Returning the body to the mind: Educating the living body
Restituire il corpo
alla mente: Educare il corpo vivo
Raffaella
Faggioli
Dipartimento
di Scienze della Qualità della Vita, Università di Bologna – raffaella.faggioli2@unibo.it
https://orcid.org/0000-0002-7458-0488
Michela
Schenetti
Dipartimento
di Scienze dell’Educazione, Università di Bologna – michela.schenetti@unibo.it
https://orcid.org/0000-0003-4958-4564
ABSTRACT
The article aims to contribute to the debate on corporeity
education, focusing on the question of subjectivity, understood as mind-body unity,
as developed by phenomenology and embodied approaches. This allows to rethink the
educational settings in which the living body is embraced. Within a cross-curriculum
design, particularly in primary school, it offers an overview of possible devices
in which corporeity is pivotal. Through conceptual frameworks such as those of space
and time, the article underlines the innovative contribution of OE and outdoor education,
suggesting possible directions for teacher training.
L’articolo vuole contribuire alla riflessione sulle direzioni dell’educazione
alla corporeità, ponendo al centro la questione della soggettività intesa come unità
di mente-corpo, così come elaborata dalla fenomenologia e dagli approcci embodied. Ciò consente di ripensare i contesti educativi
nei quali il corpo vivo è accolto, all’interno di una progettazione trasversale
al curricolo di scuola. In particolare, per la scuola primaria si introducono possibili
dispositivi nei quali la corporeità è centrale. Attraverso organizzatori concettuali
come quelli di spazio e tempo, il contributo pone in rilievo il portato innovativo
dell’OE e della didattica all’aperto, suggerendo possibili piste per la formazione
insegnanti.
KEYWORDS
Living Body, Embodiment, Body Education, Lived Space,
Lived Time
Corpo Vivo, Embodiment, Educazione alla Corporeità,
Spazio Vissuto, Tempo Vissuto
CONFLICTS
OF INTEREST
Le Autrici
dichiarano che non sussistono conflitti di interesse.
Ragionare sul corpo in educazione è una chiave per rivedere le radici ontologiche
dei discorsi e delle pratiche che informano i processi educativi, «sottraendosi
a quella storia culturale dell’Occidente che […] ha ricoperto e oscurato il significato
profondo della sfida del corpo» (Mariani,
2010, p. 5). La supremazia della mente, nella cultura occidentale e l’esilio
del suo opposto, il corpo, è presente già nelle radici giudaico cristiane (in principio era il verbo), nella filosofia
post-socratica (soma sema), e poi via
via nella filosofia moderna a partire dal dualismo cartesiano (Francesconi & Tarozzi, 2019). Solo nel corso
del Novecento la corporeità (il termine indica l’avere un corpo e anche l’essere
corpo) torna ad assumere una posizione non marginalizzata nel discorso. Un riscatto
guidato dalla psicoanalisi, ma anche da filosofie come la fenomenologia (Cambi,
2010). Con la fenomenologia, e poi con gli sviluppi successivi Embodied Theory, la cultura occidentale inizia ad
introdurre elementi per il superamento di questa scissione. Molti dei temi fondativi
delle moderne scienze cognitive, affondano le proprie radici nella “Filosofia della
percezione” e prima ancora nella filosofia husserliana cui Merleau-Ponty (1945)
esplicitamente si riferisce. Questi trovano una rilevanza notevole nella riflessione
pedagogica: il corpo in cui la coscienza è incarnata entra in contatto intenzionale
col mondo; l’ambiente spazio-temporale dà forma alla cognizione. Husserl, nel sottolineare
una distinzione propria della lingua tedesca tra Körper e Leib, rimanda a due dimensioni chiave che
hanno importanti implicazioni sul piano educativo. Da una parte vi è il corpo-cosa,
l’organismo, la macchina. Un corpo che va esercitato, allenato, esteticamente abbellito,
ma anche disciplinato e controllato, moralmente inibito, talvolta nascosto, coperto;
un corpo-risorsa oggetto di una cura che non si sottrae alla struttura del mercato.
Dall’altra il corpo vivo, Leib, il corpo-proprio, l’esistenza del soggetto, centro di un’esperienza
che è soggettiva, il «punto zero».
«Il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell’organismo:
mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente,
forma con esso un sistema. [...] La cosa e il mondo mi sono dati con le parti del
mio corpo, [...], in una connessione vivente paragonabile o piuttosto identica a
quella intercorrente fra le parti del mio corpo stesso» (Merleau-Ponty, 1945, pp. 277 – 279).
Nel dibattito filosofico contemporaneo sulla natura della mente e della soggettività,
grande attenzione è stata dedicata a come il proprio corpo modella e definisce non
solo le proprie capacità percettive e cognitive, ma anche l’esperienza di sé stessi
e le proprie relazioni con gli altri (Gallagher, 2005; Clark, 2008; Zahavi, 2014).
Il rapporto originario con il mondo si realizza attraverso
il corpo-soggetto che può farsi agente e rispondere a tutte le esigenze che lo attanagliano
in quanto essere umano (Gallagher & Zahavi, 2008). D’altra parte, gli approcci
dell’Embodied Theory indicano ormai diffusamente un paradigma
teorico e di ricerca che si colloca all’incrocio fra la fenomenologia da una parte
e le neuroscienze dall’altra (Tarozzi & Francesconi,
2013). Questa associazione trova il suo punto di origine proprio nella filosofia
di Merleau-Ponty, prima ancora che di Varela et al. (1991), che è considerato da
molti un padre fondatore delle moderne scienze cognitive (Gallagher & Zahavi,
2008). Il paradigma Embodied «offre
un campo di esperienza e una prospettiva conoscitiva in grado di valorizzare la
componente soggettiva dell’esperienza umana [come] corporea» (Tarozzi &
Francesconi, p. 12). Diversi studi, ad esempio,
hanno dimostrato che molti dei compiti percettivi e cognitivi in cui siamo coinvolti
nella nostra vita quotidiana non sono realizzati in virtù del funzionamento centralizzato
di una mente disincarnata. Piuttosto, vengono eseguiti grazie a continue interazioni
tra l’intero organismo e il mondo (Forlè, 2019). Attraverso atti non semplici movimenti,
sperimentiamo l’ambiente che ci circonda e le cose assumono significato.
«Lo stesso rigido
confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran
parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione,
risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il
cervello che agisce è anche soprattutto un cervello che comprende» (Rizzolatti & Senigaglia, 2006, p. 3).
Il notevole incremento delle attività scientifiche legate all’embodiment, ha dato
vita a sempre nuove sotto articolazioni. In effetti, parlando di Embodied Theory si fa riferimento a un ampio movimento,
oggi estremamente variegato e differenziato al suo interno ma che, per gli scopi
di questo articolo, consideriamo come un insieme organico e tutto sommato unitario.
Interessa qui sottolineare dal punto di vista pedagogico come alcuni temi sia della
fenomenologia che delle neuroscienze conducano a porre in rilievo la dimensione
complessiva del soggetto, che è corpo vivo, e la sua relazione con il mondo. Una
dimensione esterna che non è scissa da questa soggettività, poiché ogni oggetto
del mondo è percepito dal corpo vivente come «un invito a fare qualcosa» (Mario,
2013). La centralità del concetto di affordance, e la ragione del suo utilizzo in questo ragionamento,
è dovuta al suo essere assimilata alle proprietà di relazione tra soggetto e cose.
Un affordance (Gibson, 1979), descrivibile come una combinazione
di una serie di caratteristiche percettive che acquisiscono un certo rilievo in
base alle possibilità di interazione del nostro corpo (Greeno,
1994), spiega come noi, corpi viventi, comprendiamo gli oggetti come ipotesi di
azione, interagendo corporalmente con essi. I processi cognitivi si estendono al
di là dei confini del cervello (e del corpo) e sono localizzabili nell’ambiente
fisico e sociale in cui l’organismo agisce (Ceruti & Damiano, 2013). Non sono
solo diffusi nel mondo, ma possiamo addirittura dire lo stesso anche del soggetto
che li intrattiene (Varela, Thompson & Rosch, 1991).
Siamo immersi in «A Meshwork
of Selfless Selves» (Varela,
1991).
L’eco è quello della posizione di Csordas
(2003), il quale riferiva la questione alle nozioni di cultura e di esperienza.
Parlare di esperienza significa, tuttavia, parlare di essere-nel-mondo;
pertanto, è possibile ricostruire l’argomentazione di Csordas
con maggior pertinenza al dominio della corporeità:
«Se assumiamo che l’incorporazione sia una condizione
esistenziale in cui il corpo è la fonte soggettiva aperta, il terreno dell’esperienza
>di sé e del mondo<, dobbiamo allora riconoscere che gli studi inclusi
sotto la rubrica “incorporazione” non riguardano solo il corpo in sé. Essi riguardano
anche >la cultura dell’educazione alla corporeità<, nella misura in
cui questa può essere definita come educazione ad essere-nel-mondo corporeo
[…]. Un approccio volto a unire l’immediatezza dell’esperienza incorporata e la
molteplicità degli spazi e degli oggetti in cui siamo sempre e inevitabilmente immersi»
(Csordas, 2003, p. 19; inserimenti
nostri <in corsivo>).
La svolta culturale,
che ha visto divenire il tema del corpo centrale nella riflessione fenomenologica
e poi nella ricerca neuroscientifica, è preceduta certamente da contributi rilevanti
anche nel dibattito sull’apprendimento e l’educazione. Farnè
ricorda come già nel 1974 fosse pubblicato un Quaderno dell’MCE (Movimento di Cooperazione
Educativa) che si intitolava A scuola con
il corpo. «Con i contributi, tra gli altri, di Andrea Canevaro,
Fiorenzo Alfieri, Francesco Tonucci, questo libro invitava a guardare da un punto
di vista diverso il bambino che va a scuola, accorgendosi cioè del suo corpo, della
sua presenza fisica, quel corpo che la scuola non considera perché́ la sua pedagogia
si rivolge solo alla testa del bambino (Farnè, 2020). Nonostante
la diffusione di questi contributi critici la scissione tra corpo e mente pare che
continui a permeare la pratica educativa, portando ad una netta e pericolosa distinzione
tra cognitivo ed esperienziale. Una scissione che nel periodo pandemico è emersa
in modo ancora più vistoso, ma che ci permette di riflettere sulle radici di un
disagio e su come ciò si sia innestato nell’emergenza (Damiani & Paloma, 2020). Per dare una qualche continuità ai percorsi educativi
formali si è dovuto (o voluto) garantire prioritariamente la dimensione cognitiva,
senza tener conto della complessità dei soggetti in formazione e della loro essenziale
unicità in qualità di corpi viventi (anche aldilà dello schermo) e delle relazioni
che andavano intessendo in quella particolare circostanza (Lombardo & Mauceri,
2020). Se è possibile già ora fare un bilancio di questa esperienza, dobbiamo riconoscere
che occorre recuperare tutto ciò che è stato sottratto e rimetterlo al centro del
progetto educativo. Ciò è ancora più urgente se pensiamo alla scuola primaria nella
quale si contribuisce a costruire l’identità di bambine e bambini (Comitato…, 2018).
Bertolini parlando del recupero di questa dimensione suggerisce
«la predisposizione di alcune procedure di intervento che consentano all’educando
di usare del proprio corpo (o meglio dell’essere il proprio corpo) con libertà ma
soprattutto con gioia, ma che obbligano lo stesso educatore a fare altrettanto»
(Bertolini, 1988, p. 220).
Gli «sviluppi
dell’Embodied Cognition Theory (EC)
invitano a muovere verso una embodied education» (Tarozzi & Francesconi, 2013, p. 16),
un campo di ricerca che promuove «tutte quelle esperienze educative in cui ai soggetti
sia consentito di esercitarsi a prendere coscienza della propria esperienza vissuta»
(Tarozzi & Francesconi, 2013, p. 16). a partire dalla propria corporeità.
«La condotta motoria intelligente si manifesta nell’interazione con la realtà, nella
cognizione agita al prodursi stesso dell’esperienza,
addirittura nel determinare l’esperienza di cui è parte» (Ceciliani, 2018). Una definizione che ha un connotato
che si sposta dalla dimensione teorica alla dimensione empirica, operativa e pratica.
I ragionamenti qui sintetizzati portano dunque a considerare l’opportunità di educare
alla corporeità intesa come educazione ad una soggettività incarnata che permetta
di creare relazioni qualitativamente dense con l’altro, l’altra, e con gli elementi
culturali, fisici e naturali in cui i soggetti in formazione si imbattono nel mondo.
Un approccio educativo che conduce a dare valore allo spazio, agli spazi, alle relazioni
che i bambini e le bambine costruiscono intersoggettivamente nello spazio e nel
tempo, alle cose inanimate ed animate, agli oggetti culturali che si offrono alla
loro attenzione con una particolare cura a ciò che essi, come corpi viventi, contattano,
costruiscono e di cui si prendono cura.
L’attenzione al corpo ha prodotto tutta una serie di teorie e di impostazioni
pedagogiche e didattiche che hanno il merito di sottolineare quanto la ‘dimensione
fisica’ (anche se non si tratta solo di una dimensione) contribuisca ad arricchire
cognitivamente il bambino. Il neologismo «corporeità
didattiche» (Sibilio, 2011; 2014) nasce proprio dalla riflessione scientifica sulla
valenza formativa ed educativa del corpo, inteso come mediatore,
un dispositivo d’azione che facilita o potenzia l’acquisizione di conoscenza (Rivoltella,
2012). Questa constatazione ha influenze didattiche molto interessanti (Rossi, 2011),
sia nei confronti della prestazione del docente, sia nei confronti delle azioni
sollecitate e spontanee dei bambini. Inizia a farsi spazio nel dibattito generale
la necessità di dare valore a una didattica attenta all’identità̀ del bambino che
impara, favorendone l’esperienza autenticamente vissuta, dunque corporea. La dimensione
non verbale e sociale della comunicazione, ad esempio, è esaltata dalle cosiddette
performing arts (Even & Schewe, 2016): si tratta
di introdurre nella prassi didattica i linguaggi artistici che hanno una dimensionalità complessiva e globale. Ciò̀ comporta l’attivazione
di tutti i canali sensoriali e non può̀ prescindere dal movimento corporeo e dalle
emozioni. Sono sempre più̀ numerosi gli esempi di didattiche nelle quali il corpo
è giocato come un dispositivo di mediazione cognitiva verso gli apprendimenti,
mediazione che facilita il coinvolgimento e l’attenzione e che sposta il focus dalla
prestazione astratta e immobile al piacere di sentire e percepire il proprio corpo
in movimento assieme al gruppo. Su questo solco si inserisce anche la diffusione
dell’OE che invita a considerare l’ambiente esterno alla scuola come ambiente d’elezione
(Farnè et al, 2018), ricco di saperi unitari, significativi,
mutevoli, essenziali per promuovere una didattica all’aperto (Schenetti, 2022) intenzionalmente
orientata a rendere i compiti e gli apprendimenti autentici in connessione con il
curriculo di Scuola e con il costrutto di competenza (Castoldi 2011). Una didattica
della corporeità intenzionale che si gioca all’interno di due organizzatori concettuali:
lo spazio e il tempo. Elementi che, a nostro avviso, costituiscono le chiavi per
la progettazione di dispositivi didattici in grado di assumere l’unità mente-corpo-mondo
dei soggetti in formazione.
Costruire un setting che accolga l’unità del soggetto
come corpo vivente significa considerare lo spazio come ambiente di apprendimento
nella sua dimensione fisica e architettonica, tenendo presente le affordances
di quello spazio (Guerra, 2022). Oggi il tema degli spazi educativi è particolarmente
sentito: siamo di fronte a quella che alcuni chiamano “svolta spaziale” (Santoianni, 2017); presumibilmente nel giro di un decennio le
nostre scuole non saranno più̀ quelle in cui ci muoviamo (Tosi, 2019), è necessario
quindi incanalare il cambiamento in una direzione pedagogicamente intesa. Anche
ora, nelle situazioni destrutturate dall’emergenza Covid-19 che abbiamo davanti
agli occhi, è sempre possibile curare lo spazio tenendo conto anche dell’unità
dei soggetti che li abitano. Sono due gli elementi che possono agire come detonatori
di una più̀ attenta gestione dello spazio in funzione di una didattica della corporeità: flessibilità̀ e co-costruzione. La flessibilità̀
riguarda la capacità di pensare quello spazio (aula, sezione, palestra, giardino)
come qualcosa di dinamico che si può̀ modificare continuamente, la capacità di
uscirne ogni qualvolta i suoi vincoli limitano le proposte, senza paura di occupare
luoghi nuovi, come, ad esempio gli spazi outdoor
naturali o urbani di prossimità della scuola e oltre. Flessibilità̀ è altresì̀
pensare ai materiali e agli arredi in un’ottica creativa, poietica, costruendo piccole
isole dedicate ad alcune attività̀ per poi modificarle quando non sono più̀ interessanti
(Tosi, 2019; Demo, 2016). Flessibilità̀ non significa casualità ma mediazione, riconoscendo
la necessità di mettere in relazione le caratteristiche degli spazi con gli interessi
e i bisogni di chi li abita. Alcune ricerche mettono in evidenza come l’ordine permetta
ai bambini di concentrarsi meglio e li rassicuri suggerendo di allestire i luoghi
in modo da non renderli troppo pieni e neppure troppo vuoti. Fare attenzione alla
possibilità di disporre di una buona qualità di luce naturale in quanto favorisce
l’apprendimento; dosare gli stimoli visivi perché se è vero che consentono di sollecitare
l’attenzione, un loro eccesso può̀ sovraccaricare la percezione (Barret et al., 2016). In questo senso la flessibilità̀
rappresenta una scelta intenzionale e condivisa nel gruppo docenti, uno stile di
scuola. Uno stile che anche nell’emergenza deve mantenersi leggibile.
Il secondo elemento è la co-costruzione. Gli spazi
educativi che abitiamo sono preesistenti, la necessità è trasformarli in spazi vissuti
(Iori, 1996), in luoghi nei quali ciascuno può dare significato agli oggetti e alle
cose, in relazione a sé stessi e al gruppo. I riscontri empirici della letteratura
degli ultimi anni dimostrano che vi è una relazione significativa fra place based learning (Smith, 2002) e processi di apprendimento. I bambini hanno
bisogno di costruire l’identità̀ dei luoghi che quotidianamente riempiono con i
loro corpi. Un luogo co-costruito, e non semplicemente arredato, offre l’occasione
di sentirsi circondati da ciò che è diventato significativo, di costruire la propria
identità incarnata nel muoversi, raggiungere cose, spostare, salire, ma anche riordinare,
spazzare, lavare in autonomia (Montessori, 1909). Un’autonomia che è sollecitata
o frenata dalla conformazione dello spazio e, soprattutto, dallo stile d’insegnamento
«produttivo» (Mosstonm & Ashworth,
1994) con cui si organizzano le esperienze. Costruire insieme uno spazio significa
educare il sé presente a prendersi cura della propria identità̀ attraverso l’attenzione
al luogo in cui questa identità̀ si va costruendo.
La dimensione del tempo quotidiano nei servizi educativi e nelle scuole è
un aspetto dell’organizzazione didattica fondamentale dal punto di vista educativo:
la gestione dei ritmi, delle scansioni e delle alternanze ha una ricaduta diretta
sulla sostenibilità̀, in relazione al soggetto. Il tempo dei bambini è pieno di
tutto, incastrato tra l’impegno scolastico ed extrascolastico (Bertolino, 2022).
Il tempo del sapere, dell’insegnamento e dell’apprendimento corre il rischio di
diventare il tempo dell’urgenza, del successo e dell’insuccesso. In questa direzione
un aumento di richieste cognitive, di stimoli e informazioni non corrisponde a un
accrescimento delle competenze globali, in particolare delle autonomie senso-motorie.
Occorre riequilibrare le esperienze dei bambini ad una dimensione identitaria globale,
quindi corporea (Zavalloni, 2008, p. 26). È necessario ritrovare il tempo vissuto
(Iori, 2006), che è il tempo del soggetto in carne ed ossa, ed inserirlo nella didattica
attraverso due tipi di sforzo progettuale: da una parte calibrare le attività̀ con
ritmo, immaginando momenti di recupero, attività cerniera e pause attive (Mulato, Riegger, 2014; Borgogni, 2020),
dall’altra prepararsi a non stare dentro al tempo previsto, allargarsi, fermarsi,
spostarsi per rispettare il tempo di apprendimento di ciascuno, con flessibilità.
Il tempo del corpo è scandito da ritualità̀ che aiutano e rassicurano i bambini
e permettono la costruzione di un senso temporale che è, di nuovo, identitario,
in grado di permettere al bambino di “incarnare” i saperi, rielaborarli, connetterli
al proprio mondo. Le ritualità̀ sono elementi del tempo vissuto in quanto offrono
un’autonomia e una libertà (co-costruita e regolata dal gruppo) che favorisce l’espressione
della propria soggettività. In questa direzione diviene fondamentale progettare
le forme di accoglienza e coinvolgimento; i riti di transizione tra un’attività,
un’esperienza o una disciplina e l’altra; l’organizzazione del momento del pasto,
la gestione fisica dello spazio e i servizi per la comunità̀, in modo da incentivare
un ritmo nel movimento quotidiano orientato alla condivisione e alla costruzione
del gruppo. Il gioco è un’esperienza esemplare del tempo vissuto: troppo spesso
è un tempo ritagliato tra attività̀ strutturate, eppure sappiamo bene quanto sia
generativo dal punto di vista cognitivo e della costruzione del sé, quante competenze
siano apprese proprio in quel contesto informale (Bondioli, 1996).
Questo contributo, partendo da uno sfondo teorico focalizzato sull’unità
mente-corpo, così come delineata dalla fenomenologia e dagli sviluppi delle neuroscienze,
evidenzia il ruolo trasversale del corpo nella dimensione educativa e didattica
(Oliviero, 2017). Ponendo il Leib, fenomenologicamente compreso, nel cuore della dell’esperienza
vissuta, ribadisce la centralità di un’educazione alla corporeità che esalti la
qualità delle relazioni tra il soggetto e gli altri, il contesto, gli oggetti, il
sapere. Un corpo vivo, sempre connesso al mondo, che sperimenta e apprende le proprie
possibilità di agire e cambiarlo (Faggioli, 2021).
Da queste premesse deriva la necessità di una didattica quotidianamente attenta
alla costruzione del sé; dunque, ad un’identità̀ che è prima di tutto fisicamente
agita (Balduzzi, 2017). Si sollecitano quindi alcune riflessioni sulla progettazione di ambienti
di apprendimento e setting didattici nei quali il corpo vivo è continuamente accolto,
educato, stimolato, attivo. Una didattica particolarmente impegnata a stimolare
la percezione, l’esperienza diretta, la relazione, in sintesi il ruolo centrale
della corporeità nella cognizione (Faggioli & Schenetti, 2020). L’uso prevalente di spazi chiusi e artificiali limita l’accoglienza di quella
soggettività incarnata a cui si fa riferimento. Modificare i luoghi, i materiali
e gli arredi è importante ma non sufficiente. Aprirli al territorio e a ciò che
sollecita il movimento e l’esplorazione aumentando la qualità della percezione è
decisivo. L’istituzione delle scuole all’aperto, già̀ dal secolo scorso, rivela,
tra tutti gli elementi di positività̀, l’esigenza di abbandonare i luoghi chiusi
e immobili tipici del fare didattica per destrutturare la rigidità̀ dei corpi, correlato
della passività̀ dei metodi (D’Ascenzo, 2018). L’esperienza di una Rete pubblica
nazionale che praticano l’educazione all’aperto (2016) sta assumendo
caratteristiche molto interessanti in questo senso: lo spazio didattico, così come
si configura all’esterno, è centrale nella progettazione complessiva di scuola
e sollecita un ripensamento delle pratiche educative e didattiche e nuovi orizzonti
per la formazione degli insegnanti (Schenetti, 2022b). La letteratura scientifica
internazionale suggerisce che i setting naturali possano essere promotori di cambiamento
nelle pratiche degli insegnanti (Mygind, 2009) e che le
caratteristiche dei luoghi hanno influenze positive sulle stesse progettazioni didattiche
(Mannion et al., 2011). Questi ragionamenti
conducono al ribaltamento di un’ottica: non si tratta di fare didattica con il corpo,
ma di fare didattica incorporando consapevolmente i saperi e le competenze e garantendo
ai bambini una relazione concreta e diretta verso la realtà che vanno costruendo
e sperimentando. Educare al corpo vivo, ponendolo al centro di relazioni significative
con gli altri e il mondo (Bertolini, 1988) promuove pratiche che danno senso all’esperienza
della complessità, un senso fondamentale per la costruzione positiva del sé-altro,
spazi in cui l’apprendimento è il piacere di esistere e riconoscersi come corpi
viventi.
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