The educational metaphor of the tribe
La metafora formativa della tribù
Camilla Boschi
Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Ferrara – camilla.boschi@edu.unife.it
https://orcid.org/0000-0001-5083-5952
ABSTRACT
Tribe is a word that comes far away which means a human whole characterized by traditions, costumes, and common languages. The term, in time, has also been used as a metaphor for certain group modes, or to indicate the identity characters of the postmodern. Our work, having as references two indigenous tribes of Latin America in which we carried out a field research over the years, consists in comparing the differences between the historical authenticity-cultural of a social group of great tradition and the metaphor that implies forms of aggregation quite different as those that are consumed in the network among our young people. The epistemic framework is hermeneutic, the methodological approach is qualitative. These reflections are based on ethnographic research carried out in Latin America by the EURESIS research group over the last 15 years, as well as epistemological analysis of the new digital spaces.
Tribù è una parola che viene da lontano ed ha avuto un significato indiscutibile per indicare un insieme umano connotato da tradizioni, usanze, credenze e lingua comuni. Il termine, nel tempo, è stato impiegato pure come metafora di certe modalità di gruppo, oppure per indicare i caratteri identitari del postmoderno. Il nostro lavoro, avendo come punto di riferimento due tribù indigene dell’America Latina nelle quali abbiamo nel corso degli anni svolto una ricerca di campo, consiste nel confrontare le differenze tra l’autenticità storico-culturale di un gruppo sociale di grande tradizione e la metafora che implica forme di aggregazione del tutto diverse come quelle che si consumano in rete fra i nostri giovani. Lo sfondo epistemico ha un carattere ermeneutico, l’approccio metodologico con cui si sono condotte le riflessioni è di tipo qualitativo. Tali riflessioni si basano su ricerche etnografiche condotte in America Latina dal gruppo di ricerca EURESIS nel corso degli ultimi 15 anni, nonché dall’analisi epistemologica dei nuovi spazi digitali.
KEYWORDS
Tribù, Metafora, Identità, Metodologia Qualitativa, Epistemologia
Tribe, Metaphor, Identity, Qualitative Methodology, Epistemology
CONFLICTS OF INTEREST
The Author declares no conflicts of interest.
RECEIVED
January 30, 2024
ACCEPTED,
April 24, 2024
Gli Yaquim del Sonora (Messico), si definiscono tribù ma con un taglio prospettico lontano dai criteri etnografici, essi si sentono tali per una precisa coscienza della differenza non solo culturale ma di identità comunitaria. Per loro la memoria ha un significato profondo, dato che seleziona nella tradizione ciò che è degno di memoria; ad esempio, il ricordo di aver tracciato con la lancia una linea di demarcazione sul terreno, nel lontano 1523, dicendo ai nemici bianchi che li volevano colonizzare che sarebbero morti oltrepassando quel segno. Ma accettarono che due Gesuiti disarmati potessero risiedere all’interno dei confini.
La tribù Yaqui ha difeso con la forza della disperazione la propria terra e, nel corso della presidenza di Porfirio Diaz[1], ha subito la deportazione verso la parte opposta del Messico, Yucatan e Quintana Roo. Un tentativo di sterminio cui la comunità ha resistito con determinazione. Già dal primo contatto stupisce la ricchezza culturale della loro cosmovisione:
“Il sapere per gli Yaquim è saggezza, una relazione interattiva con il mondo, tramite la conoscenza dell’energia divina che lo connota e che caratterizza, allo stesso modo, tutti gli elementi del mondo naturale e gli oggetti quotidiani” (Gramigna, 2016, p. 29).
Per questo, con parole nostre provenienti da un’altra cultura, possiamo affermare che tale tribù è una comunità educante Ma va aggiunta un’immagine indimenticabile, relativa al futuro come qualcosa di cui avere memoria. Essi
“continuano ad immaginare un mondo di giustizia e di partecipazione responsabile al bene comune; questo il destino altro di cui avere memoria, anche se solo sognato nel passato tra tante vicissitudini e sofferenze, senza cedere a nostalgie, utopie, fantasie prive di dignità” (Righetti, 2022, p. 158).
La memoria del futuro è estranea alla nostra logica, ma rappresenta una forma di resistenza con cui sarebbe bene confrontarsi per chi ritiene che esista solo il presente. Lo spazio yaquim riveste una struttura mitica: gli avi partecipano alla vita dei posteri con continuità e “parlano” ai loro discendenti quasi sempre in sogno. Nella popolazione è forte la convinzione che negli otto villaggi, del deserto del Sonora, che raccolgono l’etnia nel suo complesso, vi sia una continuità del toosa (spazio sacro ma anche territorio di un mondo mitico arcaico che si rinnova) grazie alla disponibilità costante degli abitanti a vivere in armonia. Vi è un clima di attenzione reciproca e la pratica dolce di trasmettere, oralmente ai bambini e ai giovani, narrazioni che aiutano ad entrare in relazione con gli avi e con una tradizione inscalfibile.
Si apprende a seguire una strada per giungere alla saggezza assieme agli altri, non in solitudine, per scoprire l’armonia tra spirito e corpo. Si tratta di un con-fondersi e
“rappresenta una tras-formazione verso la trascendenza, che non è da intendersi, come nella nostra tradizione culturale, come una crescita unilineare progressiva, come l’approssimarsi ad una dimensione superiore, ma che possiamo immaginare come una regressione che pone a contatto con gli antenati” (Rosa, 2016, pp. 118–119).
Non si tratta di un disegno anti-evolutivo, ma di un ritorno alle origini per trovare l’autenticità e la serenità, nell’umile dimensione orizzontale dell’immedesimazione. Vogliamo testimoniare la bellezza dell’incontro con la differenza:
“per dialogare con gli yaquim è indispensabile fare i conti con il loro linguaggio onirico, che ha una specificità formativa ed insegna, socraticamente, a conoscere sé stessi o, meglio, apprendere a conoscersi in quell’intreccio di desideri, elementi magici e misteriosi, che tessono la trama dell’immaginazione” (Righetti, 2022 p. 173).
Nella tribù Yaqui l’identità corrisponde alla vita stessa e solo grazie alla tradizione arcaica l’esistenza mantiene il suo senso, benché in un mondo estraneo dominato da un capitalismo aggressivo che tenta ogni giorno di saccheggiare gli spazi sacri, nello specifico rubando l’acqua del fiume, che porta lo stesso nome della tribù, indispensabile in un’area dove l’allevamento brado è la principale fonte di sussistenza. In tale dimensione tribale è indispensabile “imparare” per sopravvivere. Vi è un antico giuramento Yaqui che viene trasmesso di generazione in generazione e nelle parole, lontane dalla retorica, ripropone una ferma volontà guerriera: “Rimarrai nel luogo che ti è stato assegnato, per difendere la tua nazione, la tua gente, la tua razza, i tuoi costumi, la tua religione. Giura di mantenere il divino mandato”[2]. Si rafforza l’immagine di una dignità solida, che trova conferma in una danza tesa a trasmettere il valore di un’epica valorosa, dove l’animale simbolico è il coyote, scelto nel passato arcaico perché coraggioso, resistente, astuto e dotato delle strategie adeguate a vivere nel deserto. L’occasione della danza è sancita dalla morte di un personaggio di rilievo che merita l’onore della rappresentazione, non dimenticando che nella sua origine era dedicata ai morti in battaglia. È importante notare che tale cerimonia, in assenza di scrittura, riesce a comunicare tramite i movimenti del corpo e a trasmettere conoscenza. Qui, in termini educativi, la parola non è frammento di scrittura ma gesto, azione e, come nella Grecia antica, è indispensabile che sia bella; come lo è stata per noi nel vedere la metamorfosi uomo-animale, con la trasformazione che purifica ed eleva le virtù al di là dello spazio-tempo quotidiano:
“L’io del guerriero, per educarsi, deve fondersi con l’animale che incarna la relazione con la natura, con l’esterno, appunto. L’io non è più solo doppio, è molteplice. Deve imparare a perdersi, a rischiare la morte e persino a morire, per ritrovarsi più forte e più umile” (Gramigna, 2016 p. 78).
A difesa della tradizione ancestrale permangono cinque figure di una forma di governo radicata nel principio di autodeterminazione: il governatore che prende le decisioni più importanti, dopo essersi consultato con l’assemblea; il rappresentante del consiglio degli anziani, uomo saggio con funzione consultiva; il capitano che, con il corpo militare, difende il territorio e garantisce l’ordine pubblico; il giudice che stabilisce le sanzioni in base alle norme; il segretario, che si occupa di problemi amministrativi.
Se la memoria del futuro ha carattere rivendicativo, lo abbiamo visto, la memoria del passato si caratterizza per il culto degli ancestros. Lo spazio yaqui è incantato così come il tempo è onirico e bisogna attraversare queste coordinate per comprendere a fondo il concetto di toosa: alla lettera un nido donato alle galline dal divino e, in seguito, dono anche per gli uomini. Per noi che ci sentiamo superiori agli animali, per effetto della Genesi biblica, la cosa è inaccettabile, ma per gli Yaqui, a livello simbolico, gli animali rivestono un ruolo importante e talvolta sacro: “Il nido […] è abitato da yo ania dove vivono gli antenati sotto forma di jiapsim, anime impercettibili agli occhi umani” (Rosa, 2016, p. 110). Yo ania rappresenta lo spazio umanizzato all’interno dello sconfinato e misterioso huya ania, l’incontaminato selvaggio deserto denso di incanti che si intessono nella trama delle origini, un labirinto dove non ci si perde se si è in sintonia con gli antenati. Di qui la necessità che le verità originarie non vadano perdute e, infatti, i riti, la stessa forma della comunità, le relazioni sociali, rappresentano l’orizzonte esistenziale della tribù fondato sul non-dimenticato.
Lo spazio nella cultura yaqui ha origini mitiche e incarna un potere che dà ordine al vivente, lo contiene con tutte le dinamiche complesse che mettono assieme corpi e anime. Perché assume la fisionomia dell’incanto? Il fatto è che si può rappresentare come una rete magica, non uno strumento di cattura, ma infinito insieme di nodi che consentono di stabilire relazioni. Il tempo da parte sua è dato da un intreccio passato-presente dove i confini sono labili, dato che gli ancestros partecipano alla vita del presente e sono fonte inesauribile di conoscenza in particolare per mezzo del sogno. Nella dimensione cosmica, che diviene oggetto di esperienza, è possibile cogliere la relazione finito-infinito: esistono entità caratterizzate da energia spirituale e volontà che danno vita agli esseri vegetali, animali e umani, accomunati dalla dimensione della finitezza. Mentre la realtà suprema delle origini (yo’o ania) porta in sé la presenza di fonti eterne, infinite; esse partecipano al mondo finito come forme di espressione del regno antico; ma bisogno essere preparati ad individuarle in luoghi sacri chiamati focolai incantati (Erickson, 2007, pp. 32–45). Per questo abbiamo scelto come titolo della nostra indagine Il mondo degli incanti e, tuttavia, esiste un mondo reale dove è necessario confrontarsi e Dona Martina, persona saggia, ha l’incarico di verificare la frequenza scolastica di bambini e ragazzi, senza trascurare le difficoltà delle loro famiglie. Certo non è facile nemmeno confrontarsi con i docenti della scuola pubblica, che spesso non hanno a che fare con la cultura della tribù e vengono percepiti dalla popolazione come estranei, pericolosi al pari dei bianchi (yoris nella loro lingua). Martina è convinta che la scuola bisogna frequentarla per non restare tagliati fuori nella triste e insignificante “riserva indiana” come oltre il confine, cioè negli Stati Uniti. Lo spirito con cui apprendere può trovare terreno fertile: “Qui l’individuo impara grazie alle sue doti percettive, cognitive e valoriali a situarsi nell’equilibrio che la sua esperienza quotidiana intreccia con yo ania” (Gramigna, 2016, p. 84). Si tratta di una radice che offre qualcosa in più rispetto al sapere scolastico, ma il suo valore, anche conoscitivo, è fragile: disperderla porterebbe alla frantumazione sociale e ad un appiattimento su regole non percepite come adeguate, perché tendenti a favorire individualismo ed egoismo. La forza della differenza yaqui risiede nella collettività, nei suoi rituali, cerimonie e tradizioni, che consentono la permanenza armonica del soggetto nella tribù.
Sia tribù che gente sono parole di origine latina, entrambe esprimono in modo significativo il senso di appartenenza ad una comunità con una identità solida. Per questo abbiamo scelto, dopo gli Yaquim, di delineare la comunità Kuna indigena panamense – ma di origine colombana - che, nel 1925, attraverso una ribellione armata diede vita alla “Repubblica di Tule”, la cui durata fu di due giorni. Sotto la guida del saila Ustupu (Nele Kantule), un gruppo di guerrieri ben addestrato, con un’azione fulminea, uccise 25 agenti di polizia, particolarmente odiati per i soprusi, le molestie e le violenze perpetrate. Prima dell’attacco, in onore alla tradizione, avevano bevuto sangue di cinghiale, ma vi è dell’altro: nel corso degli anni Novanta l’ultimo sopravvissuto raccontò che, senza essere visti, i guerrieri avevano bevuto il sangue dei nemici, dopo aver strappato loro il cuore, prima di dirigersi per otto giorni su di un’isola disabitata per purificarsi. Un tempo effimero che, tuttavia, ci racconta molto della natura di un gruppo che ha cercato la propria indipendenza con ogni mezzo “facendone il perno di una formazione umana fondata ancor oggi sulla partecipazione alla via politica e sociale” (Gramigna 2022, p. 73). Nel corso del Novecento i Kuna non hanno accettato l’educazione “civilizzatrice” dei bianchi, ma hanno fatto il possibile affinché la scuola recepisse i valori e significati della loro cosmovisione.
Nele Kantule, diventato personaggio politico tra i più riconosciuti, era contrario all’educazione scolastica perché avrebbe finito per sradicare la loro identità indegna. Poi sognò una scuola primaria con maestri Kuna e il sogno ebbe seguito nella realtà, tanto che dagli anni Sessanta più del 90% delle cattedre venne affidato ai nativi. Di fatto, però, l’istituzione scolastica ha per lo più un fine utilitaristico: far propria la conoscenza degli stranieri. Qualcosa in più, ma il sapere che conta è quello che viene trasmesso in ambito familiare e comunitario. La differenza radicale va colta nella diversa strategia del linguaggio: per noi occidentali serve ad analizzare, sintetizzare, descrivere; mentre per i Kuna esso è metafora, segno distintivo del discorso parlato. Pur avendo subito faticose migrazioni, e lotte nel tentativo di radicare i propri insediamenti, questa popolazione ha mantenuto le proprie risorse culturali, facendone elemento strategico nelle relazioni con il mondo occidentale: la lotta non è mai stata esente dal confronto. Il modello occidentale non viene individuato come negativo, vi sono aspetti integrabili nella loro tradizione secondo il principio di adattamento creativo (Sherzer 1990, p. 231). Ciò è reso possibile da una concezione del mondo dinamica, incuriosita dai cambiamenti e disposta a mettersi alla prova nel confronto con la differenza.
Come si può immaginare la volontà civilizzatrice europea si è abbattuta anche su di loro con la pretesa della normalizzazione e, quindi, di imporre una “verità” cui si doveva soltanto obbedire. Può tornare utile il riferimento ai “discorsi di verità” dei saperi occidentali, come la psichiatria indagata da Foucault (2000, pp. 21-28). Nella sua indagine epistemologica il filosofo francese giunse a considerare che quella scienza era poco affidabile, anzi grottesca nella misura in cui metteva sullo stesso piano con assoluta arbitrarietà ridicolo ed infame, discorsi che possono uccidere e al contempo far ridere. Ricostruendo in estrema sintesi i passaggi della normalizzazione culturale forzata si può partire da una data: 1° luglio 1874, promulgazione della Legge 66. Con quel testo si indicava il percorso di riduzione e civilizzazione degli indigeni e si istituivano i “collegi di missione” con lo scopo di diffondere la scuola in ogni villaggio ma anche di mantenere “le lingue e i dialetti delle tribù che si andavano a civilizzare” (Calvo Poblaciòn, 2008, p. 34). Alle buone intenzioni non fecero seguito i fatti, perché la volontà di nazionalizzazione entrava in conflitto con la pluralità etnica. La fondazione del minuscolo Stato panamense non favorì la formazione dello spirito di nazione: i Kuna, ad esempio, non si riconoscevano affatto come cittadini di Panama.
La regione dove hanno trovato stanziamento stabile in tempi recenti i circa cinquantamila Kuna, è la Comarca de San Blas, un arcipelago di piccole isole e una parte più consistente di terra ferma dove gli indigeni praticano l’agricoltura recandovisi ogni giorno dalle isole dove risiedono. Le terre comuni sono suddivise in piccoli appezzamenti a conduzione familiare secondo il principio che il raccolto spetta a chi ha lavorato. Sul piano del diritto la Legge 16 del 1953 rappresenta un punto fermo anche per successive leggi a difesa delle popolazioni originarie dell’America Latina. Istituendo la Comarca de San Blas si riconosce il popolo Kuna come soggetto collettivo avente diritto ad un proprio territorio, sebbene per causa di “priorità nazionale” possa essere soggetto ad esproprio ma con indennizzo. Di notevole interesse il capitolo VI, in cui “si ratifica la proprietà collettiva del popolo Kuna sulle terre delimitate e si stabilisce che il loro utilizzo e usufrutto si realizzerà in accordo con le tradizionali norme locali” (Baertolomé, Barabas, 1998, p. 164).
Un tema di profondo interesse, anche per questa comunità, è la difesa della memoria collettiva, che passa attraverso il racconto orale dei miti e delle conoscenze ancestrali; mentre per le forme più elevate del sacro vi è una scrittura ideografica ormai alla portata solo di pochi studiosi, che ne garantiscono l’efficacia in qualità di vera e propria “arte” del ricordare (Cfr. Severi, 1996). Viene introdotta una informazione visuale collegata all’apprendimento orale, lo si considera pure come “sistema pittografico” che si traduce in mnemotecnica relativa a repertori lessicali ad alta specificità. Stupisce che gli intellettuali Kuna abbiano dato scarsa importanza alla traduzione della propria lingua in spagnolo, dato il forte interesse per il confronto politico e sociale; ma si può osservare, per contro, che l’Occidente dà meno importanza alla loro parola pronunciata con la forza dell’oratoria: “Per i Kuna il dono della parola non è solo reiterazione bensì costante creazione, raramente un mito o un evento di qualsiasi natura è narrato da due persone nell’identica maniera” (Bartolomé & Barabas, 1998, p. 166).
Si può capire adeguatamente la specificità della rilevanza della parola detta attraverso la riflessione di Salomòn Guerrero, che è stato Segretario del Congresso Generale: “Nella Casa del Congresso si realizza la democrazia partecipativa Kuna. Questa tradizione proviene dagli ancestros e se sparisse noi Kuna resteremmo senza cuore, senza nazione” (Bartolomé & Barabas, 1998, p. 167). La Casa è un centro civico presente anche nelle piccole comunità insulari, essa è il luogo in cui i cittadini vengono consultati per giungere alle deliberazioni politiche; ma è pure un centro cerimoniale che accoglie una comunità spirituale riunita in un recinto sacro. Una Casa-Tempio, quindi, dove gli uomini comunicano tra loro ma anche con il divino, per dare alla società un ordine che sia in equilibrio con la dimensione cosmica dell’esistenza in una visione olistica. Ogni capo (saila) è accompagnato da interprete-comunicatore (argar), profondo conoscitore delle tradizioni e fedele traduttore degli inni sacri che accompagnano l’inizio dei lavori assembleari. Una delle questioni di maggior risentimento pubblico ha a che fare con la scelta dello Stato centrale di confrontarsi solo con i saila, tentando a volte di farne dei funzionari pubblici, evidenziando scarsa attenzione verso la differenza nell’intendere sia la vita politica sia le problematiche etniche.
L’identità comunitaria Kuna esprime il proprio fondamento formativo nella relazione fra tre fattori culturali interrelati: democrazia, sacralità, partecipazione. Ogni cittadino deve riconoscere che la sovranità spetta al popolo; ma non vi è politica capace di affrontare i problemi della gente senza il richiamo costante alla concezione sacrale olistica di tutto il vivente. La sopravvivenza stessa della comunità-tribù, nell’intreccio stretto identità-indipendenza, viene affidata alla partecipazione attiva e motivata dei soggetti che la compongono. Chi con il consenso dell’Assemblea gestisce il potere esecutivo si assume l’onere della negoziazione: “Nella misura in cui le relazioni con lo Stato offrono il necessario rispetto per il diritto all’autodeterminazione e alla gestione delle risorse territoriali locali, che permette alle società dei nativi di conservare la capacità di orientarsi verso fini propri, la convivenza interetnica nel quadro delle società plurali si dimostra vivibile” (Bartolomé & Barabas, 1998, p. 173).
Abya-Yala in lingua Kuna significa “terra in piena maturità” o, per meglio dire, molto fertile. In realtà essi si riferivano con nostalgia alla selva del Darién, al confine tra Colombia e Panama, dove avevano vissuto e combattuto strenuamente prima di essere costretti a lasciarla. Dagli anni Settanta del secolo scorso l’espressione ha assunto un valore simbolico di notevole significato per diverse popolazioni originarie dell’America Latina: il mito di una civiltà ancestrale da cui tutte discendono, che viveva in pace, prima della Conquista, gestiva con saggezza la relazione con la natura, dava importanza al bene comune e alla spiritualità. Per tutto ciò sostengono che il nome America, per la loro cultura privo di significato, andrebbe sostituito con Abya-Yala. Se un giorno accadesse sarebbe un indimenticabile segno di civiltà.
In una fase centrale del dibattito sulla postmodernità, Maffesoli (1988) impiega il termine tribù in maniera insolita, per offrire un contributo interpretativo dei mutamenti sociali intervenuti nel modo occidentale. Nel confronto con le tribù tradizionali, che hanno lottato per mantenere la loro identità nei secoli, la tribù postmoderna mostra tutta la sua fragilità e dal nostro punto di vista, non sociologico ma epistemologico-formativo, una debolezza sul versante dell’apprendimento che lascia intravvedere segni preoccupanti di un possibile regresso. La strategia di scelta dello studioso francese è con tutta evidenza metaforica, come si evince dal titolo dove il nuovo tempo tribale è in contrapposizione con il declino dell’individualismo, simbolo della modernità.
Il ritorno ideale ad un principio di saggia comunità arcaica è frutto di un’insofferenza sempre più diffusa verso la società moderna, burocratizzata e prigioniera delle sue stesse istituzioni che non salvaguardano più le persone ma solo l’individualismo del più forte. Noi crediamo, in particolare nella prospettiva della formazione, che sia indispensabile non confondere l’individuo con l’individualismo: il primo è, e rimane in ogni società, il soggetto responsabile delle scelte e delle azioni conseguenti. La tribù postmoderna, che non richiede impegno, né continuità, né coerenza, è apertamente de-responsabilizzante, come si può cogliere dalle stesse parole dell’autore: “possiamo prendere atto, per ciò che concerne la postmodernità, del ritorno al locale, dell’importanza della tribù e del bricolage mitologico” (Maffesoli, 2016, p. 206). È evidente nell’ultimo quarto di secolo, da quando si è cominciato a parlare di postmodernità, l’opposizione del locale al globale con l’estensione di conflitti in varie aree del mondo, ciò si collega ad uno spirito tribale, che rifiuta l’omologazione globalizzante imposta da poteri sempre meno controllabili da parte di chi, nella civiltà democratica, ne avrebbe diritto. Il substrato mitologico viene avvertito come necessario, infine, per un senso di orfanezza che accompagna le tribù fasulle, le quali non avendo a disposizione una cosmovisione originale e radicale, cercano di utilizzare vecchi modelli a nuovi fini, e questo è l’intento del bricolage.
Il problema è che l’immaginario postmoderno, a nostro parere, non riesce a pensare in termini di tribù autentica: siamo di fronte ad un vorrei ma non posso, che non è in grado di andare oltre l’effimero, dato che le sue stesse passioni mancano di continuità e non se ne vuole sapere di darsi un progetto. Lo scopo si riduce alla “conquista del Presente”, nella speranza di “una vita quotidiana più edonistica”, di una minor tensione lavorativa e di una presa di distanza da un dover essere, ancora troppo legato al razionalismo della modernità. Un tribalismo senza pretese, quindi, che “porta a sperimentare dei nuovi modi di essere, dove il giretto, il cinema, lo sport e la piccola mangiata insieme occupano un ruolo importantissimo” (Maffesoli, 2004, pp. 213–214). Detto questo, che lascia emergere un po’ di tristezza rispetto alle conquiste mirabolanti della modernità, cosa ci rimane da scoprire in tale sedicente tribalismo? In primo luogo, una certa insofferenza rispetto ai gruppi originari (ad esempio famiglia o gruppo dei pari), ma anche a quelle forme sociali che si pongono un obiettivo (associazione, squadra sportiva): in un caso come nell’altro manca la qualità della neotribù, che gioca molto del suo fascino sul passionale e l’emozionale. Per questo non vi è struttura rigida e nemmeno partecipazione continuativa e, tuttavia, il legame emotivo riveste un ruolo importante sul piano relazionale:
“il legame tra l’emozione condivisa e la condizione comunitaria aperta risulta essere proprio ciò che suscita questa molteplicità di gruppi, i quali arrivano a costituire una forma di legame sociale in fin dei conti ben solido” (Maffesoli, 2004, p. 41).
La neotribù incarna, paradossalmente, il contrario della tribù classica in quanto sostituisce alla stabilità la discontinuità e rende possibile, senza problemi, l’appartenenza a più tribù contemporaneamente, senza soffrire affatto per questo suo “farfalleggiare”. Altra differenza fondamentale: la tribù classica vive la propria esperienza e tesse le proprie relazioni in forma molto parca, senza eccessi e senza alcun bisogno di mettersi in mostra. La neotribù vuole essere riconosciuta, farsi notare, rendersi pubblica, anche se di scarso richiamo, approfittando dell’espansione resa possibile dalle tecnologie dell’informazione attuali. Tali operazioni di carattere pubblicitario presentano le loro forme rituali, che non possono mancare nel culto del tribalismo postmoderno. L’aggregazione ha bisogno di simboli e riti che ricordano il magico, e spesso il misterioso, pur facendo uso di strumenti comunicativi attualissimi, mettendo in relazione senza troppi scrupoli arcaismo e digitale.
Ferdinand Tönnies (1963), fondatore della Società tedesca di sociologia, suggeriva la classica differenziazione tra Gemeinschaft [Comunità] e Geselleschaft [Società]. La prima, come ovvio, è quella che ha più a che fare con il concetto di tribù, in quanto richiama ad una totalità che ha un proprio ordine, una radice culturale, vincoli di sangue, di luogo e di condivisione. Tema complesso quest’ultimo che non attiene solo alle abitudini o agli spazi comuni, ma ai significati, alla memoria e all’esperienza collettiva. Le diseguaglianze non possono che essere limitate, altrimenti si lacerano i rapporti e decadono i principi vincolanti. La Società è frutto dei tempi moderni: “è una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani, e solo superficialmente assomiglia a una comunità, dove gli individui restano essenzialmente separati, nonostante i fattori che li uniscono” (Tönnies, 1963, p. 83). Per queste ragioni la neotribù può solo superficialmente avere una relazione con la tribù classica, nonostante i ritualismi e le aspettative magiche, e rappresentare al massimo una metafora di supporto all’indagine che, per altro, lontana dalle selve, o altri luoghi impervi, si svolge prevalentemente in aree metropolitane.
Il lavoro di Maffessoli ci coinvolge di più quando pone la questione della condizione di possibilità di un mondo postmoderno, che trova la sua ragion d’essere nella distanza crescente tra cittadini e forme di gestione politico-amministrative del bene comune: “Il mondo è diventato totalmente estraneo a coloro i quali dovevano viverci” (Maffesoli, 2004, p. 198), a causa del primato di una trinità inscalfibile: Individuo, Storia, Ragione. La Storia dell’Occidente è sembrata spesso incarnare la realizzazione del progresso, sotto la guida della Ragione e grazie al supporto, in vari campi, di Individui eccezionali. È giusto mettere in discussione tale linearità di comodo che nasconde molte cose, ad esempio il danno arrecato sempre ai più deboli; ma la strada verso un mondo nuovo, e più giusto, può avvenire senza alcun progetto e nessuno sforzo? Già da diversi anni i giovani che studiano credono di potersi gustare la libertà come dominio (degli altri, del corpo, degli affetti, del tempo, della natura, ecc.) secondo un allarmante “deficit di pensiero e di senso” (Benasayag, Schmit, 2005, p. 79). Il titolo che i due psichiatri hanno voluto dare alla loro opera (L’epoca delle passioni tristi, con richiamo a Spinoza), trova risposta coerente nel nostro stato d’animo, nonostante le rassicuranti parole di Maffesoli sul positivo dello spirito tribale del nuovo millennio: “Tribù religiose, sessuali, culturali, sportive, musicali, il loro numero è infinto, la loro struttura identica: aiuto reciproco, condivisone del sentimento, ambiente affettivo” (Maffesoli, 2004, p. 201). Da parte nostra di queste tribù vediamo un altro volto nelle aule universitarie: sfiducia nel futuro che produce insicurezza, vuoto etico anche per mancanza di punti di riferimento autorevoli, eccessi di aggressività, forme di arbitrio poco consapevoli. Un desiderare convulso che tocca diversi ambiti senza una vera attenzione alla dignità propria e altrui:
“Purtroppo in questo mondo dove tutto è possibile, non si tratta di evitare la trasgressione, anzi la trasgressione è la regola. Si deve semplicemente evitare di farsi prendere: il corrotto impunito è il nuovo eroe di questi tempi senza fede né legge” (Benasayag & Schmit, 2005, p. 98).
Il mito trasgressivo deve pure essere sostenuto quando mancano prospettive di altro genere! Ecco, allora, l’opportunità di prendersi tutto il piacere oggi, fino allo sballo, con la complicità delle più svariate tribù provvisorie, che si incaricano di renderti sperimentatore di molteplici prove, condite con quel tocco di fatalismo che, con un pizzico di tristezza, finisce per garantire un’emozione sicura… Raramente il desiderare si profila in direzione dello studio; ma bisognerebbe capire che senza desiderio nulla si apprende.
Maffesoli nella sua indagine sulla postmodernità è giunto ad una considerazione che, di sicuro, il filosofo coreano Byung-Chul Han non condividerebbe. La riportiamo in particolare perché ci offre l’opportunità di un punto di partenza adeguato a questa parte conclusiva:
“È la tecnologia che favorisce un vero e proprio reincanto del mondo. Per mettere in evidenza questo fenomeno, si può parlare della (ri)nascita di un mondo immaginale, ovvero una maniera d’essere e di pensare attraversata interamente dalle immagini, dall’immaginario, dal simbolico, dall’immateriale” (Maffesoli, 2004, p. 204).
Maffesoli è stato brillante allievo, all’Università di Grenoble, del grande studioso dell’immaginario Gilbert Durand, a sua volta allievo del famoso filosofo della scienza, ma anche delle rêverie, Gaston Bachelard. Per lui l’immaginario della postmodernità si affida ad una tecnologia, quella virtuale, che attraverso l’immateriale sarebbe in grado di offrirci la ri-nascita di un mondo di immagini che sembrava perduto.
La nostra impressione è che il “reincanto” tecnologico non sia in grado di liberare l’immaginario; anzi che lo tenga prigioniero per un impiego strumentale, e di mero mercato, del digitale. In tal modo la relazione tra soggetto e tecnologia di ultima generazione non ci sembra favorire fantasia e creatività, tanto che queste risultano carenti nel tessuto formativo di infanzia e adolescenza. Qualche anno fa il filosofo Biung-Chul Han ha forgiato l’immagine, a nostro avviso efficace, della tribù digitale con il termine di sciame (2015, pp. 22-23), mettendo in evidenza che in esso non si forma alcuno spirito di comunità, gli individui sono incapaci di raggiungere un Noi, rimanendo prigionieri della rete con il proprio Ego. Il mezzo impiegato, al di là della facile illusione, non produce scambio relazionale ma, in una comunicazione senza limiti, ne sradica l’originaria vocazione solidale a favore di un narcisismo, pericoloso in quanto per lo più inconsapevole. Ciò è segno di impoverimento culturale, proprio perché lo stile comunicativo si è reso, dice il filosofo, “post-ermeneutico” per sottolineare l’aumento contagioso della passività, riscontrabile anche nella scarsa propensione giovanile alla lettura: niente da leggere, niente da interpretare. Forse, per non cadere nel pessimismo, dovremmo a nostra volta dar vita ad una piccola tribù, per imparare a leggere nelle trame del nostro tempo, non con la pretesa di una improbabile obiettività ma con la passione della ricerca, del dialogo e del confronto, senza la paura di rilevare quelle differenze che danno un senso al nostro essere persone.
Questa tribù in fieri potrebbe partire dalla rilettura di I limiti dell’interpretazione (1990), in cui Umberto Eco esercitava una critica significativa alla pretesa, da parte di una formazione fortemente tecnologizzata, di ritenere irrilevante nel presente la realtà come base sicura di partenza per la conoscenza. Il rischio per lui consisteva in un registro interpretativo aperto ad un relativismo sconfinato. Del resto, la cosiddetta “realtà oggettiva” come fulcro d’indagine esterno alla posizione dell’osservatore, caposaldo della ricerca scientifica nella modernità, secondo Baudrillard (1981) è stata sostituita dai simulacri, copie ma che non portano più in sé traccia dell’originale. La nostra piccola tribù, che per ora si muove nell’immaginario, ha un forte interesse per la formazione umana e teme che l’eccesso di tecnologia non produca gli effetti più adeguati al suo sviluppo nel presente. La metafora può sembrare banale, ma vale la pena di farne oggetto di riflessione: l’espansione dell’intelligenza artificiale, in prevalenza per interessi economici, non è che finisca per limitare l’intelligenza umana libera e creativa?
Ammettiamo di essere giunti ad una scoperta: se il simulacro virtuale troneggia al posto del reale, e gli uomini non se ne rendono conto, allora non sanno più giudicare sensatamente sul bene, il male, la religione, l’arte, la politica... Baudrillard (1996, p. 8) ritiene che la proliferazione di simulacri nasca dalla paura del vuoto.. Si può azzardare l’ipotesi che la stessa incertezza postmoderna sia sintomo di tale paura? Una formazione, che, per sua natura, riceve ma produce a sua volta cultura, dovrebbe porre in atto strumenti di indagine sul fenomeno della iper-realizzazione, prodotto di un virtuale fuori controllo che, con ogni probabilità, è la radice del temibile vuoto. Ma il compito dell’investigatore si fa veramente duro quando la rete moltiplica la possibilità delle situazioni inquietanti e offre facili risposte oppure il nulla: pandemia, guerra, terrorismo, povertà, crisi. Il virtuale fa sparire il senso della storia, assolve da ogni responsabilità individuale o sociale, il suffragio universale stesso potrebbe svolgersi addirittura nella forma di “consultazione di scimmie” (Baudrillard, 1996, p. 24). L’impressione reiterata è che le nuove generazioni sperimentino le loro situazioni esistenziali senza autentica curiosità, adeguandosi come se si trattasse di uno stato di necessità immutabile. L’abuso di tecnologie sempre più sofisticate, e convincenti, si è tradotto nella formula appagante della connessione senza limiti, la sua eventuale imprevedibile assenza genererebbe timori non trascurabili; eppure lo stare connessi non offre la condivisione sperata, né amicizie, né partecipazione attiva.
Bisognerebbe, crediamo, in riferimento all’opera auto-formativa della nostra potenziale piccola tribù, riflettere sul fatto che tecnica e tecnologia sono differenti, non ci convince, perciò, l’affermazione che la tecnologia non sia altro che l’attualizzazione della tecnica. Foucault (2001) al pari di Heidegger (1976), non considera la tecnica una proprietà umana, un mezzo per raggiungere il fine, ma un modo d’essere e di entrare in relazione con il mondo. Sul piano epistemologico, ci sembra, l’uomo con la tecnica, già nel mondo primitivo, cerca di modificare la realtà con strategie trasformative, a volte distruttive, come sappiamo. Nella tecnologia sono decisivi gli strumenti: si consideri la robotizzazione dei processi produttivi. La questione si complica, con la tecnologia digitale, dato che la sua iper-comunicazione fa aumenta la passività degli individui (Han, 2017).
All’inizio del Novecento la filosofia dello Storicismo tedesco aveva manifestato il dubbio che la tecnologia limitasse la creatività, facendo dell’uomo un essere prevedibile. Mezzo secolo dopo, gli studiosi della Scuola di Francoforte ponevano Kultur e Zivilisation in netto contrasto, dato che la seconda aveva prodotto modelli di sapere sempre più oppressivi, fino al totalitarismo politico. La tecnologia digitale siamo convinti si muova nella stessa direzione, come pare di poter cogliere o nell’ultima riflessione del filosofo Han che ha un titolo emblematico Infocrazia. Il neologismo rende esplicita la crisi della democrazia dovuta alla manipolazione tecnologica dell’informazione e della comunicazione, che dominano incontrastate il nostro tempo.
Si chiedeva il filosofo Habermas (1985), in un tempo ormai lontano: cosa è rimasto dell’empatia che “connetteva” i compagni di scuola nella lebenswelt (p. 299)? Quel “mondo della vita” è scomparso perché parlante e uditore non appartengono più allo stesso orizzonte di senso, dato che l’altro è in via di sparizione, direbbe Han: “La scomparsa dell’altro implica la fine del discorso perché sottrae all’opinione la razionalità comunicativa” (Han, 2023, p. 39). Tutto ciò che viene spacciato per comunicazione manca dei prerequisiti fondamentali del dialogo e si riduce ad autoreferenzialità; ed è questo il culmine dell’inganno del regime infocratico. Si presume una apertura senza limiti verso l’esterno, una libertà sconfinata che consente di esibirsi in rete in piena trasparenza e, proprio questa, ha posto in essere isolamento e delimitazione: “le tribù digitali si isolano in quanto selezionano le informazioni al proprio interno e le impiegano per la propria politica identitaria” (Han, 2023, p. 44) . Diventa più facile capire, con ciò, il ritorno aggressivo di neonazisti, antisemiti e razzisti vari. Quando si perde di vista la bussola della razionalità discorsiva, che è stata fulcro dell’istruzione per secoli, l’alternativa si riduce a conservatorismo ottuso e verboso, irrazionale ed estraneo ad ogni confronto. Il filosofo coreano suggerisce, pertanto, un approccio antitetico: “L’ascolto è un atto politico in quanto unisce gli esseri umani in una comunità e li abilita al discorso: esso istituisce un noi. La democrazia una comunità di ascoltatori” (Han, 2023, p. 46).
L’informazione digitale, e la comunicazione in rete, seguono altre vie. Sono i dati e gli algoritmi, che adattano la realtà alle loro procedure, gli elementi di novità che si traducono in certezza fuori discussione. Un discorso si può criticare, suggerisce Habermas (2022), dato che “le espressioni razionali sono anche suscettibili di correzione” (p. 74); ma gli strumenti dell’infocrazia non rientrano in tale possibilità, rappresentando un sapere totale, come si può notare dalla descrizione dei Big Data qui riportata: “Grazie a questa mole di dati, possiamo osservare la società in tutta la sua complessità, attraverso milioni di reti su cui passano gli scambi tra una persona e l’altra” (Pentland, 2015, p. 10). È l’attuale fisica sociale, da non confondere con quella di Comte, che vorrebbe comprendere tutti i meccanismi sociali e “risolverne i problemi”; ma non essendo “onnipotente”, per ora, deve limitare le sue pretese. Crea qualche timore la convinzione di potersi occupare della “felicità di tutti” grazie all’ottimizzazione procedurale, fondata su algoritmi “intelligenti” e accumulo instancabile di dati, senza sentire la necessità di una politica, né di dialogo né di confronto. Il tutto lascia l’immagine di una banalità da fiction.
L’ultimo capitolo del lavoro di Han ha per titolo: “La crisi della verità”. Titolo coraggioso, perché di verità sarebbe meglio non parlare in un mondo pieno di labirinti in cui possiamo perderci ogni giorno. Il filosofo lo sa bene e, infatti, sostiene con sicurezza che la società dell’informazione si fonda su distorsioni patologiche, tali da far perdere la fiducia nella verità: “Nell’era delle fake news, della disinformazione e delle teorie del complotto, stiamo perdendo la realtà e le verità fattuali” (Han, 2023, p. 60). Non si tratta nemmeno di grandi verità metafisiche, potrebbero bastare al momento quelle fattuali; ma nella Torre di Babele delle tribù contrapposte non vi è tregua, né riflessione aperta al confronto, né l’intenzione di stabilire una differenza tra verità e falsità. In noi, invece, vi è ancora fiducia nella bellezza dell’indagine che l’autore sintetizza con efficacia: “Le informazioni sono additive e cumulative. La verità è narrativa ed esclusiva” (Han, 2023, p. 70). Gli aggettivi qui dicono molto a noi della piccola tribù auto-formativa: da un lato quantità con la pretesa dell’oggettività e della credibilità; dall’altro un valore che si carica sulle spalle la responsabilità del racconto. Bruner (2005) riconosceva nell’argomentazione narrativa un modello strategico del nostro pensiero, che ci affascina fin dall’infanzia e rafforza l’identità fino a fornire, socraticamente, il coraggio parresiastico della verità.
Per concludere il percorso qui proposto rispetto al concetto di tribù, di come è cambiato nel tempo e nei contesti in cui esso si è configurato, ci chiediamo quale ruolo possa assumere la pedagogia per riappropriarci della verità della narrazione, per contrastare il regime infocratico, per abitare uno spazio comunitario autenticamente relazionale. Per rispondere a questa domanda, è per noi importante e al contempo significativo, riprendere il significato che gli Yaqui assegnano alla tribù come spazio sacro, come elemento costitutivo dell’identità del popolo, come spazio che preserva la memoria del futuro esperibile attraverso il culto degli ancestros. È nello spazio onirico, che è uno spazio di conoscenza per eccellenza, che si realizza la comunicazione con gli antenati, le guide spirituali che hanno il compito di sostenere e condurre gli uomini Yaqui nel corso della loro vita. In un simile contesto, sono le radici a determinare la forza del tronco, il disegno dei suoi rami, la nascita dei fiori e quindi il succo dei suoi frutti. Il processo è chiaro, il cammino da compiere è definito, la tribù è preservata.
Alla luce di ciò, riteniamo che una delle possibili strade che le pratiche pedagogiche possano intraprendere proprio in ragione di una necessaria risposta alle distorsioni patologiche di cui si parlava prima, sia una risposta epistemologica, che vada quindi a rivelare il funzionamento del nostro pensiero, che ne sveli le origini e quindi gli impliciti. Come afferma Gramigna (2015), infatti, a riguardo della conoscenza:
“Riteniamo che la conoscenza, tutta la conoscenza, richieda una preparazione di natura epistemologica perché fa riferimento, non tanto alla ricezione dell’informazione che pensiamo di dover destinare ai nostri studenti, quanto alla sua elaborazione. L’elaborazione del sapere è cosa raffinata e complessa, perché richiede la capacità di individuare e innescare nessi fra persone e settori di conoscenza, fra linguaggi e approcci cognitivi, fra differenti ambiti del sapere” (p. 22).
Riprendere in mano il filo del discorso, riflettere sui propri meccanismi di conoscenza, impostare quindi pratiche educative che si focalizzino su un approccio epistemologico, potrebbe rappresentare l’occasione per decodificare le trame disegnate dalle nuove tecnologie e di trasformare le connessioni in relazioni. Apprendere, pertanto, ad orientarsi nella complessità, a percepire quella che Bateson chiamava la sacra unità del tutto. Allenarsi all’individuazione delle relazioni tra i significati, mantenere una postura epistemologica rivolta all’apprendimento, volgere lo sguardo verso culture che fanno riferimento a paradigmi conoscitivi alternativi, potrebbe essere l’occasione per riflettere e ritrovare le proprie radici, quindi comprendere le fondamenta della propria tribù. Crediamo, infatti, che a partire da ciò sia possibile riconoscere e rafforzare lo spirito della comunità come spazio nel quale ognuno possa conoscere se stesso e quindi la strada per far emergere il proprio talento.
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