Educating
the Children of Malinche: Identity and Modernity
in Octavio Paz
Educare i figli della Malinche: Identità e modernità in Octavio Paz
Anita Gramigna
Università degli Studi di Ferrara, Italy – grt@unife.it
https://orcid.org/0000-0001-9147-8832
This article offers a pedagogical investigation about the educational
role that emerges from the effort, both cultural and political, of Octavio Paz,
one of the Latin American most famous intellectual of
the Twentieth century (Nobel Prize for the Literature in 1990). Our work was
focused, in particular, on his young teaching
experience in Merida (1927) and on his famous 1950 essay El labirinto de la soledad. The leitmotiv is represented by the complex topics of the Mexican
identity in the modernity and, above all, on its educational implicit beliefs (De Giuseppe, Fabian Mestas, 2015), but it extends towards a problematic
universality, that problematizes the sense of the history, the value of the
poetry, the essential presence of the alterity, the weight of the loneliness
and the solidarity research of the other. The ‘sons of Malinche’,
that are the result of the meeting between really different
words, have to be educated to freedom and to
responsibility. The aim is to offer a contribution to the pedagogical debate
around the topics of the mestizaje and the interculture, starting from an
unexplored source in the pedagogical environments.
Il presente scritto propone un’indagine
pedagogica sulla portata formativa che traspare nell’impegno, sia culturale che
politico, di Octavio Paz; uno degli intellettuali latinoamericani del Novecento
di più ampia fama (Premio Nobel per la letteratura 1990). Il nostro lavoro si è
concentrato, in particolare, sull’esperienza giovanile di insegnamento a Merida
(1937) e sul famoso saggio del 1950 El labirinto de la soledad.
Il filo conduttore è rappresentato dal complesso tema dell’identità messicana
nella modernità e soprattutto nei suoi impliciti educativi (De Giuseppe, Fabian Mestas, 2015), ma si allarga ad
un’universalità problematica, che mette in discussione il senso della storia,
il valore della poesia, l’imprescindibile presenza dell’alterità, il peso della
solitudine e la ricerca solidale dell’altro. I “figli della Malinche”, frutto
dell’incontro fra due mondi radicalmente diversi, vanno educati alla libertà e
alla responsabilità. L’obiettivo è di offrire un contributo al dibattito
pedagogico intorno ai temi del meticciato e dell’intercultura a partire da una
fonte poco esplorata negli ambienti pedagogici. L’approccio metodologico dell’analisi
è di tipo qualitativo e si inserisce in una cornice epistemologica ermeneutica
(Malavasi, 1992).
Identity, Modernity,
Mestizaje, Education, Interculture
Identità, Modernità, Meticciato, Educazione,
Intercultura
The Author declares no
conflicts of interest
April 23, 2024
June 3, 2024
June 21, 2024
Si
tratta di un verso del poema giovanile Entre
la piedra y la flor,
scritto tra il 1937 e il 1940, pubblicato nel 1941, di fatto rimasto incompiuto
benché il poeta sia tornato su di esso più volte nel corso della vita. Il ventitreenne
intellettuale fu per due mesi (11 marzo–10 maggio) insegnante a Mérida, Stato
messicano dello Yucatán, presso la Scuola Secondaria
Federale per Figli di Lavoratori, punta di diamante di un progetto di
“educazione socialista” di portata nazionale durante la presidenza di Lázaro Cárdenas (Vázquez de Knauth, 1969).
Un tempo breve
perché sentì il dovere, nello stesso anno, di partire per la Spagna e
schierarsi a difesa della Repubblica durante la sanguinosa guerra civile.
Riteniamo
significativo mettere a fuoco il brevissimo tratto di storia di vita di Paz,
dato che in esso si trova condensata l’immagine del suo essere, ad un tempo,
militante politico-sindacale, poeta impegnato, uomo innamorato, figlio unico
preoccupato per la madre vedova alla quale ha promesso di laurearsi in legge,
cosa che non avverrà dovendo dedicare tutto sé stesso alla vocazione di poeta ribelle. Ma, qual è l’oggetto del “silenzioso
furore” divorante? Si tratta di una pianta: l’henequén, agave
tipico della regione, che diede vita per anni ad una fiorente industria
tessile, soprattutto grazie allo sfruttamento degli indigeni locali ridotti ad
uno stato di semi-schiavitù. Poi quando non si guadagna più, in quanto il
mercato viene invaso dal tessile artificiale, si chiude ed i lavoratori
diventano un problema per lo Stato, oltre che soggetti di un destino tragico. L’anticapitalismo
di Paz si caratterizza per una critica continuativa, quasi ossessiva, al denaro
e al suo uso superficiale, anzi, per certi aspetti, “criminale”.
Torniamo,
per ora, al ruolo di Primo Segretario Scolastico; al di là del titolo pomposo,
si trattava di un incarico governativo ai primi gradini del servizio pubblico,
da non sottovalutare a quel tempo. Ma per il giovane intellettuale contava di
più visitare un mondo sconosciuto, lontano tanto dallo spazio geografico della Capitale,
quanto dal tempo presente. Era in quei luoghi la patria mitica dei maya: la
stessa parola Yucatán gli richiamava alla memoria il caracol, lumaca di mare e, tuttavia, simbolo dell’infinito
nella cosmovisione arcaica di quel popolo (Paz, 1994,
p. 21). Nei suoi ricordi, l’autore parla di una doppia mitologia
affascinante: da una parte l’eredità culturale e dall’altra il sogno del
progetto socialista, rafforzato dalla creazione, nel 1936, del Dipartimento di
Azione Sociale e Culturale di Protezione Indigena. Purtroppo, i tentativi di
riforma agraria e, più in generale, le scelte politiche di Cárdenas
non ebbero successo anche a causa di una burocratizzazione esasperante delle
procedure pubbliche.
Il
giornale locale Diario del Sureste diede risalto
alla presenza del poeta in città, e del compito che era stato chiamato a
svolgere, già dal giorno successivo al suo arrivo. E, a destare interesse è la
presenza di un gruppo di giovani intellettuali, uomini e donne, che collaborano
con entusiasmo al progetto educativo con diverse competenze: letterati,
archeologi, musicisti, antropologi. Tutti fermamente contro la cosiddetta “casta
divina”: proprietari terrieri e ricchi commercianti che guardavano con
inquietudine l’arrivo dei bolscevichi da Città del Messico, soprattutto
perché gettavano i semi del socialismo nelle scuole, tra i figli di quei
lavoratori che erano stati obbedienti ai loro comandi e docili all’asservimento.
Paz denuncia l’ostentazione di una ricchezza insolente in netto contrasto con
la miseria degli indios, la considera “indecente” al pari del razzismo, che
separa nettamente i bianchi da tutti gli altri, segnando una gerarchia che pone
gli abitanti originari all’ultimo posto, privati della loro identità e
discriminati entro i confini della loro stessa terra. Ha scritto Aguirre Lora:
“Il contatto permanente dei maestri con le comunità indigene fu utile per conoscere le loro carenze e necessità, e produsse altre forme di intervento educativo, allo stesso modo motivò la denuncia costante della situazione di marginalità e sfruttamento in cui ancora vivevano gli indios” (Paz, 2005, p. 161).
Gli
studenti che si presentano alla scuola - una quarantina - sono figli di operai o
di famiglie contadine che vivono del prodotto di terreni comunitari, dormono su
di una amaca, hanno poco cibo e di scarsa qualità, non hanno a disposizione che
qualche penna e una sola macchina da scrivere. A loro il nostro autore insegna
con passione storia e letteratura sentendosi un “moschettiere della Rivoluzione”.
Nel tempo libero viaggia nelle zone archeologiche e visita le aziende tessili
ormai in dissesto: “Ognuno dei giorni che vissi là fu una scoperta e, spesso,
un incantamento. L’antica civiltà mi sedusse ma anche la vita segreta di
Mérida, metà spagnola e metà indigena” (Paz, 1996, p. 22). La
partecipazione alla vita politica, invece, si mostrò ben presto ricca di
tensioni e contrasti quando, ad esempio, confrontandosi con la sinistra
radicale, non mancò di affermare l’impossibilità di subordinare il gusto
poetico della libertà al “realismo socialista”. In altra occasione, non mancò
di condividere invece la posizione ufficiale degli intellettuali della decade
rossa, accettando la visione strategica che la causa del socialismo non
fosse riducibile a problema politico-economico, in quanto si trattava di un
complesso problema culturale o, meglio, del più grande problema umano. Egli
condivide la spinta propulsiva dei fronti popolari, per la svolta di
democratizzazione che rappresentano nel mondo occidentale, ma quando si reca in
Spagna per combattere contro il franchismo, in difesa della Repubblica, ben
presto individua nello stalinismo una forma di autoritarismo di fatto
dittatoriale, ed entra in contrasto con l’élite comunista del suo Paese d’origine,
schierata ideologicamente da quella parte.
Paz
mantiene fede all’ideale di un’educazione come pratica rivoluzionaria, dando
continuità a posizioni assunte nell’adolescenza tra il 1930 e il 1931, ma l’esperienza
d’insegnamento impone una riflessione:
“Come accendere l’animo poco combattivo dei nostri alunni, la maggioranza composta da artigiani, donne di servizio, operai senza lavoro e gente che ha cercato di venire dalla campagna per trovare un’occupazione? I nostri alunni non cercavano una dottrina per cambiare il mondo bensì pochi elementi di conoscenza che gli aprissero le porte della città” (Paz, 1990, p. 771).
Eppure,
rimane la convinzione che la parola poetica possa cambiare il mondo, per questo
egli torna più volte sul poema e i suoi temi centrali (Paz, 1956, 1968, 1976):
la natura, il conflitto sociale, il mitico mondo maya. Paz ritiene che il poeta
abbia pieno diritto di riscrivere le proprie opere, in una forma che si
potrebbe definire auto-educativa, pur nella consapevolezza che non si possono
cancellare le versioni precedenti e, in ogni caso, senza accettare l’accusa di revisionismo dei detrattori quasi mai in
buona fede. Si può dire, come Rubén Medina che nel poema del 1941 si denunciava
“lo sfruttamento del contadino yucateco” mentre in quello
del 1976 compare “una accettazione fatalistica della realtà degradata”? (Rubén
Medina, 1998, p. 16). Per il nostro autore la poesia è qualitativamente
superiore alla storia, non è soggetta alle sue contingenze e, per questo,
crediamo il contadino sfruttato sia sempre lo stesso della realtà
degradata: un silenzioso figlio della Malinche che accetta quella maternità
e non sogna, pateticamente come tanti meticci, di essere bianco.
Paz
ha ripreso da Nietzsche il metodo d’indagine genealogica e lo applica alle
figure cardine della Conquista, le quali non sembrano appartenere alla storia
ma al mito nella valutazione popolare. Cortéz incarna
il mito negativo, un vero e proprio capolavoro del teatro storico-mitologico, dal
quale si deduce che l’odio contro di lui non è tanto estendibile alla Spagna,
quanto piuttosto alla contingenza della stessa incerta identità messicana (Paz,
1994, p. 200). In questo quadro la Malinche rappresenta molto di più della
ragazza india offerta come tributo a Cortéz da parte
dei Maya del Tabasco dopo la sconfitta. Amante e interprete del conquistador,
mette al mondo un figlio: il bastardo simbolo del Messico meticcio. Traditrice
delle proprie origini o facilitatrice di un difficile dialogo tra vincitori e
vinti? Carlos Fuentes, famoso scrittore che ha riconosciuto in Paz un maestro,
racconta del suo parto nella dimensione di una scissione insanabile:
“...esci figlio della fottuta (chingada), adorato figlio mio […] figlio dei due sangui nemici […]. Contro tutti dovrai lottare e la tua lotta sarà triste perché lotterai contro una parte del tuo proprio sangue” (Paz, 1971, p. 114).
Lo
studio genealogico di Paz si sofferma in particolare sulla parola chingada e sull’estensione semantica del termine. Il
verbo chingar significa lacerare,
violare, fottere, più in generale esercitare violenza sull’altro. L’identità
messicana si trascina dalla Conquista in poi il pesante fardello di una
violenza che si è tradotta in solitudine:
“La solitudine, fondo dal quale germoglia l’angustia, è iniziata il giorno in cui ci siamo distaccati dall’ambito materno e siamo caduti in un mondo strano e ostile. Siamo caduti; e questa caduta, questo saperci caduti, ci rende colpevoli. Di cosa? Di un delitto senza nome: l’esser nati” (Paz, 2001, p. 217).
Dall’angoscia,
che trova le proprie radici nella violenza originaria di un’esistenza
soggiogata, si può uscire solo tramite la formazione liberatrice, in grado di
rendere esplicito il dono della differenza, che implica la dignità del riconoscimento
(Ricoeur, 2005, p. 197).
È
un’immagine significativa, oltre che bella a nostro parere, quella della cura
educativa della solitudine, ben diversa dal concetto di curare che prevede
la medicina con le sue dosi quantitative. Nel caso in oggetto si tratta di un
prendersi cura, che è compito specifico dell’intellettuale nei confronti del
proprio popolo attraverso lo strumento di una parola carica di verità; del
resto, diceva Paulo Freire che “pronunciare la parola autentica significa
trasformare il mondo” (1972, p. 105). Preso atto, da parte del nostro personaggio,
di un dato che può far discutere: “manchiamo di un eroe e di un mito” (1988, p. 278),
poiché fallimentare è stata l’esperienza di Zapata così come quella della
Rivoluzione, diventa compito poetico esprimere un nuovo mito fondativo e
intervenire sulla solitudine come residuo del passato, per generare la
consapevolezza della contemporaneità messicana con gli altri popoli.
Quando
riflette sulla sua poetica, Paz opera un taglio netto tra tecnica e creazione,
utensile e poema: “La tecnica è ripetizione che si perfeziona o
si degrada; è eredità e cambiamento: il fucile sostituisce l’arco. L’Eneide non
sostituisce l’Odissea” (Paz, 1990). Il poeta sa che la propria tecnica non si
può trasmettere poiché è invenzione, ed ha a che fare più con l’immaginario che
con la ragione. A sua volta lo stile è sì l’espressione del modo di
sentire di un’epoca, per il poeta, però è solo il “punto di partenza”; dato che
il prodotto della sua arte, come di tutte le altre, è unico e irripetibile. Poesia,
musica, danza, pittura, scultura, ecc., realizzano opere attraverso un
linguaggio peculiare che, pur nella differenza, esprime unità e relazione
aperta tra l’artista e il fruitore del suo potere comunicativo, che non si
richiama al principio dell’utile. Il famoso saggio L’arco e la lira
inizia così: “Tre domande: esiste un dire poetico – il poema – irriducibile a
ogni altro dire? Cosa dicono i poemi? Come si comunica il dire poetico?” (Paz, 1956).
Pare lampante la necessità di far comprendere, con evidente intento formativo,
che esiste una qualità peculiare della poesia, la quale è libera e autonoma
rispetto ad altre modalità di linguaggio (scientifico, filosofico, ecc.). Ma,
se si tratta di formare alla consapevolezza dell’identità, bisogna capire cosa
i poemi vogliono dire ed è rilevante porsi la questione forte del come
comunicare la sapienza poetica. Non ci sembra un caso che l’autore non impieghi
il termine spiegare ma lasci intendere, da buona tradizione umanistica, il
valore del comprendere.
La
poesia, che in lui risente degli influssi del surrealismo e dell’esistenzialismo,
ha il compito di indagare sull’uomo e il suo destino, per questo non può
esentarsi dalla critica, dalla passione rivoluzionaria ed erotica, dalla presa
di posizione politica. E, tuttavia, non possiamo dimenticare che la solitudine
è un labirinto dal quale è difficile uscire, per questo è necessario
rimanere fedeli ad un fondamento olistico, ben presente nella cultura arcaica
maya, che il poeta fa proprio parlando di ritmo cosmico, dove la
ciclicità del tempo diviene elemento di messa in discussione del tempo lineare occidentale,
sempre più scandito nella logica che lo accosta inesorabilmente al denaro. Nel
ritmo cosmico la storia si caratterizza nella dimensione dell’alterità
connaturata al nostro essere (Paz, 2001, p. 391), che dobbiamo riconoscere
per uscire dall’egocentrismo; ma ancor più dobbiamo imparare a riconoscere il
significato della parola poetica capace di cogliere l’istante nel suo
valore trascendente e, inoltre, nella prospettiva di una lettura analogica
della realtà. Molto interessante, da questo punto di vista, il modo d’interpretare,
da parte dell’autore, il modello espositivo di Lévi-Strauss che “oscilla
continuamente fra il concreto e l’astratto, l’intuizione diretta dell’oggetto e
l’analisi: una mente che vede le idee come forme sensuali e le forme come segni
intellettuali” (Paz, 1967, p. 11). In qualche modo si può considerare che
diviene un punto di riferimento, al pari di Machado come si può dedurre da una
sola semplice frase: “L’uomo vuole essere altro. Ecco ciò che è specificamente
umano” (Paz, 1981, p. 278).
I
vari e profondi interessi culturali di Paz, dalla poesia alla politica, dalla
filosofia all’antropologia, dalla storia alla psicanalisi, hanno avuto come
fulcro di attenzione la modernità, trattata in modo originale, a partire dal
drastico rifiuto di termini per lui ambigui come post-modernità. È il caso di
considerare qui che non concordiamo affatto, pur ritenendoci progressisti, con
l’immagine di intellettuale reazionario trasmessa dall’intellettualità
latino-americana di sinistra, fortemente ideologica e scarsamente dialettica.
La modernità, dice il poeta, è concetto tipicamente occidentale, estraneo ad
altre civiltà, imperniato su alcuni termini chiave, come evoluzione,
cambiamento, culto del futuro. Vi è anche la parola rivoluzione come incessante
proiezione in avanti, così come la parola critica che finirà per rivolgersi
alla modernità stessa, si pensi alla Scuola di Francoforte (Horkheimer &
Adorno, 1947). In una sintesi del tutto personale Paz critica il processo
rivoluzionario per una sostanziale incapacità di uscire da un finalismo utopico
poco propenso a leggere il presente; mentre è proprio questo che si rende
necessario, come nel caso del 2 ottobre 1968, fatto storico ma anche fatto
simbolico nell’ottica arcaica del sacrificio rituale, già delineato dall’autore
tempo prima in una celebre espressione: “se per gli spagnoli la conquista è
stata un’impresa, per gli indigeni è stato un rito, la rappresentazione umana
della catastrofe cosmica” (Paz, 2001, p.391).
È
ambasciatore il India quando avviene la strage studentesca di Piazza delle Tre
Culture a Tlatelolco (Taibo, 2021), zona centrale di Città del Messico, e immediatamente
rassegna le dimissioni per protesta contro il governo. A dieci giorni dall’inizio
delle Olimpiadi, circa quindicimila studenti si erano riuniti in quella piazza
per protestare contro le scelte del governo e la mancanza di libertà, lo slogan
era “non vogliamo olimpiadi, vogliamo la rivoluzione!”. Alla fine della
manifestazione le forze dell’ordine iniziarono a sparare uccidendo tra le 200 e
le 300 persone, mentre i feriti e gli arrestati furono migliaia. Paz considera
che gli studenti abbiano opposto al “fantasma implacabile del futuro”, così
caro all’agonizzante modernità, “la realtà spontanea dell’adesso”, ponendo al
centro la parola proibita, “la parola maledetta: piacere” (Paz, 1979, pp. 27–28).
Come si può far fronte a questa solitudine tragica? Prendendo atto che tale è
la condizione del sacrificato lasciato di fronte al proprio destino di
insignificanza, elemento di mera quantità che il potere, dagli aztechi agli
spagnoli, fino ai rappresentanti politici di un partito che avrebbe dovuto richiamarsi
alla rivoluzione, espone agli occhi degli altri, potenziali vittime future.
Perché lo fa? Per ingraziarsi gli dèi, per imporre una nuova religione, per
spaventare e rendere docili le masse indigenti.
Il
poeta non si accontenta di interpretazioni socio-storiche o psicologiche,
ritiene suo compito richiamare i miti sacrificali aztechi che si reincarnano
nella Conquista con rituali che si ripetono nella guerra d’indipendenza, poi
nella rivolta di Zapata, fino alla strage del 1968. Così la piramide
preispanica diventa simbolo inquietante del sangue versato e della solitudine
storica di chi si trova in ostaggio della follia del potere. La piramide è un’immagine
eloquente del Messico gerarchico, incarna la visione del mondo di chi sta
sopra: “degli antichi dei e dei loro servitori”, ma anche con continuità,
denuncia Paz, di “viceré, altezze serenissime e signori presidenti”. Poi la
considerazione di una necessità critica improrogabile: “E anche quello dell’immensa
maggioranza, le vittime schiacciate dalla piramide o sacrificate nella sua
piattaforma-santuario. La critica del Messico inizia dalla critica della
piramide” (Paz, 2001, p. 403). Il percorso di
liberazione verso l’accettazione dell’identità, passa attraverso l’assunzione
di un atteggiamento critico che ha profonda valenza educativa. L’esempio più
significativo lo si coglie nel mito del ritorno di Quetzalcóatl, che veniva
raccontato anche nelle nostre scuole: gli indigeni vedevano negli spagnoli l’incarnazione
simbolica della divinità, di cui era stata profetizzata la ricomparsa in un
tempo indefinito, che senso aveva combatterli? Paz osserva che nei testi
indigeni non vi è cenno a tale profezia, più probabile che Cortés nelle sue Cartas de relación
inviate in patria abbia inventato il mito per giustificare il proprio operato.
È in tale direzione che bisogna orientarsi, nella convinzione che sia
necessario rivedere la distanza tra ciò che si voleva essere e ciò che si è
stati come nazione: “Un Messico che, se sappiamo nominarlo e riconoscerlo, un
giorno riusciremo a trasfigurare: cesserà di essere quel fantasma che scivola
nella realtà e la trasforma in incubo di sangue” (Paz, 2001, p. 391).
In
una visione più ampia, il poeta valuta la crisi di significato della modernità
a livello globale e ritiene la solitudine
universale quale banco di prova per vedere emergere una nuova forma di
civiltà. È la grande occasione di realizzazione piena di un Messico nuovo e
differente:
“Se ci strappiamo quelle maschere, se ci apriamo, se, finalmente, ci affrontiamo, inizieremo a vivere e pensare davvero. Ci attendono nudità e abbandono. Lì, nella solitudine aperta, ci attende anche la trascendenza: le mani di altri solitari. Siamo, per la prima volta nella nostra storia, contemporanei di tutti gli uomini” (Paz, 2001, p. 340).
Si
tratta di un promemoria formativo sul quale è necessario indagare con una certa
attenzione; intanto la metafora della maschera che va strappata. Il
messicano per Paz, come vedremo in seguito, si è costruito un volto finto
dietro il quale nascondere le proprie paure, tipiche di chi avverte un senso di
inferiorità non giustificato. Con il proprio vero volto ognuno deve rendersi
disponibile ad aprirsi, sia pure per confrontarsi talora in modo conflittuale
con gli altri: solo così si può vivere e pensare con piena dignità.
Nell’accettazione della solitudine, come prova di apertura al mondo, vi è la
possibilità - che ci trascende - dell’incontro con l’altro; di qui, alla fine,
la conquista della contemporaneità tra tutti che è comunione.
La
parte conclusiva del nostro percorso vorremmo iniziarla con una citazione che
ci è sembrata profetica fin dalla prima lettura:
“Abbiamo vissuto nella periferia della storia. Oggi il centro, il nucleo della società mondiale, si è disgregato e tutti noi ci siamo convertiti in esseri periferici, perfino gli europei e i nordamericani. Tutti siamo ai margini perché non vi è centro” (Paz, 2001, p. 206).
Non
solo i messicani, quindi, ma tutti noi siamo diventati periferici in quanto non
vi è più un centro, si potrebbe dire che è l’effetto globalizzazione. Una
speranza che si è mostrata debole e presuntuosa, come tutte quelle che hanno
illuso l’umanità su basi tecnologiche quando si è scambiato il mezzo per il
fine. Se potesse rivivere, dopo un quarto di secolo, Paz vedrebbe un mondo più disgregato
di quello che ha conosciuto, senza più alcuna ipotesi rivoluzionaria a scaldare
gli animi, nemmeno di una minoranza. Vedrebbe che la sua diffidenza nei
confronti della tecnologia mantiene in pieno la sua ragion d’essere, di fronte
ad un’umanità dell’Occidente che si lascia irretire dalla socializzazione
fasulla su internet, nonché dall’uso sfrenato e incontrollabile della telefonia
mobile, e non si tratta solo dell’altra America, quella consumista,
interventista ed economicamente dominante, poiché tutti devono essere
soggiogati e omologati dagli stessi strumenti di persuasione. Non compare qui
solo il sonno della ragione, ma un intorpidimento della volontà e delle
passioni, intollerabile per chi ha affermato che la libertà è tale quando la si
esercita ed è una possibilità autentica per l’uomo che sa dire no al potere.
Eppure di rivoluzione dobbiamo parlare, individuando
un personaggio chiave come Emiliano Zapata, con il quale l’autore ha un legame
profondo, a partire dal fatto che suo padre, avvocato, ne fu rappresentante
negli Stati Uniti dopo la rivoluzione del 1910. Anche il nonno del resto era
stato progressista, tra i primi intellettuali a battersi per il riconoscimento
civile degli indios. Zapata incarna il significato di rivoluzione in due modi
distinti: come trasformazione del presente e come ritorno alle origini. Egli,
infatti, si batte per il ripristino del calpulli,
la proprietà comunitaria della terra di tradizione indigena: “la Rivoluzione è
stata in primo luogo la scoperta di noi stessi e un ritorno alle origini” (Paz,
2001, p. 314), ma quel ritorno è un atto che pretende il suo farsi
presente. Il rischio consiste, come considerava Ortega y Gasset (1930), nella
razionalizzazione della realtà, con la pretesa di ristabilire un ordine che gli
oppressori hanno voluto cancellare e di mettere al centro una giustizia violata
dall’interesse del più forte. Quando desta scalpore non solo locale l’insurrezione
zapatista del 1994 in Chiapas, Paz critica duramente il subcomandante Marcos e
sul quotidiano La Jornada scrive: “È una
ribellione irreale, condannata al fallimento. Non corrisponde alla situazione
del nostro paese, né alle sue necessità attuali” (Paz, 1994). In un breve arco
di tempo la lettura attenta dei proclami di Marcos produce un cambiamento d’opinione
radicale, che gli fa onore, l’autore coglie una sensibilità sincera nel
presentare le richieste degli indigeni e un’attenzione autentica ai loro
sentimenti, una sorta di vocazione degna di stima.
Per Paz quella di Zapata, invece non è stata
una ribellione ma, di fatto, una rivolta, quindi non una rivoluzione, ed è una
differenza non trascurabile: “la nozione di rivolta si inserisce con
naturalezza nell’immagine dell’esplosione storica, una rottura che è, anche, un
tentativo di riunione di elementi dispersi. Solitudine e comunione” (Paz, 1996,
p. 37). Manca quell’esigenza di razionalità che nella storia ha lasciato
segnali inquietanti, non a caso l’autore ha preso rapidamente le distanze dallo
stalinismo durante la guerra civile spagnola. Il ribelle ha nostalgia di un tempo
passato, che immagina ciclico e, pertanto, invece di aspettarlo si impegna per
renderlo presente nella lotta contro il tiranno. Non ha in mente un modello di
società futura, anzi resiste – quando è messicano – nell’esigenza di tornare
alle origini e togliersi finalmente la maschera cui l’ha costretto “l’universalismo
europeo”.
Il
tema della maschera è di grande interesse in quanto nasce per rispondere alla
domanda sull’eventuale relazione tra rivoluzione e mito. L’analisi dell’autore
è complessa e attraversa vari aspetti ma, senza dubbio, per chi ha subito in
profondità il fascino del Messico da tanti anni, è la festa l’elemento
cruciale della relazione, anche perché si inserisce nell’ambito del sacro e, in
essa, la maschera gioca un ruolo di primo piano, basti ricordare le immagini
affrescate dei guerrieri aquila e dei guerrieri giaguaro, oppure
gli abiti sacerdotali durante le pratiche del sacrificio. Queste erano già “maschere
sociali”, ma nel coinvolgimento della vita quotidiana hanno finito per
rappresentate un fattore identitario o, piuttosto, una fuga dall’identità, un
accasarsi nella periferia o nella marginalità della storia. El Día de los Muertos è una festa in maschera, i turisti corrono affascinati
dal magico e dal macabro, ma sfugge ai più il senso dei travestimenti, anche
agli influencers che copiano e ripropongono al loro gregge pratiche
inconsuete e “divertenti”. Il primo di novembre - non il due come da noi – si
celebrano gli spiriti di quanti se ne sono andati. Vi è allegria e nodo alla
gola, qualcosa che stupisce lo straniero ma, soprattutto, vi è la convinzione
dell’arcana presenza dei defunti che partecipano alla loro festa. Nel
vedere persone mascherate da scheletri o da fantasmi si ha l’impressione di una
volontà popolare che vuole esorcizzare, fingere di non avere paura, mascherare
l’inquietudine.
Ma la questione per Paz è assai più dura: la Malinche
rappresenta il mito della donna violentata e, di conseguenza, i figli portano
la maschera di chi vuole nascondere le proprie origini e, tuttavia, vi è
qualcosa di più grave che si è insediato nell’immaginario popolare: il
tradimento. La Malinche abbandona il suo popolo per seguire lo straniero e,
pensando agli straordinari murales di Diego Rivera al palazzo del Governo nel
cuore di Città del Messico, emerge il suo volto come estraneo alla massa umana
che la circonda, in una sorta di simbolica processione della Conquista. Diversa
la sua fisionomia, il colore della pelle e degli occhi, enigmatico lo sguardo
che sembra in parte smarrito e, in parte, orientato verso un mondo altro. La
fase rivoluzionaria, tra il 1910 e il 1929, riesce a togliere la maschera e a
produrre gli effetti di un riconciliarsi: “ricerca e momentaneo ritrovamento di
noi stessi, il movimento rivoluzionario ha trasformato il Messico” (Paz, 2001, p. 320).
Bisogna saper cogliere la portata formativa di tale ricerca e di quel
ritrovarsi; un formarsi che incide sulla vita dei campesinos poiché
infonde in loro la consapevolezza di un compito che può trasformare l’esistenza
quando si è imparato a combattere, anche solo con il machete, contro i cannoni.
È in questo modo, tramite la negazione e rottura con il passato che si può
uscire dall’esilio della solitudine.
E noi che siamo l’altro Occidente, spesso caduti nell’illusione
di non essere periferici, quale maschera abbiamo indossato? La questione verte
sulla relazione essere-apparire che è viva già nell’antichità classica.
Nietzsche ne coglie un aspetto fondamentale nel divenire dionisiaco del mondo
arcaico, dove il caos incute paura e occorre difendersi da una natura ostile,
ecco allora la necessità della finzione. Fink ha considerato che non si
può combattere con il lavoro lo strapotere magico dei demoni che ci assillano,
occorre un’altra strategia: mutare la loro ostilità in amicizia attraverso il
gioco: “La maschera del giocatore acquista essa stessa un potere magico” (Paz, 1991,
p. 118). La maschera, quindi, non ha lo scopo di ingannare gli altri nel
mostrarsi sotto altra forma, ma si propone in origine come incantesimo o,
richiamandoci a Fink, “gioco culturale mitico”. Sta nel mito e nella sua
lettura in chiave magica il punto d’incontro tra i due occidenti separati dall’Atlantico; ma ciò non è tranquillizzante. Quando
Foucault parla di “gioco di maschere” siamo nel contesto della “morte dell’uomo
e ritorno della maschera” (Paz, 1980, p. 412) e quel gioco, nell’interpretazione
di Ricoeur, è rischioso perché si insinua nella dialettica tra “destino e
libertà” che indica con chiarezza il nostro essere periferici al di là di
facili presunzioni (Paz, 1972, p. 486).
Se vogliamo usare i due termini impiegati dal filosofo francese,
per concludere la nostra riflessione su Paz che si focalizza sulla tecnica,
potremmo argomentare che essa è un destino ma ha ben poco a che fare con
la libertà. Per lui il “crepuscolo della modernità” è iniziato con l’esplosione
atomica, simbolo del potere della tecnica che ha posto fine al valore della
critica. Tra i danni arrecati all’umanità il progressivo distanziamento dal
sacro e dal mitico e un’esaltazione del progresso priva di ogni dubbio sul
futuro: “oggi il tempo
non è più sinonimo di progresso bensì di repentina estinzione” (Paz, 1973, p. 14).
Una paradossale messa in crisi del tempo quindi, secondo la visione
pessimistica dell’autore, che esalta il futuro ma ne mette in discussione l’esistenza
attraverso una pratica distruttiva. La crisi climatica attuale è in perfetta
continuità con quel paradosso e non si configura alcuna strategia educativa a
vasto raggio capace di proporre un’inversione di tendenza. Paz sostiene che si
poniamo la domanda sbagliata: dove andiamo? Mentre dovremmo interrogarci
in altra maniera: in che tempo viviamo? La crisi del tempo è conseguenza
di un’immagine del mondo, sia nella sua forma sensibile sia nella sua portata
cosmica, negata dalla tecnica che tende ad innalzare le proprie immagini,
sempre deboli perché destinate a soccombere rapidamente nell’incalzare
incessante della novità (Gobbo & Tallé, 2010).
Così la tecnica si pone come anti-idea, o nuova idea universale, che
sradica l’idea mitica del mondo radicandosi come unica volontà di potenza.
Naturalmente
essa, simbolo della modernità non può essere cancellata o abolita: “Non
possiamo (né dobbiamo) prescindere dalla tecnica e dalla scienza […] il
problema consiste nell’adeguare la tecnologia alle necessità umane e non al
contrario come è accaduto sin ora” (Paz, 1984, p. 66). Si tratta in
particolare di non subirla come entità che detta le regole per uniformare ogni prospettiva
culturale ai propri dettami, ad esempio la bellezza non più come forma ma come funzione.
La sua solidità strumentale rassicurante nasconde con abilità l’incapacità di
creare miti e di non possedere la creatività per produrre simboli, finendo per
cancellare quell’alterità che risulta indispensabile al nostro essere. Vi è una
strada per riaffermare il ruolo dell’alterità e dare significato al reale,
visto che la negazione ha cessato di esercitare il suo sforzo creativo? (Paz, 1983,
p. 361). La strada individuata dall’autore è l’erotismo, una forza
autonoma e propulsiva che nasce, muore, rinasce nella storia ma è irriducibile
ad essa. Esso è in grado di esplicarsi come metafora e analogia che alimentano
la parola poetica e la sostanziano di speranza.
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