Returning the body to the mind: Educating the living body

 

Restituire il corpo alla mente: Educare il corpo vivo

 

Raffaella Faggioli

Dipartimento di Scienze della Qualità della Vita, Università di Bologna – raffaella.faggioli2@unibo.it

https://orcid.org/0000-0002-7458-0488

 

Michela Schenetti

Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Bologna – michela.schenetti@unibo.it

https://orcid.org/0000-0003-4958-4564

 

ABSTRACT

The article aims to contribute to the debate on corporeity education, focusing on the question of subjectivity, understood as mind-body unity, as developed by phenomenology and embodied approaches. This allows to rethink the educational settings in which the living body is embraced. Within a cross-curriculum design, particularly in primary school, it offers an overview of possible devices in which corporeity is pivotal. Through conceptual frameworks such as those of space and time, the article underlines the innovative contribution of OE and outdoor education, suggesting possible directions for teacher training.

 

L’articolo vuole contribuire alla riflessione sulle direzioni dell’educazione alla corporeità, ponendo al centro la questione della soggettività intesa come unità di mente-corpo, così come elaborata dalla fenomenologia e dagli approcci embodied. Ciò consente di ripensare i contesti educativi nei quali il corpo vivo è accolto, all’interno di una progettazione trasversale al curricolo di scuola. In particolare, per la scuola primaria si introducono possibili dispositivi nei quali la corporeità è centrale. Attraverso organizzatori concettuali come quelli di spazio e tempo, il contributo pone in rilievo il portato innovativo dell’OE e della didattica all’aperto, suggerendo possibili piste per la formazione insegnanti.

 

KEYWORDS

Living Body, Embodiment, Body Education, Lived Space, Lived Time

Corpo Vivo, Embodiment, Educazione alla Corporeità, Spazio Vissuto, Tempo Vissuto

 

CONFLICTS OF INTEREST

Le Autrici dichiarano che non sussistono conflitti di interesse.


 

1. Il corpo vivente come soggettività aperta alla relazione con il mondo

 

Ragionare sul corpo in educazione è una chiave per rivedere le radici ontologiche dei discorsi e delle pratiche che informano i processi educativi, «sottraendosi a quella storia culturale dell’Occidente che […] ha ricoperto e oscurato il significato profondo della sfida del corpo» (Mariani, 2010, p. 5). La supremazia della mente, nella cultura occidentale e l’esilio del suo opposto, il corpo, è presente già nelle radici giudaico cristiane (in principio era il verbo), nella filosofia post-socratica (soma sema), e poi via via nella filosofia moderna a partire dal dualismo cartesiano (Francesconi & Tarozzi, 2019). Solo nel corso del Novecento la corporeità (il termine indica l’avere un corpo e anche l’essere corpo) torna ad assumere una posizione non marginalizzata nel discorso. Un riscatto guidato dalla psicoanalisi, ma anche da filosofie come la fenomenologia (Cambi, 2010). Con la fenomenologia, e poi con gli sviluppi successivi Embodied Theory, la cultura occidentale inizia ad introdurre elementi per il superamento di questa scissione. Molti dei temi fondativi delle moderne scienze cognitive, affondano le proprie radici nella “Filosofia della percezione” e prima ancora nella filosofia husserliana cui Merleau-Ponty (1945) esplicitamente si riferisce. Questi trovano una rilevanza notevole nella riflessione pedagogica: il corpo in cui la coscienza è incarnata entra in contatto intenzionale col mondo; l’ambiente spazio-temporale dà forma alla cognizione. Husserl, nel sottolineare una distinzione propria della lingua tedesca tra Körper e Leib, rimanda a due dimensioni chiave che hanno importanti implicazioni sul piano educativo. Da una parte vi è il corpo-cosa, l’organismo, la macchina. Un corpo che va esercitato, allenato, esteticamente abbellito, ma anche disciplinato e controllato, moralmente inibito, talvolta nascosto, coperto; un corpo-risorsa oggetto di una cura che non si sottrae alla struttura del mercato. Dall’altra il corpo vivo, Leib, il corpo-proprio, l’esistenza del soggetto, centro di un’esperienza che è soggettiva, il «punto zero».

 

«Il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema. [...] La cosa e il mondo mi sono dati con le parti del mio corpo, [...], in una connessione vivente paragonabile o piuttosto identica a quella intercorrente fra le parti del mio corpo stesso» (Merleau-Ponty, 1945, pp. 277 – 279).

 

Nel dibattito filosofico contemporaneo sulla natura della mente e della soggettività, grande attenzione è stata dedicata a come il proprio corpo modella e definisce non solo le proprie capacità percettive e cognitive, ma anche l’esperienza di sé stessi e le proprie relazioni con gli altri (Gallagher, 2005; Clark, 2008; Zahavi, 2014). Il rapporto originario con il mondo si realizza attraverso il corpo-soggetto che può farsi agente e rispondere a tutte le esigenze che lo attanagliano in quanto essere umano (Gallagher & Zahavi, 2008). D’altra parte, gli approcci dell’Embodied Theory indicano ormai diffusamente un paradigma teorico e di ricerca che si colloca all’incrocio fra la fenomenologia da una parte e le neuroscienze dall’altra (Tarozzi & Francesconi, 2013). Questa associazione trova il suo punto di origine proprio nella filosofia di Merleau-Ponty, prima ancora che di Varela et al. (1991), che è considerato da molti un padre fondatore delle moderne scienze cognitive (Gallagher & Zahavi, 2008). Il paradigma Embodied «offre un campo di esperienza e una prospettiva conoscitiva in grado di valorizzare la componente soggettiva dell’esperienza umana [come] corporea» (Tarozzi & Francesconi, p. 12). Diversi studi, ad esempio, hanno dimostrato che molti dei compiti percettivi e cognitivi in cui siamo coinvolti nella nostra vita quotidiana non sono realizzati in virtù del funzionamento centralizzato di una mente disincarnata. Piuttosto, vengono eseguiti grazie a continue interazioni tra l’intero organismo e il mondo (Forlè, 2019). Attraverso atti non semplici movimenti, sperimentiamo l’ambiente che ci circonda e le cose assumono significato.

 

«Lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche soprattutto un cervello che comprende» (Rizzolatti & Senigaglia, 2006, p. 3).

 

Il notevole incremento delle attività scientifiche legate all’embodiment, ha dato vita a sempre nuove sotto articolazioni. In effetti, parlando di Embodied Theory si fa riferimento a un ampio movimento, oggi estremamente variegato e differenziato al suo interno ma che, per gli scopi di questo articolo, consideriamo come un insieme organico e tutto sommato unitario. Interessa qui sottolineare dal punto di vista pedagogico come alcuni temi sia della fenomenologia che delle neuroscienze conducano a porre in rilievo la dimensione complessiva del soggetto, che è corpo vivo, e la sua relazione con il mondo. Una dimensione esterna che non è scissa da questa soggettività, poiché ogni oggetto del mondo è percepito dal corpo vivente come «un invito a fare qualcosa» (Mario, 2013). La centralità del concetto di affordance, e la ragione del suo utilizzo in questo ragionamento, è dovuta al suo essere assimilata alle proprietà di relazione tra soggetto e cose. Un affordance (Gibson, 1979), descrivibile come una combinazione di una serie di caratteristiche percettive che acquisiscono un certo rilievo in base alle possibilità di interazione del nostro corpo (Greeno, 1994), spiega come noi, corpi viventi, comprendiamo gli oggetti come ipotesi di azione, interagendo corporalmente con essi. I processi cognitivi si estendono al di là dei confini del cervello (e del corpo) e sono localizzabili nell’ambiente fisico e sociale in cui l’organismo agisce (Ceruti & Damiano, 2013). Non sono solo diffusi nel mondo, ma possiamo addirittura dire lo stesso anche del soggetto che li intrattiene (Varela, Thompson & Rosch, 1991). Siamo immersi in «A Meshwork of Selfless Selves» (Varela, 1991).

L’eco è quello della posizione di Csordas (2003), il quale riferiva la questione alle nozioni di cultura e di esperienza. Parlare di esperienza significa, tuttavia, parlare di essere-nel-mondo; pertanto, è possibile ricostruire l’argomentazione di Csordas con maggior pertinenza al dominio della corporeità:

 

«Se assumiamo che l’incorporazione sia una condizione esistenziale in cui il corpo è la fonte soggettiva aperta, il terreno dell’esperienza >di sé e del mondo<, dobbiamo allora riconoscere che gli studi inclusi sotto la rubrica “incorporazione” non riguardano solo il corpo in sé. Essi riguardano anche >la cultura dell’educazione alla corporeità<, nella misura in cui questa può essere definita come educazione ad essere-nel-mondo corporeo […]. Un approccio volto a unire l’immediatezza dell’esperienza incorporata e la molteplicità degli spazi e degli oggetti in cui siamo sempre e inevitabilmente immersi» (Csordas, 2003, p. 19; inserimenti nostri <in corsivo>).

 

2. Educare alla corporeità

 

La svolta culturale, che ha visto divenire il tema del corpo centrale nella riflessione fenomenologica e poi nella ricerca neuroscientifica, è preceduta certamente da contributi rilevanti anche nel dibattito sull’apprendimento e l’educazione. Farnè ricorda come già nel 1974 fosse pubblicato un Quaderno dell’MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) che si intitolava A scuola con il corpo. «Con i contributi, tra gli altri, di Andrea Canevaro, Fiorenzo Alfieri, Francesco Tonucci, questo libro invitava a guardare da un punto di vista diverso il bambino che va a scuola, accorgendosi cioè del suo corpo, della sua presenza fisica, quel corpo che la scuola non considera perché́ la sua pedagogia si rivolge solo alla testa del bambino (Farnè, 2020). Nonostante la diffusione di questi contributi critici la scissione tra corpo e mente pare che continui a permeare la pratica educativa, portando ad una netta e pericolosa distinzione tra cognitivo ed esperienziale. Una scissione che nel periodo pandemico è emersa in modo ancora più vistoso, ma che ci permette di riflettere sulle radici di un disagio e su come ciò si sia innestato nell’emergenza (Damiani & Paloma, 2020). Per dare una qualche continuità ai percorsi educativi formali si è dovuto (o voluto) garantire prioritariamente la dimensione cognitiva, senza tener conto della complessità dei soggetti in formazione e della loro essenziale unicità in qualità di corpi viventi (anche aldilà dello schermo) e delle relazioni che andavano intessendo in quella particolare circostanza (Lombardo & Mauceri, 2020). Se è possibile già ora fare un bilancio di questa esperienza, dobbiamo riconoscere che occorre recuperare tutto ciò che è stato sottratto e rimetterlo al centro del progetto educativo. Ciò è ancora più urgente se pensiamo alla scuola primaria nella quale si contribuisce a costruire l’identità di bambine e bambini (Comitato…, 2018). Bertolini parlando del recupero di questa dimensione suggerisce

 

«la predisposizione di alcune procedure di intervento che consentano all’educando di usare del proprio corpo (o meglio dell’essere il proprio corpo) con libertà ma soprattutto con gioia, ma che obbligano lo stesso educatore a fare altrettanto» (Bertolini, 1988, p. 220).

 

Gli «sviluppi dell’Embodied Cognition Theory (EC) invitano a muovere verso una embodied education» (Tarozzi & Francesconi, 2013, p. 16), un campo di ricerca che promuove «tutte quelle esperienze educative in cui ai soggetti sia consentito di esercitarsi a prendere coscienza della propria esperienza vissuta» (Tarozzi & Francesconi, 2013, p. 16). a partire dalla propria corporeità. «La condotta motoria intelligente si manifesta nell’interazione con la realtà, nella cognizione agita al prodursi stesso dell’esperienza, addirittura nel determinare l’esperienza di cui è parte» (Ceciliani, 2018). Una definizione che ha un connotato che si sposta dalla dimensione teorica alla dimensione empirica, operativa e pratica. I ragionamenti qui sintetizzati portano dunque a considerare l’opportunità di educare alla corporeità intesa come educazione ad una soggettività incarnata che permetta di creare relazioni qualitativamente dense con l’altro, l’altra, e con gli elementi culturali, fisici e naturali in cui i soggetti in formazione si imbattono nel mondo. Un approccio educativo che conduce a dare valore allo spazio, agli spazi, alle relazioni che i bambini e le bambine costruiscono intersoggettivamente nello spazio e nel tempo, alle cose inanimate ed animate, agli oggetti culturali che si offrono alla loro attenzione con una particolare cura a ciò che essi, come corpi viventi, contattano, costruiscono e di cui si prendono cura.

 

3. La corporeità nella didattica

 

L’attenzione al corpo ha prodotto tutta una serie di teorie e di impostazioni pedagogiche e didattiche che hanno il merito di sottolineare quanto la ‘dimensione fisica’ (anche se non si tratta solo di una dimensione) contribuisca ad arricchire cognitivamente il bambino. Il neologismo «corporeità didattiche» (Sibilio, 2011; 2014) nasce proprio dalla riflessione scientifica sulla valenza formativa ed educativa del corpo, inteso come mediatore, un dispositivo d’azione che facilita o potenzia l’acquisizione di conoscenza (Rivoltella, 2012). Questa constatazione ha influenze didattiche molto interessanti (Rossi, 2011), sia nei confronti della prestazione del docente, sia nei confronti delle azioni sollecitate e spontanee dei bambini. Inizia a farsi spazio nel dibattito generale la necessità di dare valore a una didattica attenta all’identità̀ del bambino che impara, favorendone l’esperienza autenticamente vissuta, dunque corporea. La dimensione non verbale e sociale della comunicazione, ad esempio, è esaltata dalle cosiddette performing arts (Even & Schewe, 2016): si tratta di introdurre nella prassi didattica i linguaggi artistici che hanno una dimensionalità complessiva e globale. Ciò̀ comporta l’attivazione di tutti i canali sensoriali e non può̀ prescindere dal movimento corporeo e dalle emozioni. Sono sempre più̀ numerosi gli esempi di didattiche nelle quali il corpo è giocato come un dispositivo di mediazione cognitiva verso gli apprendimenti, mediazione che facilita il coinvolgimento e l’attenzione e che sposta il focus dalla prestazione astratta e immobile al piacere di sentire e percepire il proprio corpo in movimento assieme al gruppo. Su questo solco si inserisce anche la diffusione dell’OE che invita a considerare l’ambiente esterno alla scuola come ambiente d’elezione (Farnè et al, 2018), ricco di saperi unitari, significativi, mutevoli, essenziali per promuovere una didattica all’aperto (Schenetti, 2022) intenzionalmente orientata a rendere i compiti e gli apprendimenti autentici in connessione con il curriculo di Scuola e con il costrutto di competenza (Castoldi 2011). Una didattica della corporeità intenzionale che si gioca all’interno di due organizzatori concettuali: lo spazio e il tempo. Elementi che, a nostro avviso, costituiscono le chiavi per la progettazione di dispositivi didattici in grado di assumere l’unità mente-corpo-mondo dei soggetti in formazione.

 

3.1. Lo spazio del corpo

 

Costruire un setting che accolga l’unità del soggetto come corpo vivente significa considerare lo spazio come ambiente di apprendimento nella sua dimensione fisica e architettonica, tenendo presente le affordances di quello spazio (Guerra, 2022). Oggi il tema degli spazi educativi è particolarmente sentito: siamo di fronte a quella che alcuni chiamano “svolta spaziale” (Santoianni, 2017); presumibilmente nel giro di un decennio le nostre scuole non saranno più̀ quelle in cui ci muoviamo (Tosi, 2019), è necessario quindi incanalare il cambiamento in una direzione pedagogicamente intesa. Anche ora, nelle situazioni destrutturate dall’emergenza Covid-19 che abbiamo davanti agli occhi, è sempre possibile curare lo spazio tenendo conto anche dell’unità dei soggetti che li abitano. Sono due gli elementi che possono agire come detonatori di una più̀ attenta gestione dello spazio in funzione di una didattica della corporeità: flessibilità̀ e co-costruzione. La flessibilità̀ riguarda la capacità di pensare quello spazio (aula, sezione, palestra, giardino) come qualcosa di dinamico che si può̀ modificare continuamente, la capacità di uscirne ogni qualvolta i suoi vincoli limitano le proposte, senza paura di occupare luoghi nuovi, come, ad esempio gli spazi outdoor naturali o urbani di prossimità della scuola e oltre. Flessibilità̀ è altresì̀ pensare ai materiali e agli arredi in un’ottica creativa, poietica, costruendo piccole isole dedicate ad alcune attività̀ per poi modificarle quando non sono più̀ interessanti (Tosi, 2019; Demo, 2016). Flessibilità̀ non significa casualità ma mediazione, riconoscendo la necessità di mettere in relazione le caratteristiche degli spazi con gli interessi e i bisogni di chi li abita. Alcune ricerche mettono in evidenza come l’ordine permetta ai bambini di concentrarsi meglio e li rassicuri suggerendo di allestire i luoghi in modo da non renderli troppo pieni e neppure troppo vuoti. Fare attenzione alla possibilità di disporre di una buona qualità di luce naturale in quanto favorisce l’apprendimento; dosare gli stimoli visivi perché se è vero che consentono di sollecitare l’attenzione, un loro eccesso può̀ sovraccaricare la percezione (Barret et al., 2016). In questo senso la flessibilità̀ rappresenta una scelta intenzionale e condivisa nel gruppo docenti, uno stile di scuola. Uno stile che anche nell’emergenza deve mantenersi leggibile.

Il secondo elemento è la co-costruzione. Gli spazi educativi che abitiamo sono preesistenti, la necessità è trasformarli in spazi vissuti (Iori, 1996), in luoghi nei quali ciascuno può dare significato agli oggetti e alle cose, in relazione a sé stessi e al gruppo. I riscontri empirici della letteratura degli ultimi anni dimostrano che vi è una relazione significativa fra place based learning (Smith, 2002) e processi di apprendimento. I bambini hanno bisogno di costruire l’identità̀ dei luoghi che quotidianamente riempiono con i loro corpi. Un luogo co-costruito, e non semplicemente arredato, offre l’occasione di sentirsi circondati da ciò che è diventato significativo, di costruire la propria identità incarnata nel muoversi, raggiungere cose, spostare, salire, ma anche riordinare, spazzare, lavare in autonomia (Montessori, 1909). Un’autonomia che è sollecitata o frenata dalla conformazione dello spazio e, soprattutto, dallo stile d’insegnamento «produttivo» (Mosstonm & Ashworth, 1994) con cui si organizzano le esperienze. Costruire insieme uno spazio significa educare il sé presente a prendersi cura della propria identità̀ attraverso l’attenzione al luogo in cui questa identità̀ si va costruendo.

 

3.2. Il tempo del corpo

 

La dimensione del tempo quotidiano nei servizi educativi e nelle scuole è un aspetto dell’organizzazione didattica fondamentale dal punto di vista educativo: la gestione dei ritmi, delle scansioni e delle alternanze ha una ricaduta diretta sulla sostenibilità̀, in relazione al soggetto. Il tempo dei bambini è pieno di tutto, incastrato tra l’impegno scolastico ed extrascolastico (Bertolino, 2022). Il tempo del sapere, dell’insegnamento e dell’apprendimento corre il rischio di diventare il tempo dell’urgenza, del successo e dell’insuccesso. In questa direzione un aumento di richieste cognitive, di stimoli e informazioni non corrisponde a un accrescimento delle competenze globali, in particolare delle autonomie senso-motorie. Occorre riequilibrare le esperienze dei bambini ad una dimensione identitaria globale, quindi corporea (Zavalloni, 2008, p. 26). È necessario ritrovare il tempo vissuto (Iori, 2006), che è il tempo del soggetto in carne ed ossa, ed inserirlo nella didattica attraverso due tipi di sforzo progettuale: da una parte calibrare le attività̀ con ritmo, immaginando momenti di recupero, attività cerniera e pause attive (Mulato, Riegger, 2014; Borgogni, 2020), dall’altra prepararsi a non stare dentro al tempo previsto, allargarsi, fermarsi, spostarsi per rispettare il tempo di apprendimento di ciascuno, con flessibilità. Il tempo del corpo è scandito da ritualità̀ che aiutano e rassicurano i bambini e permettono la costruzione di un senso temporale che è, di nuovo, identitario, in grado di permettere al bambino di “incarnare” i saperi, rielaborarli, connetterli al proprio mondo. Le ritualità̀ sono elementi del tempo vissuto in quanto offrono un’autonomia e una libertà (co-costruita e regolata dal gruppo) che favorisce l’espressione della propria soggettività. In questa direzione diviene fondamentale progettare le forme di accoglienza e coinvolgimento; i riti di transizione tra un’attività, un’esperienza o una disciplina e l’altra; l’organizzazione del momento del pasto, la gestione fisica dello spazio e i servizi per la comunità̀, in modo da incentivare un ritmo nel movimento quotidiano orientato alla condivisione e alla costruzione del gruppo. Il gioco è un’esperienza esemplare del tempo vissuto: troppo spesso è un tempo ritagliato tra attività̀ strutturate, eppure sappiamo bene quanto sia generativo dal punto di vista cognitivo e della costruzione del sé, quante competenze siano apprese proprio in quel contesto informale (Bondioli, 1996).

 

4. Conclusioni: ripensare al corpo vivo, oltre le discipline

 

Questo contributo, partendo da uno sfondo teorico focalizzato sull’unità mente-corpo, così come delineata dalla fenomenologia e dagli sviluppi delle neuroscienze, evidenzia il ruolo trasversale del corpo nella dimensione educativa e didattica (Oliviero, 2017). Ponendo il Leib, fenomenologicamente compreso, nel cuore della dell’esperienza vissuta, ribadisce la centralità di un’educazione alla corporeità che esalti la qualità delle relazioni tra il soggetto e gli altri, il contesto, gli oggetti, il sapere. Un corpo vivo, sempre connesso al mondo, che sperimenta e apprende le proprie possibilità di agire e cambiarlo (Faggioli, 2021). Da queste premesse deriva la necessità di una didattica quotidianamente attenta alla costruzione del sé; dunque, ad un’identità̀ che è prima di tutto fisicamente agita (Balduzzi, 2017). Si sollecitano quindi alcune riflessioni sulla progettazione di ambienti di apprendimento e setting didattici nei quali il corpo vivo è continuamente accolto, educato, stimolato, attivo. Una didattica particolarmente impegnata a stimolare la percezione, l’esperienza diretta, la relazione, in sintesi il ruolo centrale della corporeità nella cognizione (Faggioli & Schenetti, 2020). L’uso prevalente di spazi chiusi e artificiali limita l’accoglienza di quella soggettività incarnata a cui si fa riferimento. Modificare i luoghi, i materiali e gli arredi è importante ma non sufficiente. Aprirli al territorio e a ciò che sollecita il movimento e l’esplorazione aumentando la qualità della percezione è decisivo. L’istituzione delle scuole all’aperto, già̀ dal secolo scorso, rivela, tra tutti gli elementi di positività̀, l’esigenza di abbandonare i luoghi chiusi e immobili tipici del fare didattica per destrutturare la rigidità̀ dei corpi, correlato della passività̀ dei metodi (D’Ascenzo, 2018). L’esperienza di una Rete pubblica nazionale che praticano l’educazione all’aperto (2016) sta assumendo caratteristiche molto interessanti in questo senso: lo spazio didattico, così come si configura all’esterno, è centrale nella progettazione complessiva di scuola e sollecita un ripensamento delle pratiche educative e didattiche e nuovi orizzonti per la formazione degli insegnanti (Schenetti, 2022b). La letteratura scientifica internazionale suggerisce che i setting naturali possano essere promotori di cambiamento nelle pratiche degli insegnanti (Mygind, 2009) e che le caratteristiche dei luoghi hanno influenze positive sulle stesse progettazioni didattiche (Mannion et al., 2011). Questi ragionamenti conducono al ribaltamento di un’ottica: non si tratta di fare didattica con il corpo, ma di fare didattica incorporando consapevolmente i saperi e le competenze e garantendo ai bambini una relazione concreta e diretta verso la realtà che vanno costruendo e sperimentando. Educare al corpo vivo, ponendolo al centro di relazioni significative con gli altri e il mondo (Bertolini, 1988) promuove pratiche che danno senso all’esperienza della complessità, un senso fondamentale per la costruzione positiva del sé-altro, spazi in cui l’apprendimento è il piacere di esistere e riconoscersi come corpi viventi.

 

Riferimenti bibliografici

 

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