Boccaccio e l’invenzione del libro illustrabile: dal Teseida al Decameron

Autori

  • Martina Mazzetti

Abstract

A sollevare la questione fu Gianfranco Contini, discutendo dell’affascinante e problematica sequenza medievale Roman de la Rose - Fiore - Divina Commedia. Si partiva dalla constatazione in base alla quale, nella gran maggioranza dei casi, i manoscritti che ci tramandano il Roman de la Rose sono adorni di miniature «con possibilità quasi illimitate di dilatazione, fino alla straordinaria abbondanza del Laurenziano Acquisti e Doni». Nonostante, infatti – aggiunge Contini – sia riscontrabile nella tradizione un certo dinamismo nella presenza e nel numero delle miniature, sarebbe inevitabile il riconoscere un ‘nucleo primitivo’, una sorta di serie archetipica di illustrazioni. Miniature – e qui sta il concetto – la cui funzione non sarebbe esornativa bensì esegetica. Per Contini, dunque, il Roman de la Rose nasce originariamente come libro illustrato, e tale scoperta risulta così scardinante da comunicare «l’ansia di esplorare quasi per ogni testo medievale se poteva essere inizialmente un manoscritto illustrato». Il quesito sostanziale, per Contini, non poteva non essere rivolto alla Commedia: egli ammetteva che, a fiuto, il poema dantesco non era nato come libro illustrato, aggiungendo: «tuttavia direi che la Commedia è un libro illustrabile, cioè un libro autorizzato dall’autore all’illustrazione».

E proprio su questi due concetti – libro illustrato e libro illustrabile – si appunterà la nostra attenzione. Del resto, che il Medioevo proponesse un nodo strutturale fra parola e figura che noi moderni non siamo ancora riusciti a cogliere nella sua essenza è indubitabile. La comprensione di come la scrittura fosse colta prima di tutto come figura e, in quanto figura, anche come segno ci ha aperto le porte di una concezione grafico-visiva del ‘testo’ – e con testo, intendiamo, in tal caso, strettamente la ‘lettera’ ma vedremo come il concetto di testo possa mutare e ampliarsi. Non dimentichiamo, infatti, quanto scriveva Paul Valéry nel lontano 1928, sostenendo esser possibile una ubiquità delle opere d’arte proprio perché nelle arti, in tutte la arti, c’è una parte fisica «qui ne peut pas être soustraite aux entreprises de la connaissance et de la puissance modernes». Anche dell’ubiquità delle opere d’arte parleremo.

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Pubblicato

2015-01-22

Fascicolo

Sezione

Dialoghi