The
Myth of Childhood in the Kalevala: A Case of Formative Fatalism in
Finnish Cultural Heritage
Il mito dell’infanzia nel Kalevala: Un caso di
fatalismo formativo nel patrimonio culturale finlandese
Andrea Mattia Marcelli
Institute of Education (IOE),
American University of Central Asia (AUCA) – marcelli_a@auca.kg
https://orcid.org/0000-0002-9297-4536
ABSTRACT
The Kalevala, the quintessential Finnish epic
poem, hosts a unique repertoire of episodes related to a ‘mythological’
conception of childhood. This makes it a fruitful target for the study of
informal education connected with cultural heritage. After establishing how the
latter constitutes the keystone for the study of informal learning processes,
this contribution adopts the perspective of Greater Humanities for Education to
conduct a thematic analysis of the instances in the Kalevala concerning
childhood—taking into account the empirical, historical, hermeneutic, and
ethical-moral dimensions of the literary phenomenon in question. The resulting
case study reveals a multifaceted concept of childhood, alternating between deficient
conceptions and forms of exceptionalism. From the articulations of this concept
emerges a folk theory of education which in this contribution is dubbed formative
fatalism. The study inductively derives the three pillars of formative
fatalism drawing on the Kalevala: (i)
intergenerational determinism (history); (ii) quasi-determinism of tradition;
(iii) formative idiosyncrasy of individual existential paths. Given the
extensive heritage status of the Kalevala and its role in shaping
Finnish collective identity, the study concludes by reflecting on how this
fatalism can be reconciled with the more progressive aspects of contemporary
Finnish society.
Il Kalevala,
poema epico finlandese per eccellenza, ospita un repertorio singolare di
episodi riferiti a una concezione ‘mitologica’ dell’infanzia. Ciò lo rende un
proficuo ambito di applicazione per uno studio dell’educazione informale in
connessione al patrimonio culturale. Dopo aver stabilito come quest’ultimo
costituisca la chiave di volta per lo studio dei processi informali di
apprendimento, il presente contributo adotta la prospettiva dell’Umanesimo
Metropolita per l’Educazione [Greater Humanities
for Education] allo scopo di condurre un’analisi
tematica delle istanze del Kalevala riguardanti l’infanzia che tenga
conto delle dimensioni empirica, storica, ermeneutica ed etico-morale del
fenomeno letterario in questione. Lo studio di caso che ne deriva mostra un
concetto poliedrico di infanzia, che alterna concezioni deficitarie a forme di
eccezionalismo. Dalle articolazioni di tale concetto emerge una teoria folk
della formazione che in questo contributo è ribattezzata fatalismo formativo.
A conclusione dell’elaborato, si ricavano induttivamente i tre pilastri del
fatalismo formativo del Kalevala: (i) il determinismo intergenerazionale
(storia); (ii) il quasi-determinismo della tradizione; (iii) l’idiosincrasia
formativa dei percorsi esistenziali individuali. Vista l’ampia
patrimonializzazione del Kalevala e il suo ruolo nella formazione dell’identità
collettiva finlandese, si conclude riflettendo su come tale fatalismo possa coniugarsi
con gli aspetti più progressisti della società finlandese contemporanea.
KEYWORDS
Childhood, Cultural
heritage, Finland, Formative fatalism, Informal education, Kalevala
Educazione informale, Fatalismo
formativo, Finlandia, Infanzia, Kalevala, Patrimonio culturale
CONFLICTS OF INTEREST
The Author declares
no conflicts of interest.
ACKNOWLEDGMENT
The Author would
like to acknowledge the assistance of Jussi Hanska, Marxiano Melotti, and Rita
Minello, who assisted him during his teaching and research period at the
University of Tampere (Finland). Any errors in this paper are the sole
responsibility of the Author.
RECEIVED
April 13, 2024
ACCEPTED
April 30, 2024
1. Lineamenti per un’indagine della valenza formativa del
patrimonio culturale
1.1. Dal patrimonio culturale all’educazione informale
Un’istanza culturale, un elemento, una prassi – etc. –
non sono mai, da soli, sufficienti a costituire un patrimonio culturale. Così
come, in una buona porzione della quotidianità degli individui, le azioni sono
semplicemente dei fatti comportamentali – benché inevitabilmente siano
culturalmente informati – anche per le comunità il singolo segmento di cultura
non costituisce, ipso facto, patrimonio.
Pensare il contrario significa cadere nella fallacia di
Barrera-García e Álvarez-Rodríguez (2024), i
quali trattano il patrimonio alla stregua di un mero “retaggio”, plausibilmente
con la complicità di un’insufficiente granularità semantica dell’espressione “patrimonio”
nel linguaggio del mestiere: “heritage”, in
inglese, è sia “retaggio” che “patrimonio”. Per questa ragione Barrera-García e
Álvarez-Rodríguez si persuadono che il semplice accumulo di vissuti, unitamente
alla loro registrazione – come nel caso dei progetti volti a filmare e
raccontare la giornata dell’insegnante – si qualifichino unilateralmente come
patrimonio. Talvolta lo fanno, è vero, poiché la loro ramificazione (anche
mediatica) raggiunge una discreta massa critica; il più delle volte, tuttavia,
ci troviamo di fronte a un semplice “retaggio” ovvero “lascito”, cioè un
qualcosa di potenzialmente patrimonializzabile,
ma non un patrimonio in atto.
Tale riflessione critica spinge a porsi la domanda su
quale possa essere una definizione sufficientemente ristretta [narrow] di patrimonio che non lo confonda con un
mero lascito o retaggio (che è, al più, patrimonio potenziale), ma,
cogliendone la dimensione attuale, fornisca comunque uno strumento
concettuale utile alla ricerca. La risposta adottata, in via operativa, dal
presente contributo, è che, per guardare in modo epistemologicamente ottimale
al patrimonio bisogna aderire alla definizione statistica dell’UNESCO (Pessoa & Deloumeaux,
2009). Ovverosia: non apoditticamente, ma in quanto risolutiva
rispetto alle ambiguità sopra evidenziate in merito a studi come quelli di Barrera-García
e Álvarez-Rodríguez (2024).
Il quadro UNESCO spiega che si può rintracciare la
patrimonializzazione ogniqualvolta i fenomeni culturali sono espressi (e
raccontati) attraverso una pluralità di media. In alternativa, se la nozione di
“media” dovesse risultare troppo restrittiva e condurre ad aporie concettuali
di difficile risoluzione, si può parlare di una “multidimensionalità
performativa”. Ciò significa che un qualcosa diventa patrimonio non solo
quando costituisce un lascito sfruttabile, ma anche quando viene
sfruttato attraverso, ad esempio, celebrazioni. Aumenta, poi, la sua
magnitudine patrimoniale quando nemmeno le celebrazioni concludono la sua performance,
ma esso è ritrasmesso attraverso arti visive, forme di artigianato, media
audio-visivi o comunque servizi di vario genere – talvolta sfociando nel
turismo o nelle attività ricreative in genere (Pessoa & Deloumeaux,
2009, p. 24).
Sempre secondo l’UNESCO, vi sono tre tipi di ancoraggi che
reggono la multidimensionalità del patrimonio: (a) educazione e formazione; (b)
archiviazione e conservazione; (c) disponibilità di materiali e tecnologie di
supporto. Da tale definizione, consolidata nella letteratura scientifica, si
evince dunque come l’accesso alla dimensione formativa (informale) di una certa
cultura debba passare attraverso una comprensione di come la
multidimensionalità del suo agíto patrimoniale si
regga su determinate pratiche formative, che potremmo definire “specifiche”
rispetto a quel patrimonio [heritage-specific]
– in maniera non dissimile da quella multidimensionalità spaziale dell’educazione
informale già evidenziata da Tsirulnikov (2016). È quindi
naturale, nelle ricerche sull’educazione informale, indagare tutto ciò che di
formativo sta a monte del patrimonio.
1.2. Dalle pratiche educative informali al patrimonio
culturale
Provocatoriamente, però, potremmo anche “rivoltare il
calzino” e scoprire una motivazione ben più cogente per studiare l’educazione
informale tenendo una solida prospettiva sul patrimonio. La definizione
statistica UNESCO, infatti, per quanto multifattoriale, tratta i concetti di “formazione
[education]” e “addestramento [training]”
dando per assodato che il loro soggetto tipico sia l’individuo (Pessoa & Deloumeaux,
2009, p. 30). Ma lo scienziato culturale che si occupa di processi di
apprendimento già da tempo ha iniziato a porsi domande di tipo ecosistemico. Ad
esempio, chiede: se l’educazione forma gli individui, che cos’è che forma la
comunità? Alternativamente: se l’apprendimento [learning] ha come
soggetto l’individuo, quest’ultimo è anche il soggetto privilegiato della
formazione [education] (da intendersi quindi
in senso più ampio rispetto a educazione formale [schooling])? Oppure
essa ha nella comunità ben altro soggetto elettivo? Se così,
bisognerebbe chiedersi se le comunità apprendono nello stesso modo degli
individui… Ed è proprio in seno a tali ramificazioni epistemologiche che si può
fare nuovamente ricorso alla definizione statistica UNESCO, intendendo il formarsi
della comunità come avente esito principe nel processo di patrimonializzazione
– e vedendo quindi l’apprendimento o, meglio, il sapere collettivo, come chiave
di volta del costituirsi di un sé condiviso, in maniera prioritaria, anziché
ancillare, rispetto a quanto precedentemente osservato rispetto alla funzione “di
supporto” dei processi formativi in genere.
La controprova concettuale di tale rapporto tra
formazione comunitaria e patrimonio culturale è fornita indirettamente dalla
trattazione che Shteynberg et al. (2020) fanno dell’apprendimento
collettivo. Secondo la loro teoria, il miglior marcatore dell’apprendimento
collettivo è la manifestazione dell’attenzione collettiva, da intendersi
come stato disposizionale di un agente plurale nei confronti di un oggetto
specifico; allo scopo di individuare la medesima, si cerca di stabilire se gli
individui abbiano raggiunto una prospettiva plurale a partire dal fatto che,
all’agente collettivo (implicito o esplicito) i partecipanti ascrivono un
orientamento specifico nei confronti di un qualche oggetto – in altre
parole, sembrano suggerire Shteynberg et al., tale
coscienza comune è tale solo se il suo stato attenzionale è saturato da
un qualcosa nel mondo. Inoltre, tali disposizioni collettive sono spesso legate
a fattori scatenanti [trigger] che stimolano gli stessi processi
attentivi nei medesimi individui, dando però per buono che dubbi individuali
possono sempre emergere in itinere.
Fondamentali, a questo scopo, sono gli episodi corali.
Shteynberg et al. (2020, p. 921) non utilizzano questo termine,
ma la somiglianza con i fenomeni collettivi da loro descritti è cogente.
Pertanto, seguendo questa linea di ragionamento, si trova nella Teoria dell’Apprendimento
Collettivo un fondamento epistemologico – in termini di psicologia sociale – a
ciò che già si sa riguardo alla natura identitaria del mito e della sua performance
nelle istanze di letteratura orale (cfr. Murphy, 1978). Ma, avverte Murphy
(pp. 123–124), da ciò non si può desumere che la tradizione orale, pur
nella sua dimensione collettiva, certifichi l’omogeneità di un gruppo, proprio
perché, come dimostrano Leach (1965) e Firth (1961), la letteratura orale può
essere declinata a seconda delle necessità individuali o dei sottogruppi.
Ancora una volta, c’è un richiamo all’intersezionalità e
alla multidimensionalità del retaggio che si fa patrimonio e, per questa
ragione, il pedagogista che si occupa di processi di apprendimento nei contesti
informali deve fare riferimento a contesti in cui fenomeni culturali risultano
fortemente patrimonializzati.
2. Approccio: Umanesimo Metropolita per l’Educazione
Questo studio prende le mosse dalla consapevolezza che lo
studio delle pratiche educative informali va di pari passo con la lettura e
descrizione dei fenomeni patrimoniali. A questo scopo, lungi dall’arenarsi in
un’esegesi à la Dilthey, si adotterà una prospettiva capace di
conciliare sia la dimensione interpretativa della ricerca qualitativa con un
solido fondamento epistemologico legato alle scienze dell’educazione, sia la
natura intersezionale delle espressioni culturali patrimonializzate con un
quadro di riferimento dalle coordinate trasferibili.
Tale prospettiva è quella dell’Umanesimo Metropolita per
l’Educazione [Greater Humanities for Education], il quale postula che la ricerca di stampo
antropologico-formativo poggi su quattro pilastri: (i) consapevolezza della
dimensione storica; (ii) consapevolezza della dimensione interpretativa; (iii)
consapevolezza della natura reale dei fenomeni, per quanto
interpretabili; (iv) finalità etico-morale dell’indagine (Marcelli, 2020; cfr. anche Clifford, 2013).
L’Umanesimo Metropolita per l’Educazione costituisce un
valido punto di partenza non solo perché offre le coordinate analitiche
necessarie all’espletamento dell’ermeneutica pedagogica, ma anche perché aggiunge
motivazione allo stimolo primario dell’indagine stessa. Se, infatti, esso esige
un’intersezione proficua tra i quattro assi sopra descritti, allora i bersagli
stessi dello studio, così come le domande di ricerca, dovranno prestarsi a
questo tipo di analisi quadripartita. Con ciò, non si intende sovvertire la
natura falsificazionista dell’indagine scientifica (ad esempio, suggerendo casi
di studio che calzano a pennello rispetto all’approccio, a scopo confermativo),
bensì suggerire che è plausibilmente proprio quando i fenomeni culturali si
fanno patrimonio che l’Umanesimo Metropolita per l’Educazione ha maggior
margine euristico. Adottando queste precauzioni metodologiche, è possibile
rivolgersi a un caso specifico.
2.1. Patrimonio culturale finlandese: il caso del Kalevala
Il Kalevala non nasce come opera completa, bensì
come corpus assemblato da Elias Lönnrot (1802–1884),
medico e folklorista finlandese (Toomsalu,
2005) che trascrisse i versi recitati da vari cantori rurali
del Granducato di Finlandia– e, più specificatamente, della regione della
Carelia – unendoli, come un moderno rapsodo, in un testo omogeneo ispirato ai
poemi dell’Antichità Classica e ai Canti di Ossian, cioè il lavoro
proto-etnografico di James Macpherson (cfr. Nenola, 2010, p. 114).
L’edizione più completa del poema è il Nuovo Kalevala
(Lönnrot, 1849), versione che ebbe la massima diffusione: 22.795 versi
divisi in 50 “Runi” [canti] (Anttonen, 2015, p. 56).
Riguardo alla prima versione dello stesso (Lönnrot, 1835), dei
molti partecipanti alla raccolta ci è pervenuta solo una ventina di nomi: Timonen (1985)
ritiene che, nonostante la pochezza dei dettagli biografici su questi
personaggi, Lönnrot abbia comunque superato i suoi
predecessori nel valorizzare le proprie fonti viventi. Tra essi, una
nutrita schiera femminile di cui è rimasto molto poco – ad esempio, la
misteriosa Matro, forse una mendicante, che riportò a
Lönnrot la “Ballata della Vergine Impiccata” (Timonen, 1985).
Sia le fonti che la natura etnografica dell’impresa
chiamata Kalevala ne evidenziano la natura intersezionale. Il Kalevala,
infatti, risente di varie dimensioni, ciascuna delle quali contribuisce, da un
lato, alla costruzione del poema stesso così come ci è pervenuto (dimensione
filologica) e, dall’altro, alla costruzione di quell’intangibile che va al di
là dei versi e diventa patrimonio multidmensionalmente
fruito. Per meglio comprendere questa intersezionalità, è possibile collocare
il Kalevala su diversi assi delineati da rispettivi poli, ossia diadi
oppositive che sottendono a un certo continuum:
a. Sopravvivenza vs. contemporaneità:
se, da un lato, i canti che compongono il Kalevala possono tracciare le
loro origini plausibilmente fino alla Prima e alla Seconda Età del Ferro finlandese,
dall’altro lato le performance cui assistette Lönnrot
costituivano un fenomeno culturale assolutamente contemporaneo e, in quanto
tale, difficilmente riconducibile a una purezza antica senza tenere conto dell’attualità
della prassi che lo esprime. Per questa ragione, Bosley
(2008) parla
di “doppio anacronismo”.
b. Maschile vs. femminile.
Di pari passo con l’idea di infanzia, il Kalevala mette in scena altre
strutture sociali, inclusa una certa idea di mascolinità e femminilità. Ciò,
tuttavia, non trova pieno riflesso nel genere dei cantori del Kalevala,
cioè i sopraccitati individui, effettivamente contattati da Lönnrot.
Se, infatti, le cantrici svolgono spesso ruoli minori nella narrativa del Kalevala,
così non è per le narratrici (reali, anziché mitiche) della Carelia
ottocentesca. Invero, proprio la già citata Matra esemplifica il ruolo chiave
svolto dalle donne nella conservazione del patrimonio intangibile careliano –
al punto che Lönnrot stesso raccolse la maggioranza
delle voci femminili in un’opera a parte, Kanteletar
(Lönnrot, 1840).
c. Carelia
vs. Finlandia. La maggior parte della Carelia non si trova
attualmente (2024) in Finlandia, bensì nella Federazione Russa. Ciò riflette
una problematicità già presente nell’opera iniziale di Lönnrot:
pur dedito allo studio delle antichità finlandesi, Lönnrot
era suddito di uno Stato multinazionale, la Russia, dal quale la nazione
finlandese si separò formalmente solamente a fine 1917 (cfr.
Karner, 1991). Il fatto che la Carelia sia assurta a epitome del
passato finlandese è dovuto sia a fattori oggettivi che a scelte intenzionali
da parte di Lönnrot. Da un lato, infatti, è
realistico ritenere che le regioni interne, meno affette dalle colonizzazioni
prima svedese e poi russa, abbiano in qualche modo preservato una sorta di
autenticità in contrasto con le aree costiere della Finlandia. Tuttavia,
proprio questo modo di pensare – cioè la ricerca spasmodica di un’origine,
ovverosia un passato primordiale – è uno sforzo intellettuale consapevole
tipicamente ottocentesco, che a sua volta mappa sulla diade precedentemente
esposta di (a) sopravvivenza vs. contemporaneità.
d. Stasi vs. cambiamento
culturale. La raccolta del Kalevala affronta vari temi e articola
essa stessa, nella sua narrativa, il complesso rapporto tra quella che è la
conservazione di un patrimonio condiviso e la sua trasformazione. Ciò è
evidente soprattutto negli ultimi canti, che esprimono i conflitti tra tradizione
rurale pagana e cristiana – e che Lönnrot,
plausibilmente, considerava essere tra quelli cronologicamente più recenti.
Tema che ritornerà anche nelle parti che si occupano di infanzia: l’adeguamento
a leggi immutabili e pre-umane cede il passo, non
senza difficoltà, a un senso di iniziativa – e quasi d’impresa – fortemente
occidentalizzata (o comunque post-romana).
e. Omogeneità
vs. frammentazione. Si può quasi affermare che il Kalevala
sia uno e plurimo allo stesso tempo. Quell’omogeneità di “poema” con cui esso
oggi si presenta al lettore è un artificio di Lönnrot,
allo stesso tempo “scopritore”, ma anche “imitatore” dell’epica classica che
tanto aveva affascinato l’élite intellettuale finlandese. La decostruzione
contemporanea del Kalevala ha evidenziato come Lönnrot
sia stato particolarmente attivo nel “risolvere” le aporie derivanti da canti
dal contenuto contraddittorio, riferiti ad aree diverse della regione da lui
percorsa.
Con e dopo Lönnrot, il Kalevala
acquista una nuova dimensione patrimoniale. Se, infatti, il Kalevala “della
Carelia” era sì un patrimonio, ma esercitato attraverso pratiche trasmissive
codificate, il Kalevala “della Finlandia”, in quanto poema nazionale, si
è subito prestato sia all’emergente ideologia nazionalista finlandese (Billson, 1895), sia
a una serie di opere derivate (non ultime, le musiche di Sibelius, 1901; e le sculture
di Sjöstrand, 1858) e a tutta una
nuova serie di declinazioni che ormai esorbita dall’ambito squisitamente
artistico e letterario – è questo il caso, per esempio, delle aziende locali
che portano i nomi di eroi od oggetti appartenenti alla mitologia del Kalevala
(Olsson & Ainiala, 2023).
3. Problematizzazione formativa dell’infanzia nel Kalevala
3.1. Infanzia come incompletezza (Runo
III)
Nel Kalevala, l’infanzia compare come status di
minorità intellettuale, che prelude all’età matura, ma è deficitaria dal punto
di vista delle conoscenze. In altre parole, l’infanzia rappresenta una
condizione in cui il sapere non si è ancora ben formato, specialmente per
difetto di esperienza.
Alla base della conoscenza vi sono due pratiche, che nel Kalevala
sono frequentemente connesse: il ricordo e la ripetizione. All’esordio
del Runo III, Väinämöinen, bardo ed eroe di origine divina, coniuga
ricordo e ripetizione in una prassi non dissimile da quella dei cantori della
Carelia che cantano il Kalevala:
“Con costanza il vecchio Väinämöinen trascorre le sue giornate presso
quelle radure della regione di Väinämöinen, nelle lande della provincia di Kaleva. Contina a cantare le sue canzoni, continua a
cantare e seguita nel praticare la sua arte. Canta giorno dopo giorno, recita
notte dopo notte i ricordi di tempi antichi, quelle canzoni dell’origine
profonda, che non tutti i bambini cantano, che nemmeno gli uomini comprendono
in questa terribile epoca, in questa effimera età conclusiva” (Lönnrot, 1963a, vv. 1–14).
La ripetizione, essenzialmente formativa, è il
caposaldo dell’arte. La canzone diventa quindi formula, che solo per gli
infanti è sminuita in forma di filastrocca: gli adulti maturi, versati nelle
arti magiche, utilizzano la voce per recitare parole di potere e, poiché la
recitazione, per essere efficace, deve essere pedissequa, essa diviene
essenziale alla formazione del mago-cantore.
Nel Kalevala, forma e contenuto sono legate da un
indissolubile vincolo estetico. Prendendo a prestito una metafora spuria, il
richiamo alla kalokagathìa greca sembra
essere immediato, con sinolo platonico, anziché aristotelico: il vero, il buono
e il bello si accompagnano. Nel Runo III è proprio la beltà del canto di
Väinämöinen a suscitare l’invidia del giovane Joukahainen ([il Cigno], cfr. l’etimologia
di Kuzmin, 2018), i cui versi, ancor prima di risultare inferiori dal
punto di vista magico, lo sono dal punto di vista estetico:
“Joukahainen era giovane, un macilento ragazzo lappone. Un giorno se ne
stava andando a zonzo, quando udì notevoli incantamenti e canzoni magiche che
qualcuno stava sciorinando; le migliori erano intonate in quei tratti riarsi
della regione di Väinämöinen, nelle lande della provincia di Kaleva: migliori di quelle che lui stesso conosceva e aveva
appreso da suo padre. Così belle che ne ebbe a male e prese a invidiare
costantemente il fatto che Väinämöinen fosse un cantore migliore di lui” (Lönnrot, 1963a, vv. 21–34).
Da questo passo si evince, inoltre, come la formazione
dello stesso Joukahainen fosse una sorta di apprendistato, simile a quello che
Väinämöinen somministrerebbe ai suoi figli, se ne avesse. Nel contesto
regionale descritto dal Kalevala, la
trasmissione del sapere è patrilineare e procede di generazione in generazione.
Le “canzoni”, quindi, piacevoli o meno che siano, rispecchiano non tanto una
conoscenza diffusa, quanto invece una coscienza famigliare, sviluppata nel
tempo e accumulata generazione dopo generazione. Vedremo, però, come anche
questa consapevolezza intergenerazionale risulti deficitaria, dinanzi a un
potere autentico e originario.
Il Runo III prosegue con l’ingaggi di Väinämöinen da
parte del giovane Joukahainen, il quale trasforma l’invidia in conflitto aperto
urtando la slitta di Väinämöinen con la propria e avviando una querelle
per ottenere la precedenza sul sentiero. Di primo acchito, Väinämöinen non
esercita la propria arte, ma si limita a chiedere per l’appunto la precedenza,
come si suole secondo le convenzioni del luogo: il giovane ceda il passo in
deferenza all’età avanzata del bardo. Ma Joukahainen contesta la richiesta, sostenendo
che l’età non sia un metro sufficiente a determinare una gerarchia di valore
tra gli uomini. Spiega infatti Joukahainen che è la conoscenza a fare da
discrimine: chi più sa, più merita – non importa se giovane o vecchio. La sfida
è lanciata:
“Allora il giovane Joukahainen profferì parola e così disse: ‘La gioventù
di un uomo è piccola cosa. La sua giovinezza… la sua età… Chi dei due uomini
eccelle in conoscenza, ha la memoria più forte: che sia costui a restare sulla
pista e che sia l’altro a cedergli il passo. Se sei vecchio, Väinämöinen, cantore eterno, allora iniziamo a cantare, iniziamo a recitare
la magia; un uomo metterà l’altro alla prova; un uomo sconfiggerà l’altro.’ Con
decisione, il vecchio Väinämöinen profferì parola e così disse: ‘Che cosa posso
veramente fare, come cantore, come esperto!? Ho sempre vissuto la mia vita
limitandomi a queste radure, al limitare del campo domestico, e ripetutamente
ho udito il cuculo presso la [mia] dimora.’” (Lönnrot, 1963a, vv. 121–142).
Väinämöinen non sembra accettare subito il conflitto
epistemico tra il proprio sapere e quello di cui Joukahainen è portatore. Si
schernisce, spiegando che, come “esperto”, può fare e dire ben poco: egli,
infatti, non ha mai viaggiato ed è sempre rimasto nei pressi della propria
dimora, cioè nei luoghi in cui Joukahainen lo ha incontrato. Il
lettore-uditore, però, è ben consapevole del potere di Väinämöinen, in quanto
figura eroica e protagonista di molti canti: emerge pertanto una certa ironia,
quasi socratica, di chi sostiene che forse non serva viaggiare troppo per
diventare come Väinämöinen. Anzi, a rendere Väinämöinen saggio è proprio la località
del suo vissuto, la quale è quindi presupposto di conoscenza e apprendimento:
un apprendimento mirato, contestualizzato rispetto al territorio e mai
dispersivo. Torna, quindi, l’importanza della ripetizione: aver udito a più
riprese “il canto del cuculo” significa, nell’ironia, essere rimasti intontiti
da una nenia invariabile, ma, nella teoria epistemologica del Kalevala,
significa aver udito cose a ripetizione – aver conosciuto.
Il Runo III si articola quindi su questa linea di
pensiero: (i) da un lato, vi sono le conoscenze plurali di coloro che
hanno viaggiato e hanno visto molte cose; (ii) dall’altro, i cantori più
esperti sono coloro che di cose ne hanno viste poche, ma che hanno altresì
saputo vedere dentro di esse (conoscenze profonde), ripetendone
la cantilena. Forma, contenuto ed efficacia performativa dell’agire, per quanto
tendenzialmente congiunte, non sono pienamente sostituibili tra loro.
Joukahainen, come si evidenzia in seguito, è consapevole del valore della
ripetizione, ma tale esercizio pedissequo non è sufficiente a fare di lui un
conoscitore profondo: egli ripete con estrema precisione, sciorinando, in
versi, una lunga serie di luoghi e nozioni, ma Väinämöinen non ne è affatto
colpito:
“Il vecchio Väinämöinen disse: ‘La conoscenza di un bambino, la capacità
mnemonica di una donna! Non è né quella di un uomo barbuto, né quella di un
uomo sposato. Parla[mi] di origini profonde, di questioni singolari…” (Lönnrot, 1963a, vv. 184–188).
Ne deriva che, nell’epistemologia del Kalevala,
esistano due tipi di memoria: una predicativa e una esperienziale.
La prima è quella che Väinämöinen ritiene più superficiale: elenchi di fatti e
di cose. Eppure Väinämöinen stesso si era precedentemente qualificato come “ripetitore”;
in che cosa consiste, pertanto, la distinzione tra la sua conoscenza e quella
del giovane? La cifra della differenza sembra essere lo scarto tra ciò che si è
sentito e ciò che si è vissuto. Se, infatti, Joukahainen ci
fornisce utili informazioni sulla formazione dei giovani cantori sui generis
(es.: patrilinearità della trasmissione), resta il fatto che egli non possa che
cantare per sentito dire. Diversamente, Väinämöinen è il cantore
eterno: nel ripetere le formule, egli non ribadisce solamente delle
nozioni, ma ripete il proprio stesso vissuto; anche il “canto del cuculo”, in
questo senso, è un vissuto di Väinämöinen e non una semplice voce nella
foresta. Joukahainen potrà anche parlare per ore del canto degli uccelli, ma
resta in difetto, poiché, di questi canti, ha udito ben poco in prima
persona.
Ritorna, quindi, anche il tema dell’età: per quanto Väinämöinen
non neghi l’assunto fondamentale di Joukahainen (cioè che si può, tutto
sommato, sapere molto anche senza essere anziani), sembra suggerire che debba
comunque sussistere una qualche proporzionalità tra la lunghezza della barba di
un individuo (cioè l’età) e il suo accesso ai vissuti esperienziali (cioè il
ricordo del vivere). Per questa ragione, il canto di Väinämöinen non è
ripetizione verbale, bensì ripetizione esperienziale. Ciò è
provato dal fatto che il saggio cantore, attraverso il suo canto, riesce a far
accadere cose – proprio in questo consiste la sua magia:
“Il vecchio Väinämöinen, quindi, si adirò: si adirò e si sentì offeso.
Iniziò a cantare, prese a recitare. Le canzoni magiche non sono canzoni da
bambini, non sono canzoni da bambini o scherzi femminili: appartengono agli
uomini con la barba. In questa terribile epoca, in questa effimera età
conclusiva, non tutti i bambini cantano queste canzoni, né, invero, metà dei
ragazzi e nemmeno uno scapolo su tre. Il vecchio Väinämöinen cantò. I laghi
esondarono, la terra termò, le montagne di rame
vacillarono, le solide lastre di roccia si spezzarono in due, le rupi si
divisero e i ciottoli della riva si incrinarono” (Lönnrot, 1963a, vv. 283–300).
Seguendo il filo del ragionamento esposto nel Kalevala,
Väinämöinen si altera nel momento in cui Joukahainen inizia a parlare di eventi
cui non può, oggettivamente, aver partecipato. Passi, insomma, la conoscenza
della geografia e delle pratiche di vita quotidiana; passi anche una certa
dimestichezza predicativa con la metallurgia. Può, però, questo “ragazzino”
fregiarsi di aver assistito a cose avvenute prima della sua nascita? Egli è
solamente un figlio degli ultimi tempi e Väinämöinen sa bene che, nell’epoca
corrente, una scarsa percentuale della popolazione possiede il suo tipo di memoria-esperienza. Ragionando in modo
controfattuale, si può desumere che coloro che nacquero all’origine del Mondo
(come cioè Väinämöinen, nel Runo I) godevano già da bambini di quel tipo
di conoscenza che, ora, sono solo in pochi a possedere: ciò fu possibile perché
vi furono esposti in maniera diretta. Joukahainen, invece, non è uno di loro e,
nel presentare a Väinämöinen testi sulle origini, ne offende l’esistenza.
Ad ogni modo, l’ira finale è scatenata dall’incapacità di
Joukahainen di arrendersi all’evidenza: frustrato dall’indifferenza del vecchio
alle sue canzoni, Joukahainen lo sfida a duello, sostituendo la violenza alla
parola. È proprio in quel momento che Väinämöinen sfoggia finalmente il suo
potere, intrappolando l’improvvido sfidante. Con uno scarto semantico
preservato anche nella lingua italiana, dal canto si passa all’incanto:
la voce di Väinämöinen scuote le montagne, solleva un vento terribile e inizia
a sciogliere la terra sotto i piedi di Joukahainen, che si ritrova imprigionato
nelle sabbie mobili di una palude, dove prima c’era solo terreno calpestabile.
Joukahainen è uno di quei ripetitori che non ha compreso ciò di cui parla.
Nella sua discesa inesorabile nelle profondità del terreno, Joukahainen inizia
a implorare Väinämöinen di salvarlo e gli chiede di “cantare la canzone al
contrario”, cioè di disfare ciò che sta facendo. In pegno,
Joukahainen offrirà molte cose, ma anche in questo caso dimostra inizialmente
di non aver autenticamente compreso la natura di ciò di cui dispone: se
offre a Väinämöinen un campo da coltivare, il vecchio risponde che, per lui,
tutta la Terra è, potenzialmente, terreno agricolo; se, invece, gli offre
monete e metalli preziosi, Väinämöinen risponde che ne possiede già – di
antichi “quanto il Sole”. Inevitabilmente, Joukahainen finirà per offrire ciò
che ha di più prezioso: la mano della sorella. Väinämöinen acconsente e il suo
assenso dimostra che una giovane vita umana è, in effetti, l’unica cosa che può
presentarsi come nuova agli occhi dell’eroe più antico (oltre che,
naturalmente, dimostrare che le donne, nel Kalevala, sono spesso e
volentieri tenute in uno stato di minorità).
Sebbene il Runo III non abbondi di riferimenti all’infanzia,
ne parla in chiave metaforica. Essa vi è rappresentata come uno stato di
minorità intellettuale, paragonabile alle filastrocche dei bambini. In ciò, l’infanzia
è paragonata all’altra grande categoria ritenuta qualitativamente inferiore
dalla società patriarcale: il genere femminile, le donne. L’idea che le canzoni
magiche – cioè ricordi autentici che riproducono sé stessi – siano, in qualche
modo, appannaggio dell’universo maschile, cozza con il fatto che lo stesso Lönnrot conobbe numerosi Runi
grazie all’opera delle cantrici, cioè individui di sesso femminile che, all’epoca
delle indagini, erano evidentemente depositari del sapere mitologico locale.
Più che di infanzia, ad ogni modo, si dovrebbe qui
parlare di infantilismo, cioè del capriccio di Joukahainen, il quale non
vuole arrendersi alla propria condizione di insipiente e, anzi, pretende di
sapere ciò che non può aver conosciuto personalmente e intimamente. Alle spalle
della dialettica tra il vecchio Väinämöinen e il giovane Joukahainen c’è la
cesura intergenerazionale tra i primi individui – i più antichi – e i nuovi
nati: la temporalità, nel Kaevala¸è spesso
percepita come già chiusa e avviata alla sua conclusione ultima; pertanto, non
sussistendo per l’umanità una prospettiva di sviluppo (“questa effimera età
conclusiva”), ne consegue che coloro che nacquero nei tempi antichi ebbero
migliore accesso all’origine del Mondo e, per traslato, alle cause prime delle
cose. Pertanto, un infante antico potrà a buon diritto surclassare un anziano
degli ultimi giorni proprio in virtù della sua testimonianza di prima mano:
non si esclude, quindi, la possibilità di bambini saggi, specialmente se
nati in prossimità della creazione del Mondo; si tratta, tuttavia, di un
fenomeno rarissimo nel Kalevala.
3.2. Le risorse dell’infanzia (Runo XIX
e XXI)
“Il neonato sul pavimento cantò – all’età di due settimane strillava: ‘È
facile nascondere un cavallo, occultare una giacca sgualcita; [ma] è difficile
nascondere una ragazza nubile, occultarne le lunghe trecce. Se anche costruissi
un forte di pietra in mezzo al mare, per tenervi le giovani in età da marito,
per crescervi i vostri pulcini, le ragazze non vi troveranno nascondiglio e le
vergini non matureranno senza pretendenti importanti, pretendenti di campagna,
uomini con i cappelli a punta, cavalli con zoccoli ferrati.’” (Lönnrot, 1963c, vv. 483–498).
Il passo precedente è rimarchevole per almeno due
ragioni:
(i) In
primo luogo, per via del contenuto: sembra suggerire che la maturità, in
qualche modo, sia il risultato di pressioni sociali costanti e che la
situazione di puer aeternus
sia lesiva della persona; in questo senso, a nulla varrebbe recludere la
propria prole, poiché l’età adulta e i rischi e le opportunità del mondo la
cercheranno e la troveranno comunque.
(ii) Il
secondo aspetto rilevante è l’identità della voce narrante. A parlare, infatti,
non è un cantore anziano (Väinämöinen) e nemmeno uno spavaldo giovanotto
(Joukahainen), bensì un neonato, di appena due settimane d’età. Come può un
neonato parlare in così tenera età, senza possedere evidenti qualità magiche?
Il Kalevala non spiega il perché dei molti
neonati parlanti che compaiono nei suoi Canti, dei quali questo è solo un
esempio. Nei versi precedenti al passo citato, il neonato si dilunga in una
metafora avicola che rispecchia una tripartizione favolistica (Meletinsky
et al., 1974): l’uccello rapace non riesce a penetrare nelle dimore
ben protette degli uomini (tetto di ferro), né delle donne adulte (tetto di
rame), bensì nella capanna delle ragazze nubili (tetto di lino).
Nel canto di
questo bambino, che ripete nozioni fondamentali sul passaggio dalla
fanciullezza all’età adulta, è riscontrabile anche una funzione corale, poiché
questa “morale” del bambino altro non è che la “morale” della vicenda che, nel
frattempo, sta avendo luogo: la Signora delle Terre del Nord [Pohjola] si vede costretta a cedere la propria
figlia al fabbro Ilmarinen, il quale ha appreso in
segreto dell’esistenza della fanciulla, nonostante gli sforzi della madre di
nasconderne l’esistenza.
Che i bambini,
nella prima o nella seconda infanzia, posseggano doti peculiari, è riconfermato
dalle successive scene matrimoniali del Runo XXI, nel quale Väinämöinen si
assicura che non ci sia già qualcuno di pronto a intonare un canto per
allietare la serata – plausibilmente, perché vuole farlo egli stesso. Nel passo
si contrappongono due figure: quella dell’ennesimo bambino di primo pelo
accoccolato presso la stufa e quella di un anziano che ha perso la voce.
Così è
descritto l’intervento del bambino:
“C’è un bimbo sul pavimento, con i baffi da latte, sulla panca presso il
focolare. Il bambino, da terra, parla – parla dalla panca vicina alla stufa: ‘Non
sono avanti con l’età, di corporatura robusta, ma, sia quel che sia, se altri
più forzuti non canteranno, se uomini più corpulenti non si intrometteranno
cantando, io, magrolino, cinguetterò. Canterò dal mio corpicino pelle e ossa e
con le mie membra esili produrrò una musica gioiosa per la nostra serata, per
onorare questo grande giorno.’” (Lönnrot, 1963d, vv. 291–352).
Ecco, quindi, una singolare testimonianza dell’infanzia pre-moderna nella regione interessata dal Kalevala: uno scenario domestico, un
bambino con le labbra sporche di latte, i giochi sul pavimento presso la panca
che sta vicina al focolare, la capacità di divertire e produrre suoni armoniosi
(“ciguettio”). In questo caso, la presenza di un
bambino-cantore svolge la funzione di mettere in ridicolo i maschi adulti che,
seppur “grandi e grossi”, non osano cantare. Visto il capovolgimento dei ruoli,
il bambino ricco di risorse è subito ostacolato e, a differenza del
bambino-saggio del passo precedentemente citato, un anziano lo interrompe:
“C’è un vecchio presso la stufa. Costui pronuncia le seguenti parole: ‘Non
c’è nulla nelle canzoni dei bambini, nel tubare degli infelici; le canzoni dei
bambini sono inganni, le canzoni delle ragazze sono vuote. Lascia il canto a un
saggio, lascia la canzone a costui, che è seduto sulla panca’.” (Lönnrot, 1963d, vv. 291–352).
Parlando di saggio, il vecchio indica Väinämöinen, il
quale sta ancora cercando di appurare se, tra i membri della famiglia riunita
per le nozze, vi sia qualcuno in grado di prendere in mano il testimone e
iniziare a cantare. L’anziano che ha interrotto il bambino non è, tuttavia, in
grado di supplire a questa necessità. Costui, quindi, critica, ma non sa
offrire soluzioni e non riesce quindi a collocarsi sull’asse oppositivo che già
in precedenza aveva visto Väinämöinen trionfare sul giovane e sprovveduto
Joukahainen. Infatti, l’anziano dichiara che, proprio durante l’infanzia,
godeva di una voce splendida, che però ora ha perduto:
“Dice il vecchio, dalla stufa: ‘Non fu mai udito prima, né visto o sentito
mai – mai e poi mai – un cantore migliore, ovvero un esperto di maggior
successo, di me quando solevo cinguettare e cantare, come un semplice
fanciullo: accompagnare il canto delle acque nella baia, cantare sonoramente
nelle lande, cantare a squarciagola nei boschetti di conifere, cantare la magia
nelle foreste selvagge. La mia voce era piena e aggraziata, la mia melodia
oltre ogni bellezza. All’epoca, scorreva come un fiume, luccicava come un
torrente d’acqua, correva come uno sci lasciato [a sé stesso] sulla neve, come
una barca a vela che prende il vento. Ora, tuttavia, non posso [più] cantare. E
non capisco proprio cosa possa aver soppresso questa voce maestosa e abbattuto
il [suo] suono adorato. Ora non scorre più come un fiume, né si increspa con il
sollevarsi delle onde. È come un erpice sulla stoppia, un ramo di pino che
stride sulla neve ghiacciata, una slitta sulle sabbie della riva, una barca su
rocce aride.’ (Lönnrot,
1963d, vv. 291–352).
Si articola così una doppia prospettiva ironica, che
gioca sul concetto di infanzia. Il bambino è zittito dal vecchio, in quanto le
sue canzoni sarebbero, in qualche modo, fonte di inganno e non rispetterebbero
la realtà delle cose. L’intromissione dell’anziano e la censura della canzone
infantile fanno perno sulla necessità di un canto adeguato, appropriato al
contesto, ma anche di un cantore esperto nelle cose che narra. Tuttavia, l’interazione
del bambino è al tempo stesso la molla che innesca la nostalgia: l’anziano,
infatti, proprio durante l’infanzia, godeva di una voce particolarmente
sopraffina, la cui dote maggiore era quella di sapersi armonizzare con i suoni
dell’ambiente. La vecchiaia, tuttavia, ha reciso il provvido legame tra l’uomo
e la natura: tanti ricordi, ma non una voce adeguata a narrarli. Se, dunque, il
bambino pecca per inesperienza, il vecchio, invece, pecca per assenza di doti
canore. Ciò che, nell’infanzia, è musicalmente adeguato, non lo è per i
contenuti (manca il vissuto); viceversa, ciò che l’anziano potrebbe trasmettere
per esperienza, rischia di non intrattenere gli astanti, poiché è riferito con
suoni striduli e poco aggraziati.
Questa aporia, insolubile per un uomo degli ultimi tempi,
è invece superata da Väinämöinen, il quale, in quanto cantore eterno, può farsi
carico del duplice compito: quello di cantare bene e quello di cantare il vero,
cioè ciò che ha esperito. Si evince, quindi, che la vecchiaia di Väinämöinen
sia qualitativamente diversa dall’età avanzata essendo che, quest’ultima,
coincide, per gli uomini mortali, con la degenerazione del corpo. Il Kalevala,
quindi, articola due diadi oppositive, che riflettono due concezioni di
infanzia e due concezioni di vecchiaia:
(i)
Infanzia dei mortali vs. vecchiaia
dei mortali;
(ii)
Infanzia dell’Umanità vs. vecchiaia
dell’Umanità.
Nel primo caso (i), l’infanzia coincide con un’armonia
estetica nei confronti della natura che, in unisono con la caducità del corpo
mortale, scema nel corso degli anni. Sempre nel primo caso (i), l’infanzia
coincide anche con un difetto epistemico: pur in sintonia con la natura, il
bambino e il fanciullo non sanno e non comprendono i principî delle cose che li
circondano – si tratta di una cosa che matura con l’età e con l’esperienza.
Invece, nel secondo caso (ii), c’è un’infanzia del Mondo i cui testimoni erano,
per definizione, giovani all’epoca dei fatti, ma i quali hanno comunque
assistito al dispiegarsi di eventi eziologici – acquisendo perciò non solo
competenze estetiche superiori, ma anche una conoscenza cui non si sarebbe
potuto attingere a posteriori.
Viceversa, coloro che sono nati in tempi recenti, seppur giovani
anagraficamente, sono i rappresentanti di un genere umano ormai prossimo alla
vecchiaia e alla fine dei tempi e che, nonostante la tarda età in termini
intergenerazionali, non è capace di reminiscenza del passato mitico. Può,
naturalmente, raccontarlo, così come Joukahainen ripete quello che ha sentito dire
da suo padre – ma questo apprendistato predicativo ha poco valore rispetto alle
testimonianze di prima mano.
3.3. Dalla fine dell’infanzia alla cura dell’infanzia (Runo XXIII)
Nei Runi del Kalevala dedicati al matrimonio tra Ilmarinen e la Figlia del Nord la narrazione mantiene
sempre i riferimenti alla quotidianità, già reperibili nelle circostanze dell’incontro
tra Väinämöinen e Joukahainen e nelle svariate prove sostenute da Ilmarinen per ottenere la mano della futura sposa.
Tuttavia, in questo caso non è solo il contesto a farsi quotidiano, ma anche
gli argomenti trattati: anziché discettare sui primordi del Mondo, la
narrazione è eventualmente affidata a Osmotar, divina
preparatrice della birra ed esperta di questioni domestiche, la quale educa le
figlie di Pohjola al loro futuro di massaie presso le
famiglie dei mariti.
Con Osmotar, compare finalmente
una cantrice mitica, ma l’articolazione delle sue conoscenze non esula dal
contesto patriarcale precedentemente descritto – a testimonianza della forte
disparità di genere presente nel Kalevala: il Runo XXIII, infatti,
si occupa principalmente dell’educazione della promessa sposa, che costituisce
certamente motivo di interesse per chi si occupa di storia sociale dell’educazione.
Limitatamente all’infanzia, il Runo offre due rappresentazioni: (i) primo, come
condizione che la ragazza abbandona con il passaggio all’età matura; (ii)
secondo, come condizione con la quale la sposa dovrà confrontarsi, poiché la
casa e il circondario dove abiterà saranno, probabilmente, pieni di bambini.
Dice Osmotar:
“Quando te ne vai da questa fattoria, ricordati di prendere tutte le tue
cose, ma lascia a casa queste tre: dormire tardi il mattino, le parole
amorevoli di una madre, il burro fresco direttamente dalla zangola. Ricorda
tutti i tuoi mobili[, ma] dimentica il letto a cassettone, lasciato alle
ragazze di casa, accanto alla stufa di famiglia. Getta le canzoni sopra la
panca, i lazzi di gioia dalle finestre, le bambinate all’impugnatura della
spazzola del bagno, i motti giovanili nel vivagno di iuta, le tue cattive
abitudini nel focolare, le tue pigrizie sul pavimento – o, eventualmente, dalli
alla damigella d’onore, infilali sotto il braccio della damigella d’onore,
affinché la damigella d’onore li conduca in un boschetto, li porti in una
brughiera” (Lönnrot,
1963e, pp. 35–54).
Questo passaggio può essere interpretato come un riferimento
negativo all’infanzia, oppure, in chiave più neutrale, come la demarcazione di
una differenza. Nel primo caso, si annoverano: filastrocche infantili, modi di
fare “da bambina”, le cattive abitudini e la pigrizia (dormire fino a tardi,
etc.). Nel secondo caso, l’infanzia è rimembrata come luogo d’amore, di riposo,
di gioia, di nutrimento sano (il burro fresco) e di tepore (il letto vicino
alla stufa).
Giunta nella nuova dimora, sotto la supervisione della
suocera, la novella sposa dovrà farsi carico di numerose faccende domestiche.
Nell’assolvere ai propri nuovi compiti, non dovrà esitare a sforzarsi – pena
gettare il discredito sia sulla famiglia di provenienza che su quella che l’ha
accolta.
In ossequio alla seconda rappresentazione dell’infanzia,
quest’ultima compare nuovamente nel Runo sotto forma di bambini e neonati da
accudire, quando la donna rientrerà a casa:
“Non sostare nella stalla, non poltrire nel recinto degli ovini. Quando
avrai pulito la stalla e quando ti sarai presa cura del bestiame, ritorna a
casa ed entra come un turbine. Ci sarà un neonato che piange, un piccolino
sotto le coperte. Il povero bambino non può parlare e, poiché non ha la parola,
non può dire se abbia freddo o se abbia fame o se qualcosa d’altro sia accaduto
– fino all’arrivo di un individuo che gli è familiare, finché non ode la voce
della madre. Ma tu, non appena entri in casa, entra in casa con quattro cose:
un mestolo d’acqua in mano e, sotto il braccio, un ramoscello di betulla come
spolverino, una stecca di legno rovente tra i denti e, come quarta cosa, porta
te stessa. Inizia a pulire i pavimenti, spazza le assi del pavimento; getta l’acqua
sul pavimento – non gettarla sul bambino! Potresti vedere un infante sul
pavimento, che magari è il figlio di tua nuora: sollevalo e mettilo su una
panca a muro, lavagli la faccia, lisciagli i capelli, dagli un pezzo di pane in
mano – spalma del burro su quel pane. Se non c’è pane in casa, mettigli in mano
una scaglia di legno” (Lönnrot, 1963e, vv. 161–192).
I bambini, specialmente se nella prima e seconda
infanzia, sono lasciati soli a casa quando la massaia si occupa degli animali.
Quest’ultima operazione va, tuttavia, svolta con rapidità, in modo da tornare a
occuparsi dei bambini il prima possibile. Il Runo XXIII insiste molto sull’importanza di non trascurare
i più piccoli nella foga di sbrigare altre faccende domestiche: ad esempio, i
pavimenti vanno lavati dopo aver messo in sicurezza i minori. Inoltre,
sempre stando a questa sezione del Kalevala,
il bambino dovrebbe avere sempre qualcosa a disposizione un pezzo di pane da
mordere o, in alternativa, una scaglia di legno per ingannare la fame; inoltre,
il bambino va pulito e lavato – in controtendenza rispetto allo stereotipo dell’antichità,
talvolta diffuso nei media, secondo cui le pratiche igieniche di epoca
premoderna sarebbero carenti (cfr. ad es., lo studio di Classen, 2017). Si
pensi, ad esempio, alla sauna come fulcro ancestrale delle dimore finlandesi e careliane,
oppure ai frequenti riferimenti al bagno, alla spazzola e alla cura dei capelli
(Lönnrot, 1963l, vv. 343–346).
Nonostante le necessità passive esposte nel passaggio
precedente, l’educazione della giovane sposa tiene anche conto dell’agentività della prima e della seconda infanzia:
“Sei uscita a lavare un contenitore, a sciacquare un barilotto: lava le
pentole e i loro manici, le caraffe e i loro incavi; sciacqua le scodelle –
ricordati del loro bordo – [sciacqua] i cucchiai – ricordati le impugnature.
Tieni conto di cucchiai, tieni traccia dei contenitori, affinché i cani non se
li portino via, affinché i gatti non se li tengano, affinché neanche gli
uccelli li spostino, affinché i bambini non li lascino sparsi in giro. Ci sono
numerosi bambini nella comunità, un sacco di testoline che si porterebbero via
le pignatte, che sparpaglierebbero i cucchiai” (Lönnrot, 1963e, vv. 336–350).
I bambini non sono dunque soggetti esclusivamente passivi
– come già anticipato dai vari interventi dei “bambini parlanti” in diverse
sezioni del poema – ma sono altresì soggetti attivi. Tuttavia, la loro attività
è descritta come disorganizzata e, potenzialmente, destabilizzante per l’equilibrio
domestico. Un aspetto di interesse, in questo contesto, è l’assenza di
riferimenti a eventuali punizioni. Non traspare, nel Kalevala, l’idea di una società dura e rigida nei confronti dell’infanzia.
Se, infatti, la condizione di minorità dell’infanzia è ribadita più volte (al
punto da diventare un Leitmotiv dei
vari Runi), la sua inevitabilità suggerisce il
bisogno di un approccio tollerante: al bambino si lascia fare ciò che vuole.
Retrospettivamente, la libertà dell’infanzia con cui si
confronta la novella sposa contrasta con la natura vincolata del suo operare in
seno alla famiglia. Nei bambini della comunità che la accoglie, costei vedrà
rispecchiata l’infanzia che ha vissuto – tuttavia, lei ha perduto
definitivamente tale condizione. A mancare, in questi passi del Kalevala, è la rappresentazione di
periodi di transizione sostanziali, come ad esempio l’adolescenza nella società
contemporanea: l’accesso alla maturità, cioè il passaggio da “bambina” ad “adulta”,
non è soggetto a un periodo di acclimatamento, ovvero a una finestra temporale
in cui abituarsi alla propria nuova vita ed, eventualmente, esercitare un
diritto di recesso.
In questo senso, esistono figure ambigue che, nel Kalevala, seguono percorsi esistenziali
che non li separano dall’infanzia, ma tali figure sono prevalentemente
maschili: lo sposo resta a vivere nella casa materna ed è la sua famiglia ad
assorbire la sposa, non viceversa; a sua volta, la madre di lui fu anch’essa
acquisita dalla famiglia. È così illustrata la struttura di una società in cui
la trasmissione della terra segue la discendenza patrilineare, ma in cui la
gestione della casa è affidata alla parentela acquisita (le mogli). Se, quindi,
i personaggi di sesso femminile vivono transizioni drastiche dall’infanzia all’età
adulta, con soluzione di continuità, i personaggi maschili beneficiano di una
sorta di maturità fluida, che consente loro di intervenire altrove (ad esempio:
per cercare moglie) e, successivamente, di tornare in seno alle cure famigliari
(ad esempio: dopo il matrimonio).
3.4. L’infanzia minacciata (Runo XXXI–XXXVI)
Un ulteriore tema concernente l’infanzia e la formazione
individuale è esplorato dalla tragedia di Kullervo. Si tratta di una saga a
incastro presente nel Kalevala, la quale, per via della sua estensione e
autonomia narrativa, meriterebbe una trattazione separata – come del resto
rimarcato dallo stesso Tolkien (2015). In
questa sede, sarà trattata in forma più breve e limitatamente ai temi di
pertinenza del presente contributo.
Nei Runi che vanno dal XXXI al
XXXVI, la vita di Kullervo si presenta come costellata da ripetuti episodi di
violenza. Il primo avviene addirittura prima della sua nascita e detta il tono
dell’esistenza del nascituro: Untamo, geloso del
fratello Kalervo, ne stermina la tribù; sopravvive al
massacro solo Untamala, una ragazza incinta, che Untamo trasformerà nella sua concubina (Lönnrot, 1963f, vv. 1–82).
Il nuovo nato, chiamato Kullervo, è subito percepito come
una minaccia, poiché si teme che un giorno possa vendicarsi del torto subito
dalla tribù della madre. Seguono, quindi, diversi tentativi di infanticidio, ai
quali Kullervo sopravvive sempre grazie a poteri portentosi, che mettono in
ridicolo i suoi aguzzini (Lönnrot, 1963f, vv. 83–202). Non
si tratta, però, di una magia controllata, bensì di fenomeni che avvengono
attorno a lui spesso in ragione di un vissuto emotivo traumatico.
Arrendendosi alla resilienza del bambino, Untamo lo cresce come un servitore (Lönnrot, 1963f, vv. 203–374). Tuttavia,
Kullervo si rivela subito come una figura scomoda, che fa danni ovunque metta
mano – persino uccidendo per incuria uno dei suoi fratellastri in fasce (Lönnrot, 1963f, vv. 221–222). Una volta
cresciuto, Untamo vende Kullervo come schiavo alla
famiglia di Ilmarinen (Lönnrot,
1963f, vv. 365–374) – già nota agli uditori del Kalevala a seguito
delle vicende matrimoniali del medesimo. La padrona di casa – la figlia della
Signora del Nord – trova sgradita la presenza di Kullervo e lo maltratta,
arrivando al punto da mescolare pietre al pezzo di pane che dovrebbe costituire
il pasto del giovane pastore (Lönnrot, 1963g, vv. 1–32).
Kullervo escogita allora uno stratagemma per ferirla, mascherando con la magia
le fiere del bosco per farle apparire come bestiame innocuo; la donna scopre il
trucco troppo tardi, quando ormai gli animali feroci sono con lei dentro la
stalla: morirà divorata dalle bestie (Lönnrot, 1963h, vv. 99–296)
Kullervo resta ancora solo e, protagonista di varie
vicende sciagurate, riesce infine a ricongiungersi alla tribù di suo padre,
scoprendo che molti erano, in effetti, sopravvissuti all’eccidio (Lönnrot, 1963i, vv. 1–188). Nel
tentativo di trovare al giovane un’utile collocazione, gli anziani lo
incaricano di vari compiti, ma egli risulta sempre inadeguato: o per incapacità
o per lassismo – ambiguità non sempre chiarita nei versi del Kalevala (Lönnrot, 1963j, vv. 1–50). Alla
disperata, Kullervo è incaricato di occuparsi della consegna dei prodotti
agricoli al signore di quelle terre, come tassa da pagare (Lönnrot, 1963j, vv. 51–60)
Guidando la sua slitta, incontra varie ragazze che lo
rifiutano (Lönnrot, 1963j, vv. 61–120).
Incrocia quindi una giovane mendicante, che inizialmente rifiuta le sue avances,
ma poi si lascia convincere dalle sue ricchezze (Lönnrot,
1963j, vv. 121–188). Dopo l’amplesso, si scopre che questa ragazza è, in
realtà, sua sorella: sopravvissuta al massacro, si era perduta nella foresta
mentre raccoglieva frutti di bosco, ancora bambina (Lönnrot, 1963j, vv. 189–263). La
consapevolezza dell’incesto la conduce al suicidio per annegamento (Lönnrot, 1963j, vv. 164–168) e Kullervo,
dominato ormai dalla rabbia, si reca presso la tribù di Untamo,
la stermina e poi pone fine alla sua vita nel punto in cui era deceduta la
sorella (Lönnrot, 1963j, vv. 370–372, 1963k).
Nel complesso, la vicenda tocca temi noti ad altre saghe:
faida intra-famigliare, vendetta del sopravvissuto, tabù dell’incesto, il
suicidio della donna traumatizzata e la profezia auto-avverante. Per una storia
di questo tipo si possono formulare alcune ipotesi concernenti il rapporto tra
questi temi e le varie funzioni formative svolte dal poema:
· Funzione
educativa. Per i bambini-spettatori – presumibilmente, dalla
seconda infanzia in poi – la tragedia di Kullervo svolge la funzione di
sensibilizzarli alle norme sociali in vigore (es.: divieto dell’incesto).
Infatti, come illustrato dal precedente canto educativo di Osmotar,
l’infanzia ha la tendenza a disgregare l’ordine sociale e, soprattutto, quello
domestico (es.: le pentole sparse).
· Funzione
catartica. Più verosimilmente, però, i bambini-spettatori sono già
inseriti in una struttura sociale, agente ed efficace. Pertanto, i canti non
costituiscono un contesto di prima sensibilizzazione, ma, al più, agiscono da rinforzo di norme già acquisite e
interiorizzate. Semmai, la funzione del ciclo di Kullervo è quella di rendere
esplicite alcune norme. L’efficacia della norma, quindi, non segue, bensì precede
la vicenda narrata. Quest’ultima deriva la propria qualità drammatica proprio
dal fatto che le regole infrante già sussistono e sono accolte dalla comunità
degli uditori. Il risultato è una catarsi in forma di terapia d’urto simulata:
la violazione è vissuta con ansia, cui la morte dei protagonisti pone
finalmente sollievo. Inoltre, nella storia di Kullervo si articola una
dialettica tra struttura superficiale e struttura profonda:
sebbene i protagonisti dell’incesto (cioè Kullervo e la giovane mendicante)
agiscano in linea con le informazioni di cui sono al corrente, tale genuina
ignoranza non li redime dalle interferenze tra il loro percorso esistenziale e
la struttura profonda dei rapporti di parentela.
· Funzione
didascalica. Strettamente correlata alla funzione formativa, la
funzione didascalica può essere concettualmente distinta in quanto lo scopo
della formazione è volto a costruire individui in via di sviluppo, mentre l’espressione
didascalica costituisce invece una più semplice lezione morale che agisce da
rinforzo sull’adulto. Limitatamente alla funzione didascalica, quindi, il lector in fabula della storia di Kullervo non
è un bambino, bensì l’adulto che dovrebbe occuparsi dei bambini. La vicenda,
infatti, illustra le conseguenze nefaste di una vita condotta all’ombra di
grandi violenze, che vanno pertanto evitate, in quanto i loro frutti
danneggiano, direttamente, le vittime e, indirettamente, i perpetratori.
A queste
funzioni generali si affiancano le narrative specifiche sull’infanzia di
Kullervo:
· Il
bambino nella culla. Una parte rilevante dell’infanzia di Kullervo si svolge
quando si trova ancora in culla. Quest’ultima oscilla talmente tanto che il
bambino inizia a scalciare e, insofferente alla medesima, strappa le coperte e
fa addirittura a pezzi il lettino (Lönnrot, 1963f, vv. 67–72).
Sebbene, alla fine della vicenda, vi sia un richiamo alla natura funesta del
dondolio (Lönnrot, 1963k, vv. 354–360), non
seguo qui la lezione di Magoun, il quale presume, ante
litteram, una sorta di shaken baby syndrome (Magoun,
1963, p. 395). Piuttosto, come testimoniano i versi stessi del
Runo XXXI (Lönnrot, 1963f, v. 73), la
situazione in culla è riflesso del carattere indomito del bambino, che infatti
è collegato a profezie sulla sua forza futura e aspettative sul suo
controvalore di schiavo. Distruggere gli spazi della prima infanzia è visto
come un pregio.
· Crescere
troppo in fretta fa male. L’infanzia di Kullervo non è certamente un’infanzia
lunga: il bambino cresce a una velocità straordinaria, che testimonia il
portento magico di cui è dotato. Tutta questa rapidità, però, non giova né al
suo carattere, né alle sue competenze. Kullervo, in breve, diventerà un bambino
nel corpo di un adulto. Non è dato sapere l’autentico motore magico alle spalle
di questa crescita sconsiderata; forse, il poema articola il fenomeno come una
sorta di reazione al trauma, ma non vi sono versi che lo facciano supporre con
immediatezza.
· Il
male genera male. Inizialmente, Kullervo non era ostile alla tribù di Untamo. Tuttavia, crescendo, si era abbandonato a una serie
di dichiarazioni, plausibilmente a seguito dei racconti uditi dalla madre. Ma
tanto è bastato alla gente di Untamo per convincersi
a eliminare il bambino. Questi tentati infanticidi sono descritti sotto una
luce simbolica, come una triade di prove superate dall’incantatore (de Smit, 2012, p. 210; Rank, 2004,
p. 29). Resta tuttavia il fatto che essi potrebbero riflettere
dei metodi realmente utilizzati per liberarsi degli infanti. Permane, però, un’organizzazione
della storia attorno alla dimensione elementale (il fuoco, attraverso il rogo;
l’acqua, attraverso l’annegamento; l’aria, attraverso l’impiccagione) –
pertanto, sembra che la dimensione simbolica trionfi su quella reale.
· I
bambini si occupano di altri bambini. A un certo punto della sua
infanzia, Kullervo è “messo a lavorare”. Il compito consiste nel prendersi cura
di un bebè a malapena svezzato. L’esito, per Kullervo, è infausto e il canto
descrive la fine del bambino con macabri dettagli. Non è sempre chiaro se, nel
caso di Kullervo, i comportamenti lesivi siano una reiterazione degli abusi
subiti (es.: Kullervo che distrugge gli averi del bambino di cui si occupa)
oppure se siano principalmente il risultato della natura magica del protagonista
(es.: una strana malattia si impossessa dell’infante). Ciononostante, il passo
torna a riprova di quanto anticipato da altri studiosi dell’infanzia in
contesti rurali o comunque premoderni (cfr. Mead, 1928): i bambini con un minimo di
padronanza di sé (plausibilmente dai sei anni in su) sono incaricati di
occuparsi dei più piccoli.
· Si
cerca di affidare ai bambini compiti proporzionati alla loro età – non senza
rischi. Questo aspetto è particolarmente evidente nel resoconto
che la sorella di Kullervo fa della propria infanzia: incaricata di raccogliere
frutti di bosco, si perde ed è colta da grande disperazione, al punto che
persino l’ambiente circostante sembra intimarle il silenzio. Procacciare cibo è
un’attività legittima per una bambina – e non si tratta certo di una schiava: l’amore
materno non la rinchiude in casa (come invece avveniva per la Figlia di Pohjola, sposa di Ilmarinen e
infine “megera” che tormenta Kullervo) e il rischio di perdersi sembra essere
ritenuto ragionevole. Ciò va in netto contrasto con la visione di Osmotar, per la quale i bambini risultavano quasi sempre
problematici e inabili al lavoro.
I punti precedenti sono richiamati dalla morale espressa
da Väinämöinen alla conclusione del ciclo di Kullervo, nella quale dichiara
apertamente che crescere male i propri figli significa non allineare una
eventuale prestanza fisica alle debite qualità morali e, anzi, causerebbe una
sorta di ritardo che impedisce al fanciullo, una volta cresciuto, di inserirsi
a pieno titolo nella società adulta.
3.5. Il bambino ritrovato (Runo L)
L’ultimo tema dell’infanzia mitologica del Kalevala
si interseca con l’avvento del Cristianesimo. I Runi
che se ne occupano raccontano la storia di Marjatta
(Maria), pastorella illibata, la cui purezza è tale che persino le scelte
alimentari rispecchiano una virginalità simbolica:
non tocca le uova fecondate, non mangia carne di pecore deflorate dal montone,
non si avvicina allo stallone da monta e non munge mai la vacca (Lönnrot, 1963l, vv. 1–57).
La sua sciagura di pastorella, abbandonata a sé stessa in
maniera non dissimile dalla sorella di Kullervo, è quella di esperire un’inseminazione
mistica, cioè un’Immacolata Concezione “alla Finlandese”, che avviene in un
pascolo per mezzo di un frutto rosso che percorre le sue gambe fino ad
annidarsi nell’utero – evidentemente sufficientemente maturo per sviluppare la
prole (Lönnrot, 1963l, vv. 58–120). La
gravidanza passa inosservata fino ai giorni cruciali del parto (Lönnrot, 1963l, vv. 121–131), durante i
quali Marjatta si scontra con la propria famiglia,
che non la crede vergine e, per questa ragione, la disconosce (Lönnrot, 1963l, vv. 132–197). La
fanciulla, quindi, si incammina in preda ai dolori del travaglio e trova
rifugio in una sauna abbandonata nella campagna, cioè una specie di stalla
nella quale il respiro delle bestie si confonde con i vapori dell’acqua sul
braciere (Lönnrot, 1963l, vv. 198–337).
Dà alla luce un bambino, ma, mentre se ne prende cura,
questi sparisce e la primipara, angosciata, si lancia in una ricerca carica di suspence
(Lönnrot, 1963l, vv. 338–353). Il
bambino sarò ritrovato in un acquitrino – simbolicamente, non grazie all’ausilio
della Stella e della Luna, ma con l’aiuto del Sole, destinato a illuminare
(come il bambino stesso) una nuova epoca radiosa.
A conclusione di questo apocrifo evangelico si colloca lo
scontro tra Väinämöinen e il bambino stesso. Il sacerdote Virokannas
(etimologicamente ricondotto a Hannes o Johannes, cioè il Battista – cfr. Magoun, 1963, p. 406) intende battezzare il bambino, ma
chiede il consenso di Väinämöinen, il quale si oppone e propone di eliminarlo;
il bambino – un altro bambino parlante – interviene però a zittirlo (Lönnrot, 1963l, vv. 427–489) e, mentre il
battesimo ha luogo, attribuendo al neonato l’epiteto di “Re di Carelia”, Väinämöinen
abbandona per sempre quelle terre (Lönnrot, 1963l, vv. 490–507). Ai
lettori del Kalevala non sfuggirà il valore, ancorché sincretico, di
riflessione interculturale contenuta nel Runo L: infatti, sebbene le
vicende descritte siano particolarmente umilianti per Väinämöinen, sembra quasi
che il narratore implicito, a un certo punto, si schieri con lui, spiegando che
egli parte per Paesi d’oltremare e si lascia alle spalle il kantele,
lo strumento a corde che era “fonte eterna di musica gioiosa per la gente, le
grandi canzoni destinate ai suoi figli” (Lönnrot, 1963l, v. 507). Ritorna,
con ancor più energia che nel caso di Kullervo, il tema della formazione dell’infanzia,
questa volta legato al tema del bambino/neonato parlante.
4. Discussione: il fatalismo formativo del Kalevala
Il canto di epilogo, inserito nel Runo L, è uno
sviluppo ulteriore del Vecchio Kalevala (Lönnrot,
1969, p. 186), risultante da un’interpolazione di dichiarazioni
nostalgiche, discorsi apologetici da bambino-parlante e un invito generale a
lasciare le cose compiute, anziché incompiute, nella speranza che una gioventù
più vigorosa possa espanderle in futuro:
“Brava gente, non riteniate insolito se io, un bambino, ho cantato troppo;
[io,] un piccolo, ho cantato flebilmente e maldestramente. Non ho ricevuto
educazione formale, non ho visitato la terra dei veggenti, non ho appreso
parole straniere, frasi di luoghi lontani. Tutti gli altri ricevettero
insegnamenti; io non mi sono allontanato da casa, non mi sono allontanato dal
sostegno della mia madre sola, dai dintorni di questa persona solitaria. Ho
dovuto imparare da casa, sotto la fronda del mio letto a cassettoni, dalla
conocchia della mia stessa madre, dai trucioli intagliati da mio fratello – e
tutto ciò, da bambino piccolo, da bambino piccolo che indossa una maglia
sgualcita” (Lönnrot,
1963l, vv. 607–615).
Si chiude così un ciclo aperto da Väinämöinen, il quale,
socraticamente, aveva spiegato a Joukahainen di non essersi mai allontanato dai
luoghi natii – schernendosi con falsa modestia. Questo atto di contrizione
davanti agli uditori pone il cantore in una posizione, allo stesso tempo, di
vantaggio e svantaggio epistemico: si prende responsabilità solo di ciò che ha
detto, non di quello che avrebbe potuto dire; allo stesso tempo, però,
valida le proprie conoscenze ancorandole a un territorio mai autenticamente
abbandonato; infine, trova una scappatoia nei confronti dei perfezionisti,
lasciando aperta la possibilità di poter ridurre tutto a uno scherzo infantile.
La menzione dell’infanzia, però, è ironia amara, anziché giocosa: se, infatti,
il cantore col suo kantele rappresenta una
sorta di infante mai cresciuto, si tratta comunque di un orfano, cresciuto –
sostiene la voce narrante – da una madre surrogata a seguito di un prematuro
abbandono (Lönnrot, 1963l, vv. 572–574).
Ecco quindi sintetizzata nell’epilogo quella teoria della
formazione magica già anticipata nei canti precedenti e che pervade, quasi come
un tema costante, i Runi esaminati in questo
contributo:
· Ironia. Il
cantore (oppure: la cantrice) dichiara di essere come un bambino e, proprio
come i bambini, non andrebbe preso sul serio. Interviene quindi in chiave
autoironica, giocando sulla sospensione della realtà implicita nell’ascolto di
una narrazione mitica.
· Apologia. Il
cantore dichiara di essere un bambino e, poiché i bambini non andrebbero presi
sul serio, gli si devono perdonare gli errori di memoria e le piccole
imprecisioni.
· Solitudine
infantile. Il cantore dice di essere orfano e, come tale, non ha
ricevuto un’educazione che possa certificarne le competenze. È questo il reame
dell’informale per definizione, che trae forza dalla propria stessa
informalità: si tratta di una testimonianza che dichiara essa stessa di essere
idiografica a monte di una qualsiasi analisi possibile.
· Orfano
di madre, ma non di terra. Nonostante ciò, lo status di orfano è, a sua volta,
attestazione di un contatto più profondo tra il cantore e il territorio. Poiché
privato della madre, egli ha dovuto per necessità sviluppare una sorta di
conoscenza naturale e solo in seguito è stato adottato e accolto nuovamente
nell’ecumene.
· Essere
orfani come condizione umana. Nel dichiararsi orfano, però, il cantore non solo
attesta la propria specialità ed eccezionalità rispetto a coloro che sono stati
cresciuti con insegnamenti sistematici, ma si identifica anche con l’Uomo
inteso come anthropos [ἄνθρωπος] e, più nello specifico, con la condizione
esistenziale dell’essere “gettati nel mondo”.
Queste
nozioni articolano un posizionamento epistemico specifico e particolarmente
raffinato, che forse non può dirsi esclusivamente careliano semplicemente in
ragione dell’azione sistematizzante di Lönnrot
stesso. Ciononostante, le evidenze sopra esposte possono essere raccolte in una
teoria folk che propongo di ribattezzare fatalismo formativo e
che ritengo opportuno chiarire anche alla luce di alcune istanze della
filosofia occidentale.
Si
prende le mosse dall’esistenzialismo di Jaspers e Heidegger, i quali,
sintetizza Beck, osservano
“Assistiamo a tutto e tutto ci accade in base allo schema della situazione
storica e della tradizione in cui siamo ‘gettati’ (geworfen)
alla nascita, per caso. Nessuno vive mai nel mondo, ma solo nel suo
mondo, il quale è, allo stesso tempo, il mondo del suo tempo e della sua
nazione; ciò determina tutto ciò che possa desiderare, cui possa aspirare,
volere, fare e pianificare (entwirft): egli è ‘geworfener Entwurf’” (Beck, 1944, pp. 133–134)
Sembra
però che il Kalevala abbia dato a tutto ciò una soluzione con ampi
margini privi di asperità politiche. Se, infatti, come racconta Beck (Beck, 1944, n. 7), già
da Dilthey questo filone del pensiero europeo dichiarava il trionfo della
storia, il Kalevala si impone invece come problematizzazione sistematica
del rapporto tra Uomo, Storia e Natura:
(i)
Leggende come quella di Kullervo (Lönnrot, 1963f, 1963g, 1963h, 1963i, 1963j, 1963k)
mostrano come la parabola della vita umana sia affetta da un fatalismo storico
che dipende dalle azioni dei nostri predecessori.
(ii) I
canti più didascalici, invece (Lönnrot, 1963c, 1963d, 1963e),
mostrano come la via per l’età adulta sia tracciata dalla tradizione. Anche
qui, ritorna l’elemento storico, ma questa volta con una sfumatura più
spiccatamente normativa e, pertanto, etica.
(iii) Infine,
il Runo III (Lönnrot, 1963a)
insiste sull’insignificanza della formazione umana dinanzi a una temporalità
naturale che l’hybris di chi ormai è svincolato dagli originari processi
di creazione non può autenticamente comprendere.
Da (i) si
evince l’inevitabilità del percorso formativo dal punto di vista dell’individuo.
Costui sceglie, ma sceglie solo fino a un certo punto, poiché non è in grado di
tracciare unilateralmente la propria strada. Sarà pertanto la comunità a dover
essere sana se si vogliono crescere bambini sani.
Se (i) insiste
di più sul valore formativo (e ineluttabile) della storia, identificando
quindi un’intersoggettività intergenerazionale, (ii) mostra il valore formativo
(e prevalentemente ineluttabile, almeno nel contesto narrativo) della tradizione.
Piaccia o meno, essa è un imbuto e, come accade per le fanciulle traviate –
spesso involontariamente – dalle vicissitudini, al di fuori della tradizione c’è
solo la morte: la bella Aino si annega pur di non sposare Väinämöinen (Lönnrot, 1963b); la sorella di Kullervo si
annega dopo aver scoperto l’incesto (Lönnrot, 1963j); nel Vecchio
Kalevala, la figlia della Tenuta del Nord ricorda a sé stessa: “sarai una
donna completa nel momento in cui ti sposerai, con un piede sulla soglia e l’altro
sulla slitta del tuo pretendente” (Lönnrot, 1969, v. 15.111–113).
La terza
dimensione formativa (iii) non può dirsi “soprannaturale” nel senso etimologico
della parola – è, invece, fortemente influenzata dalla natura, benché quest’ultima,
sotto forma di divinità le cui azioni non sono sempre interpretabili, abbia in
qualche modo reso orfani e svincolati i propri figli, al punto che nessun Uomo
contemporaneo, nella narrativa del Kalevala, può dirsi saggio quanto il
saggio per definizione, cioè il primo uomo Väinämöinen. Quest’ultimo
personaggio è stato oggetto di vari tentativi classificatorî
che cercano di ricondurlo alla tassonomia del classicismo greco-romano o dell’Edda
norrena; come riporta Lars Lönnroth (Lönnroth, 1990, p. 88), lo stesso
Elias Lönnrot si chiese se Väinämöinen appartenesse
alla razza dei Troll o dei Giganti, che nell’Edda sono scacciati da
Odino. Somiglianza o meno con quello che Lars Lönnroth
identifica essere lo scontro tra Odino e il gigante Vafthrudnir,
lo scambio tra Väinämöinen e Joukahainen è riconosciuto come “didattico” (Lönnroth, 1990, p. 88). Invero, i
cantori del Kalevala non sembrano sentire l’esigenza di chiarire la “specie”
cui apparterrebbe Väinämöinen e, pertanto, è proprio nell’epica finlandese (e
non in quella norrena) che lo scarto tra creature antiche e Uomo contemporaneo
si configura quasi esclusivamente come uno scarto evolutivo, il quale, a sua
volta, determina uno scarto formativo: Väinämöinen ha sì un’origine mitica, ma
la sua eccezionalità deriva dalla singolare esperienza vissuta dopo essere
uscito dalle acque dove lo spirito del vento, Ilmatar,
lo aveva concepito. Pertanto, anche (iii), pur sancendo una separazione tra
primi Uomini e ultimi Uomini, riconduce la vexata quaestio epistemica a
una disparità nel percorso esistenziale dell’individuo, con Väinämöinen
che trionfa semplicemente perché ha goduto di una maggiore prossimità rispetto
all’epoca della creazione del mondo e, pertanto, è capace di quel tipo di
(in)canto che, richiamando la cultura pop arturiana del Ventesimo
secolo, si potrebbe ribattezzare “la Magia del Fare [the Charm of Making]”
(per questa espressione, cfr. Davidson, 2007).
5. Conclusione
Il fatalismo
formativo emerge come folk theory sull’educazione – intendendo, per folk,
sia l’origine “rurale” dei contenuti e delle forme del poema, sia la sua
rielaborazione come patrimonio nazionale finlandese.
L’ermeneutica
svolta in questo contributo evidenzia come, nel Kalevala, i passi sull’infanzia
evidenzino tre forme di determinismo agenti, a vario titolo, sugli individui:
(i) il peso del passato intergenerazionale; (ii) il carico delle tradizioni
contemporanee; (iii) la prossimità esistenziale dell’individuo a
determinati eventi, la cui forza attiva si perpetua attraverso memoria e
ripetizione. In aggiunta a ciò, il Kalevala affronta la nozione
di infanzia in maniera poliedrica: da un lato, alternando prospettive che la
vedono come un punto di forza (ad es., in virtù della propria genuinità) o di
debolezza (ad es., in ragione della mancata esperienza); dall’altro, riportando
vicende di bambini dal carico più o meno simbolico, le quali però riferiscono
spesso di traumi, abusi, situazioni di isolamento oppure di precoce
responsabilizzazione.
I punti di cui
sopra non costituiscono solamente il contenuto dell’universo narrativo del Kalevala,
ma appaiono come i presupposti per la stessa trasmissione di questo patrimonio
culturale – almeno in termini di letteratura orale: la formazione del cantore
potrebbe non discostarsi troppo da quella dei protagonisti. In termini di
patrimonializzazione nazionalista e post-nazionalista, tuttavia, il Kalevala
rischia di presentarsi come problematico. Nella sua tesi di laurea, Brugman (2016) riscontra
sostanziali discrepanze tra i contenuti del Kalevala e la situazione
della società finlandese contemporanea (si pensi, ad esempio, alla questione
del genere). Tuttavia, il suo elaborato riscontra una sostanziale armonia nella
riproposizione pop e post-moderna dei temi e dei termini del Kalevala
e la sua analisi limita la problematicità a una serie di contraddizioni
narrative intorno alla figura di Väinämöinen. Resta quindi la domanda: come può
una società che vanta una tradizione di parità di genere e ha fatto di questa
uno dei propri obiettivi politici fondamentali perpetuare un patrimonio
culturale in apparenza dissociato dai suoi valori?
Basandosi
sullo studio di Keinänen (1999), è possibile
rispondere che l’errore non sta in una qualche incoerenza della società
finlandese contemporanea, bensì nell’occhio stesso degli etnografi dell’Ottocento
e della prima metà del Novecento, i quali hanno sistematicamente espunto
(spesso inconsciamente o in maniera irriflessa) dalle loro raccolte e dai loro
studi tutti i riferimenti ad aspetti della femminilità che non si conciliavano
con la loro visione borghese della società. Ne è risultato un impoverimento “accademico”
dell’epica finlandese, ma ciò non esula che altri valori più affini alla parità
di genere, per quanto non presenti nel Kalevala, abbiano costituito un
solido ancoraggio per lo sviluppo successivo della cultura finlandese –
preservando, al più, le istanze più tragiche del Kalevala in funzione
catartica. Se confermato, ciò dimostrerebbe che l’esercizio di
patrimonializzazione è sempre storicamente situato e che esso risente di forme
di conoscenza collettiva che resistono a eventuali tentativi di riduzione da
parte del sistema educativo formale.
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