però a zittirlo (Lönnrot, 1963l, vv. 427–489) e, mentre il battesimo ha luogo, attribuendo al neonato l’epiteto di “Re di Carelia”, Väinämöinen abbandona per sempre quelle terre (Lönnrot, 1963l, vv. 490–507). Ai lettori del Kalevala non sfuggirà il valore, ancorché sincretico, di riflessione interculturale contenuta nel Runo L: infatti, sebbene le vicende descritte siano particolarmente umilianti per Väinämöinen, sembra quasi che il narratore implicito, a un certo punto, si schieri con lui, spiegando che egli parte per Paesi d’oltremare e si lascia alle spalle il kantele, lo strumento a corde che era “fonte eterna di musica gioiosa per la gente, le grandi canzoni destinate ai suoi figli” (Lönnrot, 1963l, v. 507). Ritorna, con ancor più energia che nel caso di Kullervo, il tema della formazione dell’infanzia, questa volta legato al tema del bambino/neonato parlante.

 

4. Discussione: il fatalismo formativo del Kalevala

 

Il canto di epilogo, inserito nel Runo L, è uno sviluppo ulteriore del Vecchio Kalevala (Lönnrot, 1969, p. 186), risultante da un’interpolazione di dichiarazioni nostalgiche, discorsi apologetici da bambino-parlante e un invito generale a lasciare le cose compiute, anziché incompiute, nella speranza che una gioventù più vigorosa possa espanderle in futuro:

 

“Brava gente, non riteniate insolito se io, un bambino, ho cantato troppo; [io,] un piccolo, ho cantato flebilmente e maldestramente. Non ho ricevuto educazione formale, non ho visitato la terra dei veggenti, non ho appreso parole straniere, frasi di luoghi lontani. Tutti gli altri ricevettero insegnamenti; io non mi sono allontanato da casa, non mi sono allontanato dal sostegno della mia madre sola, dai dintorni di questa persona solitaria. Ho dovuto imparare da casa, sotto la fronda del mio letto a cassettoni, dalla conocchia della mia stessa madre, dai trucioli intagliati da mio fratello – e tutto ciò, da bambino piccolo, da bambino piccolo che indossa una maglia sgualcita” (Lönnrot, 1963l, vv. 607–615).

 

Si chiude così un ciclo aperto da Väinämöinen, il quale, socraticamente, aveva spiegato a Joukahainen di non essersi mai allontanato dai luoghi natii – schernendosi con falsa modestia. Questo atto di contrizione davanti agli uditori pone il cantore in una posizione, allo stesso tempo, di vantaggio e svantaggio epistemico: si prende responsabilità solo di ciò che ha detto, non di quello che avrebbe potuto dire; allo stesso tempo, però, valida le proprie conoscenze ancorandole a un territorio mai autenticamente abbandonato; infine, trova una scappatoia nei confronti dei perfezionisti, lasciando aperta la possibilità di poter ridurre tutto a uno scherzo infantile. La menzione dell’infanzia, però, è ironia amara, anziché giocosa: se, infatti, il cantore col suo kantele rappresenta una sorta di infante mai cresciuto, si tratta comunque di un orfano, cresciuto – sostiene la voce narrante – da una madre surrogata a seguito di un prematuro abbandono (Lönnrot, 1963l, vv. 572–574).

Ecco quindi sintetizzata nell’epilogo quella teoria della formazione magica già anticipata nei canti precedenti e che pervade, quasi come un tema costante, i Runi esaminati in questo contributo:

 

·     Ironia. Il cantore (oppure: la cantrice) dichiara di essere come un bambino e, proprio come i bambini, non andrebbe preso sul serio. Interviene quindi in chiave autoironica, giocando sulla sospensione della realtà implicita nell’ascolto di una narrazione mitica.

·     Apologia. Il cantore dichiara di essere un bambino e, poiché i bambini non andrebbero presi sul serio, gli si devono perdonare gli errori di memoria e le piccole imprecisioni.

·     Solitudine infantile. Il cantore dice di essere orfano e, come tale, non ha ricevuto un’educazione che possa certificarne le competenze. È questo il reame dell’informale per definizione, che trae forza dalla propria stessa informalità: si tratta di una testimonianza che dichiara essa stessa di essere idiografica a monte di una qualsiasi analisi possibile.

·     Orfano di madre, ma non di terra. Nonostante ciò, lo status di orfano è, a sua volta, attestazione di un contatto più profondo tra il cantore e il territorio. Poiché privato della madre, egli ha dovuto per necessità sviluppare una sorta di conoscenza naturale e solo in seguito è stato adottato e accolto nuovamente nell’ecumene.

·     Essere orfani come condizione umana. Nel dichiararsi orfano, però, il cantore non solo attesta la propria specialità ed eccezionalità rispetto a coloro che sono stati cresciuti con insegnamenti sistematici, ma si identifica anche con l’Uomo inteso come anthropos [ἄνθρωπος] e, più nello specifico, con la condizione esistenziale dell’essere “gettati nel mondo”.

 

Queste nozioni articolano un posizionamento epistemico specifico e particolarmente raffinato, che forse non può dirsi esclusivamente careliano semplicemente in ragione dell’azione sistematizzante di Lönnrot stesso. Ciononostante, le evidenze sopra esposte possono essere raccolte in una teoria folk che propongo di ribattezzare fatalismo formativo e che ritengo opportuno chiarire anche alla luce di alcune istanze della filosofia occidentale.

Si prende le mosse dall’esistenzialismo di Jaspers e Heidegger, i quali, sintetizza Beck, osservano

 

“Assistiamo a tutto e tutto ci accade in base allo schema della situazione storica e della tradizione in cui siamo ‘gettati’ (geworfen) alla nascita, per caso. Nessuno vive mai nel mondo, ma solo nel suo mondo, il quale è, allo stesso tempo, il mondo del suo tempo e della sua nazione; ciò determina tutto ciò che possa desiderare, cui possa aspirare, volere, fare e pianificare (entwirft): egli è ‘geworfener Entwurf’” (Beck, 1944, pp. 133–134)

 

Sembra però che il Kalevala abbia dato a tutto ciò una soluzione con ampi margini privi di asperità politiche. Se, infatti, come racconta Beck (Beck, 1944, n. 7), già da Dilthey questo filone del pensiero europeo dichiarava il trionfo della storia, il Kalevala si impone invece come problematizzazione sistematica del rapporto tra Uomo, Storia e Natura:

 

(i)        Leggende come quella di Kullervo (Lönnrot, 1963f, 1963g, 1963h, 1963i, 1963j, 1963k) mostrano come la parabola della vita umana sia affetta da un fatalismo storico che dipende dalle azioni dei nostri predecessori.

(ii)      I canti più didascalici, invece (Lönnrot, 1963c, 1963d, 1963e), mostrano come la via per l’età adulta sia tracciata dalla tradizione. Anche qui, ritorna l’elemento storico, ma questa volta con una sfumatura più spiccatamente normativa e, pertanto, etica.

(iii)     Infine, il Runo III (Lönnrot, 1963a) insiste sull’insignificanza della formazione umana dinanzi a una temporalità naturale che l’hybris di chi ormai è svincolato dagli originari processi di creazione non può autenticamente comprendere.

 

Da (i) si evince l’inevitabilità del percorso formativo dal punto di vista dell’individuo. Costui sceglie, ma sceglie solo fino a un certo punto, poiché non è in grado di tracciare unilateralmente la propria strada. Sarà pertanto la comunità a dover essere sana se si vogliono crescere bambini sani.

Se (i) insiste di più sul valore formativo (e ineluttabile) della storia, identificando quindi un’intersoggettività intergenerazionale, (ii) mostra il valore formativo (e prevalentemente ineluttabile, almeno nel contesto narrativo) della tradizione. Piaccia o meno, essa è un imbuto e, come accade per le fanciulle traviate – spesso involontariamente – dalle vicissitudini, al di fuori della tradizione c’è solo la morte: la bella Aino si annega pur di non sposare Väinämöinen (Lönnrot, 1963b); la sorella di Kullervo si annega dopo aver scoperto l’incesto (Lönnrot, 1963j); nel Vecchio Kalevala, la figlia della Tenuta del Nord ricorda a sé stessa: “sarai una donna completa nel momento in cui ti sposerai, con un piede sulla soglia e l’altro sulla slitta del tuo pretendente” (Lönnrot, 1969, v. 15.111‍–‍113).

La terza dimensione formativa (iii) non può dirsi “soprannaturale” nel senso etimologico della parola – è, invece, fortemente influenzata dalla natura, benché quest’ultima, sotto forma di divinità le cui azioni non sono sempre interpretabili, abbia in qualche modo reso orfani e svincolati i propri figli, al punto che nessun Uomo contemporaneo, nella narrativa del Kalevala, può dirsi saggio quanto il saggio per definizione, cioè il primo uomo Väinämöinen. Quest’ultimo personaggio è stato oggetto di vari tentativi classificatorî che cercano di ricondurlo alla tassonomia del classicismo greco-romano o dell’Edda norrena; come riporta Lars Lönnroth (Lönnroth, 1990, p. 88), lo stesso Elias Lönnrot si chiese se Väinämöinen appartenesse alla razza dei Troll o dei Giganti, che nell’Edda sono scacciati da Odino. Somiglianza o meno con quello che Lars Lönnroth identifica essere lo scontro tra Odino e il gigante Vafthrudnir, lo scambio tra Väinämöinen e Joukahainen è riconosciuto come “didattico” (Lönnroth, 1990, p. 88). Invero, i cantori del Kalevala non sembrano sentire l’esigenza di chiarire la “specie” cui apparterrebbe Väinämöinen e, pertanto, è proprio nell’epica finlandese (e non in quella norrena) che lo scarto tra creature antiche e Uomo contemporaneo si configura quasi esclusivamente come uno scarto evolutivo, il quale, a sua volta, determina uno scarto formativo: Väinämöinen ha sì un’origine mitica, ma la sua eccezionalità deriva dalla singolare esperienza vissuta dopo essere uscito dalle acque dove lo spirito del vento, Ilmatar, lo aveva concepito. Pertanto, anche (iii), pur sancendo una separazione tra primi Uomini e ultimi Uomini, riconduce la vexata quaestio epistemica a una disparità nel percorso esistenziale dell’individuo, con Väinämöinen che trionfa semplicemente perché ha goduto di una maggiore prossimità rispetto all’epoca della creazione del mondo e, pertanto, è capace di quel tipo di (in)canto che, richiamando la cultura pop arturiana del Ventesimo secolo, si potrebbe ribattezzare “la Magia del Fare [the Charm of Making]” (per questa espressione, cfr. Davidson, 2007).

 

5. Conclusione

 

Il fatalismo formativo emerge come folk theory sull’educazione – intendendo, per folk, sia l’origine “rurale” dei contenuti e delle forme del poema, sia la sua rielaborazione come patrimonio nazionale finlandese.

L’ermeneutica svolta in questo contributo evidenzia come, nel Kalevala, i passi sull’infanzia evidenzino tre forme di determinismo agenti, a vario titolo, sugli individui: (i) il peso del passato intergenerazionale; (ii) il carico delle tradizioni contemporanee; (iii) la prossimità esistenziale dell’individuo a determinati eventi, la cui forza attiva si perpetua attraverso memoria e ripetizione. In aggiunta a ciò, il Kalevala affronta la nozione di infanzia in maniera poliedrica: da un lato, alternando prospettive che la vedono come un punto di forza (ad es., in virtù della propria genuinità) o di debolezza (ad es., in ragione della mancata esperienza); dall’altro, riportando vicende di bambini dal carico più o meno simbolico, le quali però riferiscono spesso di traumi, abusi, situazioni di isolamento oppure di precoce responsabilizzazione.

I punti di cui sopra non costituiscono solamente il contenuto dell’universo narrativo del Kalevala, ma appaiono come i presupposti per la stessa trasmissione di questo patrimonio culturale – almeno in termini di letteratura orale: la formazione del cantore potrebbe non discostarsi troppo da quella dei protagonisti. In termini di patrimonializzazione nazionalista e post-nazionalista, tuttavia, il Kalevala rischia di presentarsi come problematico. Nella sua tesi di laurea, Brugman (2016) riscontra sostanziali discrepanze tra i contenuti del Kalevala e la situazione della società finlandese contemporanea (si pensi, ad esempio, alla questione del genere). Tuttavia, il suo elaborato riscontra una sostanziale armonia nella riproposizione pop e post-moderna dei temi e dei termini del Kalevala e la sua analisi limita la problematicità a una serie di contraddizioni narrative intorno alla figura di Väinämöinen. Resta quindi la domanda: come può una società che vanta una tradizione di parità di genere e ha fatto di questa uno dei propri obiettivi politici fondamentali perpetuare un patrimonio culturale in apparenza dissociato dai suoi valori?

Basandosi sullo studio di Keinänen (1999), è possibile rispondere che l’errore non sta in una qualche incoerenza della società finlandese contemporanea, bensì nell’occhio stesso degli etnografi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, i quali hanno sistematicamente espunto (spesso inconsciamente o in maniera irriflessa) dalle loro raccolte e dai loro studi tutti i riferimenti ad aspetti della femminilità che non si conciliavano con la loro visione borghese della società. Ne è risultato un impoverimento “accademico” dell’epica finlandese, ma ciò non esula che altri valori più affini alla parità di genere, per quanto non presenti nel Kalevala, abbiano costituito un solido ancoraggio per lo sviluppo successivo della cultura finlandese – preservando, al più, le istanze più tragiche del Kalevala in funzione catartica. Se confermato, ciò dimostrerebbe che l’esercizio di patrimonializzazione è sempre storicamente situato e che esso risente di forme di conoscenza collettiva che resistono a eventuali tentativi di riduzione da parte del sistema educativo formale.

 

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